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mafia capitale

Per quelli che “non è mafia”: Mafia Capitale si riorganizzava come un oliato clan

Minacce di morte, pizzini e regole sulla successione. Roba da associazione mafiosa, per l’appunto, quella che ieri la procura di Roma ha depositato al tribunale dei Riesame, chiamato a decidere sulla revoca della custodia cautelare di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, entrambi calabresi ed entrambi in carcere dall’11 dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta su Mafia Capitale (i giudici si sono riservati).

I due, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, sarebbero il collegamento tra la banda guidata da Massimo Carminati e il clan Mancuso di Vibo Valentia. Un legame che avrebbe uno snodo centrale in Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative capitoline, considerato dai pm il braccio finanziario del “Cecato”. Parla chiaro l’informativa che i carabinieri del Ros del 3 gennaio: i legami con i calabresi c’erano eccome, secondo l’accusa.

Il 3 dicembre, giorno successivo ai primi arresti, Rotolo e Ruggiero (in quel momento ancora a piede libero, ndr) non si danno pace. Commentano gli arresti con gli amici, si preoccupano di non fare la stessa fine. E pensano alla gestione futura: già il giorno successivo alla retata, fissano un incontro per decidere che cosa ne sarà della Cooperativa 29 giugno, fino ad allora guidata da Buzzi.

Prima di andare alla riunione Rotolo incontra Franco La Maestra, ex brigatista condannato a 18 anni di carcere e coinvolto nell’omicidio di Massimo D’Antona, e uomo di fiducia di Buzzi. L’ex terrorista racconta: “Ieri l’ho visto (Buzzi, ndr). C’ha teso a specificà a noi de Giovanni (Campennì, ndr). .. ha detto… “quello non deve… non si deve neanche avvicina’…” le testuali parole so state queste mentre lo portavano via… “non voglio che Giovanni stia in mezzo ai piedi”… ci ha detto a me e a Salvatore (Ruggiero, ndr)”. Giovanni Campennì, imprenditore, secondo i pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli è il collegamento tra Buzzi e la ‘ndrangheta.

Non a caso Rocco e La Maestra si stupiscono delle parole di Buzzi e si chiedono se quest’ultimo non avesse appositamente voluto far individuare Campennì dalle forze dell’ordine. “E se l’è cantatu stu scemo di merda?  –  chiede Rotolo  –  I Mancuso u ‘mmazzano”. Sta di fatto che, proprio come nella tradizione mafiosa, Buzzi negli attimi prima di finire in carcere, riesce a dare le indicazioni sulla sua “successione” alla guida delle cooperative. Vuole escludere Campennì e decidere chi deve prendere il suo posto. “Mentre andava via  –  dice ancora La Maestra a Rotolo  –  m’ha guardato e m’ha fatto: “Me raccomando, non litigate. Tu sei il capo, mi raccomando, non litigate”. Poi mentre andava via mi ha detto: “Ci vediamo tra due anni”… lui s’è già attrezzato”.

Infine i pizzini. I militari del Ros ne hanno sequestrati alcuni a casa di Salvatore Ruggiero. In mezzo a una serie di ricevute di pagamento da parte della Cooperativa 29 Giugno, gli investigatori hanno trovato anche due pen drive, una lettera del 2004 in cui Buzzi invitava i suoi soci e dipendenti a votare Oriano Giovannelli e Nicola Zingaretti al Parlamento europeo e tre pizzini. Uno con la dicitura “Glok 179.21, uno con scritto “Rosario 29 giugno” e un terzo: “Fasciani”. Probabilmente il riferimento è al clan che da anni gestisce la malavita di Ostia. Elementi sui quali ora il Ros è al lavoro.

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“Quella testa di cazzo del sindaco continua a fa’ lo stronzo”

ignazio-marino-il-sindaco-di-roma-in-bici-che-non-ci-fa-piu-sognareUno stage per il figlio nella “sua” Fondazione in cambio di una struttura a Castelnuovo di Porto, località alle porte di Roma, dove sistemare centinaia di immigrati. Il baratto per portare a dama l’ennesimo flusso di immigrati — uno degli introiti più grandi per Mafia Capitale — sarebbe avvenuto tra il prefetto Mario Morcone, vertice del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Viminale, e Luca Odevaine, l’uomo al libro paga del clan di Carminati («je do cinquemila euro al mese»), da ex vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni al Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo.

