Il testimone si inventa un lutto per non testimoniare: la paura, a Roma.
È una storia che lascia spazio a molte riflessioni quella di Filippo Maria Macchi, l’imprenditore romano che nel 2014 era ricorso a Massimo Carminati per farsi prestare trentamila euro. Aveva tra le mani un affare di oro in arrivo dall’Africa (che poi sfumò) e pensò che un prestito “facile” dalla criminalità potesse essere la strada più semplice. Ma non fu così. E oggi Macchi, chiamato a testimoniare, si dimostra impaurito come ci si aspetterebbe in una storia di mafia del profondo sud di qualche decennio fa; e invece accade a Roma, nella capitale in cui il processo Mafia Capitale viene usato per scagliarsi addosso a qualche candidato sindaco ma in realtà scompare dalla cronaca. Così Macchi prima si inventa un lutto (mai esistito) e poi portato a forza davanti al magistrato nega di avere mai ricevuto le minacce. E attenzione: se non si riesce a dimostrare minacce e intimidazioni cade l’accusa di mafia, che è proprio l’obiettivo degli avvocati di Carminati e compagnia. Quando il pm ha fatto ascoltare in aula le parole che Macchi aveva pronunciato al maresciallo dei Ros che l’aveva contattato per testimoniare («Marescià, sappiamo che queste sono persone che si sò rivalse e che si rivalgono contro chi gli si rivolge contro…») l’imprenditore ha provato a balbettare una scusa, una mezza frase. E invece è la mafia con tutti i suoi effetti. A Roma.