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#macao (che era): perché siamo tutti profughi, ma siamo anche tutti sbirri di frontiera

Uno degli occupanti viene a ringraziarmi, si scusa per il finale, dice che una domanda su Timira me l’avrebbe fatta volentieri. “Strano che uno scrittore, il giorno dell’uscita di un suo libro, venga a sedersi per strada, davanti a un centinaio di persone, e non faccia nemmeno un cenno al romanzo che ha scritto”. Chissà, forse ha ragione. Mia suocera me lo dice sempre, che dovrei andare da Fazio.
Lascio “Piazza Macao” – per poi ritornarci la sera, in mezzo a migliaia di persone – con la misura precisa di quanto sia difficile gestire un’assemblea permanente, un collettivo aperto e appassionato. Quanta pazienza, tempo, dedizione e cura siano necessari per confrontarsi, decidere, darsi del noi e agire insieme.
Perché siamo tutti profughi, ma siamo anche tutti sbirri di frontiera.
Siamo indiani nati nelle riserve e ormai nelle praterie, tra i bisonti e l’orizzonte spalancato, abbiamo bisogno di ritrovare l’orientamento.

Wu Ming 2 su passione e delirio a Macao.

#MACAO non si sgombera la fantasia

Stanno sgomberando Macao. Sto arrivando lì. Per vedere, per capire. Intanto pubblico l’articolo scritto giusto ieri per IL FATTO QUOTIDIANO.

Eccoci, l’avevamo già scritto, oggi qualcuno vorrebbe insegnarci che Macao è violenza. Niente a che vedere con l’arte, dicono. Invece Macao è fantasia. E la fantasia non può essere violenta per natura. E’ straripante, inaspettata, destabilizzante e selvaggia. Ma mai violenta. E le parole che sono state usate fino a qui non hanno un mezzo centimetro di spessore per cogliere ciò che succede dentro MACAO per provare a riformularlo in risposta politica (o chiamatela pure proposta, se vi viene la paura di dare troppa importanza ai ragazzi del Torre Galfa). E mi vengono in mente una decina di buoni motivi per provare a smettere di balbettare come professionisti del cerchiobottismo. Perché a guardare da fuori quello che sta succedendo si nota come tutti corrano ad occupare la sedia del non prendere posizioneprenderne poca ma timidamentedire tutto e il suo rovescio. E alla fine De Corato rischia di diventare l’unico veramente comprensibile. Anche perché (anche questo proviamo a dirlo da tempo) in medio ci sta virtus me il rischio è la mediazione che marcisce in mediocrità.

MACAO ha bisogno di una risposta politica, civile e culturale. Al di là dello spazio in cui si esercita.

Perché Milano unge Dario Fo ad ogni vernissage e celebra le palazzina Liberty ma forse non sa bene cosa sia successo davvero.

Perché la partecipazione non si può pretendere con la manina alzata e tutti composti ai banchi. E ogni forma di partecipazione ha la propria disciplina (e indisciplina) ma il punto rimane coglierne il cuore.

Perché i fan di tutti gli #occupy del mondo poi in fondo vogliono ordine e disciplina sotto il proprio balcone. Un #occupy federalista: l’importante è che rompa le scatole agli altri fuori dal nostro quartiere.

Perché la cultura (so che a qualcuno dispiace) è fatta anche di lavoratori. E anche i lavoratori della cultura si incazzano come si incazzano tutti i lavoratori del mondo. E anche nella miseria di questo campo cominciano a esserci fastidiosi piccoli Marchionne.

Perché dentro MACAO non ci sono (come leggo in giro) contraddizioni: l’appello di MACAO è semplice, diretto e chiaro. Si può essere d’accordo o meno. Vietati i “ni”, per favore.

Perché sarebbe proprio bello in un EXPO che puzza solo di grigi e lobby immaginare subito un orto per MACAO (con tutto lo spazio che c’è, no?). E poter dire che l’abbiamo curato e innaffiato, quando saremo anziani con i nipoti, raccontarci come l’abbiamo immaginato insieme senza ombre e abbiamo preso la responsabilità di coglierne i frutti. Fare politica, insomma.

 

Benvenuto Macao!

(attenzione, questo è un post che qualcuno estrarrà dal cilindro per farne pantano nella prossima campagna elettorale: salvatelo tra i preferiti per non affaticare l’esercizio della banalità e i motori di ricerca)

Dunque a Milano sboccia Macao. O forse la notizia è che a Milano (e in Lombardia) negli ultimi anni non si è riusciti a rispondere alle motivazioni che dentro Macao sono coagulate. Mentre gli editorialisti prezzolati gridano allo sgombero subito (e fa sorridere vedere i giornali di centrodestra in difficoltà tra l’attacco al sindaco Pisapia e agli okkupanti) oggi qualcuno vorrebbe insegnarci che Macao è violenza. Niente a che vedere con l’arte, dicono. Invece Macao è fantasia. E la fantasia non può essere violenta per natura. E’ straripante, inaspettata, destabilizzante e selvaggia. Ma mai violenta.

Quindi forse sarebbe il caso di puntare meno al luogo e ora interrogarsi sulla spinta propulsiva. Si legge sul manifesto di Macao:

Da un anno ci stiamo mobilitando, riunendoci in assemblee dove discutere della nostra situazione di lavoratori precari nell’ambito della produzione artistica, dello spettacolo, dei media, dell’industria dell’entertainment, dei festival e della cosiddetta economia dell’evento. A questa logica per cui la cultura è sempre più condannata ad essere servile e funzionale ai meccanismi di finanziarizzazione, noi proponiamo un’idea di cultura come soggetto attivo di trasformazione sociale, attraverso la messa al servizio delle nostre competenze, per la costruzione del comune.

Rappresentiamo una fetta consistente della forza lavoro di questa città che per sua vocazione è da sempre un avamposto economico del terziario avanzato. Siamo quella moltitudine di lavoratori delle industrie creative che troppo spesso deve sottostare a condizioni umilianti di accesso al reddito, senza tutela, senza alcuna copertura in termini di welfare e senza essere nemmeno considerati interlocutori validi per l’attuale riforma del lavoro, tutta concentrata sullo strumentale dibattito intorno all’articolo 18. Siamo nati precari, siamo il cuore pulsante dell’economia del futuro, e non intendiamo continuare ad assecondare meccanismi di mancata redistribuzione e di sfruttamento.

Apriamo MACAO perché la cultura si riprenda con forza un pezzo di Milano, in risposta a una storia che troppo spesso ha visto la città devastata per mano di professionisti di appalti pubblici, di spregiudicate concessioni edilizie, in una logica neo liberista che da sempre ha umiliato noi abitanti perseguendo un unico obiettivo: fare il profitto di pochi per escludere i molti.

Insomma Macao apre perché il dibattito è stato escluso dalle istituzioni. E forse non stupisce che proprio su questo blog si diceva che non fosse pensabile crescita senza cultura, del patrimonio culturale a pezzi, dei tagli alla cultura come un lento assassinio alla consapevolezza, e il nostro appello con più di 1300 firme.

Perché se la cultura non può essere bene comune è solo sofismi al servizio di qualche altro interesse.