Il coinvolgimento del ministero dell’Interno è l’ultimo scandalo che salta fuori dalle carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo”, diretta dai pm Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini. Emblematica un’intercettazione in cui Luca Odevaine, nel suo ufficio, parla con Mario Schina, consigliere della cooperativa sociale “Il percorso” che si occupa di campi rom.

È il 18 giugno del 2014, due giorni prima Morcone era stato nominato da Alfano nel suo nuovo incarico al Viminale. I due parlano di come riuscire ad aprire una struttura per immigrati a Castelnuovo di Porto. Il problema da risolvere è che in quella località esiste già un altro grosso centro. Odevaine spiega di aver contattato il prefetto Morcone. «Quando gli ho detto “dico guarda Mario c’è questa roba” dice “eh ma cazzo, l’hanno attaccati così”».

«Manco se ne accorgono », risponde Schina. Già. «Chi cazzo se ne accorge — replica Odevaine — che ce stanno 400 persone in più, lui (sempre Morcone, ndr) m’ha detto “sì effettivamente”, dico «eh, lì bisogna convincere Peppino Pecoraro (prefetto di Roma, ndr). Quando gli ho detto così mi fa “per carità io con Peppino non ci voglio avere niente a che fare”». Perché Pecoraro, a detta dei due, è una persona che le cose se le studia. «Per cui — conclude Odevaine — non so se Mario Morcone potrà forzare su Pecoraro, però se scrive al sindaco magari uno spazio c’è, però certo effettivamente 100 appartamenti davanti al Cara…».

L’ex capo della polizia Provinciale di Roma, ora in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, la cui scarcerazione ieri è stata discussa al tribunale del Riesame, così come quella di altri 8 arrestati, tra cui l’ex ad Ama Franco Panzironi, ha un rapporto intimo con Morcone. «Io le cose gliele posso dire proprio — dice sempre a Schina nell’intercettazione del 18 giugno — ora mi stava venendo in mente che oggi m’ha chiesto “mio figlio si sta laureando, non so in che cosa” dice “mi piacerebbe fargli fare uno stage”. Dico “guarda te lo prendo io in Fondazione, Mario, figurati, lo sai…”.

Io posso pure a un certo punto che ne so dirgli Mario, famme la cortesia, prendimi al centro le 70 persone a Tivoli. Ecco per i rapporti che ho con lui io posso anche dirgli una cosa del genere». Anche per l’apertura del Cara di San Giuliano in Puglia Odevaine bussa alla porta di Morcone. «Quella testa di cazzo del sindaco — spiega Odevaine — continua a fa’ lo stronzo. Ho detto a Mario “se tu te la senti la requisisci (la struttura di interesse del clan, ndr)”, m’ha detto “io non c’ho problemi, io gliela requisisco”. Però se la requisisce, poi la gara la fa la prefettura capito?».

I CONTANTI PER I FONDI NERI

Al centro dei pensieri di Odevaine c’è anche il modo di gestire al meglio il flusso del “nero” da ripulire. Il sistema è quello delle fatturazioni per operazioni inesistenti. «Chi ci deve pagare ci dà 20.000 euro in contanti e noi glieli diamo a un signor X il quale ci paga una fattura falsa. Ci paga coi soldi nostri però».

Resta solo da trovare i complici. E anche qui Odevaine ha la risposta pronta: «Si può chiedere a Pulcini (il costruttore amico di Carminati più volte citato nell’inchiesta, ndr ). Lui è un cliente del Monte dei Paschi, uno dei clienti più importanti, quindi il Monte non ha nessuna difficoltà».

Intanto ieri, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha accolto la richiesta della procura di Roma e ha disposto il regime di 41 bis per Massimo Carminati.

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Il prefetto imperfetto

Non so perché ci sia così tanta timidezza intorno al Prefetto di Roma. Perché le ultime uscite su Buzzi & co. cominciano ad essere imbarazzanti, mi pare:

La prefettura di Roma diede il via libera alla stipula di una convenzione con la cooperativa di Salvatore Buzzi per la gestione dell’emergenza legata all’arrivo dei profughi a Castelnuovo di Porto, paesino alle porte della capitale. Un documento datato 18 marzo 2014 – allegato agli atti dell’inchiesta sull’organizzazione mafiosa guidata, secondo i magistrati, dallo stesso Buzzi e dall’ex estremista dei Nar Massimo Carminati – sembra smentire la versione ufficiale fornita dal prefetto Giuseppe Pecoraro che aveva detto subito, e poi ribadito di fronte alla commissione parlamentare Antimafia, di aver rifiutato la proposta di Buzzi. E dimostra che subito dopo l’incontro avvenuto a Palazzo Valentini fu avviata la procedura per inviare i migranti nella struttura di accoglienza situata a Borgo del Grillo.

Si tratta di una missiva firmata dal dirigente Roberto Leone, spedita «al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore» che ha come oggetto «l’afflusso di cittadini stranieri richiedenti la protezione internazionale e l’individuazione delle strutture di accoglienza». Il testo è breve ma fornisce tutte le informazioni: «Facendo seguito alla circolare del ministero dell’Interno dell’8 gennaio scorso e alla luce delle manifestazioni di disponibilità ricevute, si chiede se sussistano motivi ostativi alla stipula di una convenzione con il soggetto sottoindicato: Eriches 29 consorzio di Cooperative Sociali. La sede proposta per l’accoglienza si trova in Borgo del Grillo. Si allega la documentazione relativa alla manifestazione di disponibilità ricevuta e si resta in attesa di cortesi urgenti notizie, rappresentando che in mancanza di elementi ostativi si procederà alla stipula della convenzione». La lettera risulta protocollata in uscita il 19 marzo 2014 e arrivata il giorno dopo al Comune di Castelnuovo.

Proprio il 18 marzo, alle ore 18, Buzzi, aveva incontrato Pecoraro. Sono le carte dell’inchiesta a ricostruire che cosa accadde in quei giorni. In una conversazione del 17 marzo Buzzi racconta a Carminati di aver perso il ricorso al Tar contro l’affidamento della gestione del Centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto a una società concorrente. Si capisce che sta cercando di concludere nuovi affari, di ottenere la gestione di altre strutture. Gli spiega che «domani c’ho appuntamento co’ Gianni Letta». Di questa riunione Buzzi parla anche con Luca Odevaine, all’epoca componente del Tavolo del Viminale che si occupava proprio dell’emergenza legata all’arrivo dei profughi e ora in carcere con l’accusa di aver fatto parte dell’associazione mafiosa. Vuole avere un consiglio su quali siano i temi da affrontare e Odevaine suggerisce: «Gli si può chiedere perché Pecoraro c’ha ferma un sacco de roba, c’ha fermo Castelnuovo di Porto, 100 appartamenti».

Il 18 marzo alle 10.30 i carabinieri del Ros vedono Buzzi entrare con uno dei suoi collaboratori nell’ufficio di Gianni Letta. Quando esce chiama Odevaine e annuncia: «È andata bene, alle 6 vedo il prefetto». Il pedinamento conferma che effettivamente alle 17.45 di quello stesso giorno Buzzi entra alla prefettura di Roma e rimane fino alle 18.35. Appena esce chiama nuovamente Odevaine: «Col prefetto è andata molto bene, gli abbiamo parlato di questo Cara di Castelnuovo di Porto… no del Cara, gli abbiamo parlato di questo immobile che c’è e lui m’ha detto: “Basta che il sindaco me dice di sì io non c’ho il minimo problema, anzi la cosa è interessante, lasciatemi tutto”».

Quando gli atti processuali diventano pubblici e infuria la polemica sugli appalti concessi dal Campidoglio alle Cooperative di Buzzi, la commissione Antimafia avvia una verifica e convoca tra gli altri proprio Pecoraro. In quella sede il prefetto dichiara: «È vero, ho ricevuto Salvatore Buzzi ma non sapevo nemmeno chi fosse: il problema vero è la facilità con cui si può arrivare alle istituzioni e l’assoluta mancanza di controlli. Buzzi è venuto da me dopo che il dottor Letta mi aveva chiamato, io l’ho ricevuto e ho detto di no alla sua proposta che consisteva nella disponibilità di cento appartamenti per gli immigrati a Castelnuovo di Porto. Gli ho spiegato che lì ho già il Cara, che gli immigrati in una città così piccola sarebbero stati troppi». In realtà la lettera spedita il 19 marzo scorso sembra raccontare una verità completamente diversa. Pecoraro adesso ammette che effettivamente ci fu un tentativo, ma spiega: «È un tipo di missiva che abbiamo mandato a tutti i sindaci della provincia chiedendo se c’era disponibilità di posti».

(fonte)

“i giudici devono fare le sentenze, ma le leggi le fa il Parlamento”

Chiudete gli occhi e pensate a quante volte avete sentito negli ultimi vent’anni questa frase. Tanto che ci siete pensate anche a quante volte si è pensato all’organizzazione di un grande evento per rilanciare (o meglio: distrarre) una città dopo un terremoto (fosse anche giudiziario). Bene ora siete pronti per leggere l’intervista del premier Renzi al Messaggero:

“Roma deve ripartire”. Matteo Renzi, intervistato da Il Messaggero, non ci sta a subire l’attacco dell’Anm sulle norme anti-corruzione e contrattacca, ricordando che “i giudici devono fare le sentenze, ma le leggi le fa il Parlamento”. Ma assicura “durezza senza fine” contro i responsabili di Mafia Capitale, perché “chi lucra sui poveracci mi fa schifo”.

ROMA E LA MAFIA. “Roma non è corruzione. Roma è meno che mai la mafia. Roma, insisto, deve ripartire” dice il premier. Quanto all’amministrazione capitolina, “Marino deve fare il sindaco. I romani gli hanno chiesto proprio questo: tenere pulita la città, sistemare le buche, efficientare la macchina, far funzionare le scuole con le mense e i servizi, disciplinare il traffico, investire in cultura e tutto quello che deve fare un buon sindaco”. Tuttavia “al Campidoglio sono comprensibilmente scossi per quanto è accaduto. Ma mi verrebbe da dir loro, in romanesco: ahò, dateve ‘na mossa, non state fermi là. Roma deve ripartire. Com’era lo slogan di Marino in campagna elettorale? Daje! Appunto”. Renzi ricorda che il Pd ha saputo reagire: “Il Pd ha fatto una scelta semplice: commissariare per dire che noi non abbiamo paura di niente e di nessuno. Se qualcuno dei nostri ha sbagliato è giusto che paghi tutto, fino all’ultimo centesimo, fino all’ultimo giorno. Gli sconti si fanno al supermercato, non in politica. Detto questo, siccome noi siamo garantisti, chiediamo, anzi pretendiamo, che si corra, il più veloce possibile, verso i processi e le sentenze”.

ANM E IL DDL ANTI-CORRUZIONE. “Provo il massimo rispetto per i magistrati quando giudicano e fanno le sentenze. Ma preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con comunicati stampa. Un magistrato deve scrivere le sentenze, le leggi le fa il Parlamento” afferma Matteo Renzi, secondo cui “gli strumenti per combattere la corruzione ci sono. Li abbiamo aumentati”.

ROMA E LE OLIMPIADI. “Io non lascio Roma a quelli che rubano. E le Olimpiadi sono una grande occasione” prosegue il premier, “un progetto a lunga scadenza, perché il Paese torni a progettare, a pensare al futuro, a discutere, riflettere, sognare. Ma in modo concreto. E con tutti i controlli del caso. Saremo inflessibili. Ma non possiamo rinunciare a un sogno solo perché qualcuno vorrebbe rubare anche quello”.

QUIRINALE. “Il patto del Nazareno è stato siglato un anno fa, quando le dimissioni di Napolitano non erano in agenda. Questo è il motivo per cui non c’è nessun patto preventivo tra Pd e Fi” sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Matteo Renzi auspica che “nella maggioranza ampia che dovrà eleggere il nuovo garante dell’unità nazionale ci siano più partiti possibili”. Anche Berlusconi, che d’altronde “è stato decisivo nel votare Ciampi nel 1999 e Napolitano nel 2013”. Per questo “al momento opportuno ci incontreremo”. “Spero”, dice ancora Renzi, che gli esponenti del Movimento 5 Stelle “non rimangano anche stavolta alla finestra”. Nessun nome, perché “oggi chi fa nomi li vuole solo bruciare”. Come Nichi Vendola, che spinge per Romano Prodi: “Si ricordi di quando nel ’98 mandò a casa il prof, ormai fa il gioco di M5S e Lega”. Renzi fa notare che “Sel fa ostruzionismo su tutto, seguendo i grillini e la Lega di Salvini e Calderoli. Ma davvero non vogliono provare a uscire da questa logica di scontro frontale? E dire che gli abbiamo anche mandato un bel segnale con l’abbassamento della soglia per la legge elettorale. Ma sembrano sordi al dialogo”.

Mafia Capitale gocciola su Tivoli

di Giuliano Girlando – 15 dicembre 2014
Veduta-3Nella carte di “Mafia Capitale” un piccolo ma significativo posto è riservato anche a Tivoli, luogo di rilevanza per quanto riguarda il patrimonio culturale e monumentale laziale ma anche di grandi traffici più o meno illeciti.

<<S:     eh l’ami, l’amico mio, t’ho detto, stanno pensando di diversificare il rischio, uno si piglia i pasti, uno si piglia l’immobile 
SC:     ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah….
S:     ho detto va be’, qual è il problema ? Si quantifica quant’è le percentuali…
SC:     no, perché guarda io ieri ho fatto una simulazione, perché poi oggi stiamo impicciati per telefono, ieri è venuto Giancarlo e mentre stava con me l’ha chiamato Genova 
S:     mh
SC:     che gli chiedeva a Giancarlo che ne pensava di fare st’operazione anticipandolo con i soldi, a me che questo si consiglia con Giancarlo mi pare strano, però hanno parlato davanti a me, e io nel frattempo ho fatto una simulata, no? Ho fatto una simulata, a loro gli ho dato altri valori, ovviamente, ma io ho fatto una stima che è il cento per cento, esattamente il cento per cento, spendi cinquanta…  
S:     e incassi cento, no ?
SC:     e incassi cento
S:     è quello che c’avevano…. quello che ha detto l’amico mio
SC:     esatto, esatto, esatto, esatto, più sono alti i numeri… se abbassi i numeri invece del cento c’hai il novanta 
S:     se li portiamo a questi livelli, soltanto, metti che ci sta pure qualche inconveniente… ma ci deve essere cento, sarà ottanta  
SC:     si, si, si
S:     anche ottanta sono belle cifre, no ? 
SC:     certo, certo, certo >>

Salvatore Buzzi e Sandro Coltellacci finiti agli arresti nell’operazione Mondo di Mezzo, stanno parlando di reperire un centro adatto all’accoglienza degli immigrati puntando sull’immobile “Tivoli 2”, migliore per ricettività e condizioni. Così è stato in effetti, perché l’immobile in questione è la clinica Colle Cesarano posta vicino all’uscita dell’autostrada di Tivoli, che a tutti oggi ospita immigrati. La questione sociale era diventata per Buzzi & Co, infatti, un chiodo fisso sul quale battere per ben speculare. Siamo nel dicembre 2012 e Buzzi riferiva al suo interlocutore dell’accordo raggiunto, relativo alla gestione dei centri di accoglienza, secondo il quale: “noi” (come cooperative sociali ndr) avremmo messo a disposizione gli operatori, “i pasti” sarebbero stati assicurati “dall’amico nostro” e tale “Manfredi” si sarebbe occupato di fornire la struttura. Salvatore Buzzi contattava così Manfredino Genova , amministratore di Geress Srl la società che gestisce Colle Cesarano. E’ una storia tutta a sé questa di Colle Cesarano ma prima è necessario riannodare i fili del passato.

Cosa lega infatti l’area tiburtina di Roma con gli affari del boss Carminati e i suoi sodali? Il collante dell’estremismo politico è più di ogni altra cosa ciò che lega insieme appunto una certa Tivoli e gli uomini di Carminati. Un sodalizio che si spiega solo con il passato di questa cittadina il quale certo non può essere l’unica spiegazione, visti i filoni che si stanno intrecciando e che sono arrivati fino in Sardegna. Un quadro storico sul passato di estremismo nero della città è utile per avere chiaro in mente l’evidenza di quel collante.

Paolo Signorelli. Il “gruppo di Tivoli”
 resta negli anni della strategia della tensione tra i gruppi quello più legato all’ex “comandante militare” del MPON (Movimento Politico Ordine Nuovo, ndr) Pierluigi Concutelli.  E’ il 1971, quando un professore di matematica del Liceo Scientifico di Tivoli fonda un’associazione contro i comunisti, e quel circolo divenne famoso poi col nome di “Pierre Drieu La Rochelle”. Il professore era Paolo Signorelli, uno dei massimi dirigenti del Centro Studi Ordine Nuovo (da cui nacque e si divise poi l’MPON in seguito a contrasti interni) che se ne fa promotore. Il circolo era appunto un’emanazione di Ordine Nuovo. Aldo Stefano Tisei tra i membri del circolo insieme a Sergio Calore, poi si pentirà e racconterà bene questa storia.

I Tiburtini e i Carabinieri.
 Nel 1974, infatti, dopo un attentato ai danni del Circolo `Drieu La Rochelle’ di Tivoli, Aldo Tisei e Sergio Calore raccolgono informazioni secondo cui a compiere il fatto sarebbero stati i giovani della sinistra extraparlamentare. Paolo Signorelli, viene informato e  chiede  una `relazione’ scritta sui fatti e sui presunti responsabili; qualche giorno dopo arrivano a Tivoli due ufficiali dei Carabinieri: l’allora tenente Sandro Spagnolli  e un capitano Antonio Marzacchera. Si presentano, in divisa, direttamente al `bar Garden’,  punto di ritrovo ai giardini di Piazza Garibaldi per  Sergio Calore e soci, e, dopo aver salutato alla maniera nazista, dichiarano che vengono da parte del professor Signorelli e desiderano saperne di più sull’episodio. Calore e Tisei hanno modo di vedere, nelle mani dei due ufficiali, la `relazione’ che essi stessi avevano consegnato a Signorelli.”

Sergio Calore e l’inchiesta sepolta. E’ proprio Sergio Calore che più di ogni altro nel gruppo ci aiuta a far luce sulla storia dell’eversione nera perché Calore è stato anche il più prezioso collaboratore di giustizia sui fatti di Piazza Fontana e la strage di Bologna, sull’omicidio del giudice Vittorio Occorsio assassinato da Pierluigi Concutelli nel 1976 e su altri omicidi avvenuti durante alcune rapine di autofinanziamento dell’organizzazione. Negli ambienti neofascisti Sergio Calore era da tempo considerato un doppio traditore: già prima di essere arrestato aveva teorizzato e praticato una “torbida e ambigua” alleanza tra rossi e neri in funzione antisistema. E nel 1989 Calore sposò Emilia Libera, altra storica pentita del terrorismo rosso, conosciuta negli anni di piombo col nome di battaglia “Nadia” e amica di Antonio Savasta. E’ stata proprio Emilia il 7 ottobre del 2010 a ritrovare il corpo senza vita di Sergio, ucciso nella sua casa di campagna in via Colle Spinello, a Guidonia. I carabinieri hanno avviato indagini e rilievi scientifici nel casolare di proprietà di Calore. L’uomo potrebbe essere stato ucciso a colpi di piccone. I carabinieri – avrebbero infatti trovato l’utensile sporco di sangue vicino al corpo della vittima che presenterebbe quindi non solo una profonda ferita al collo ma anche in altre parti del corpo. Un’indagine sarebbe stata aperta dalla procura di Tivoli di cui non si conoscono ancora , dopo quattro anni dall’omicidio i risvolti né i risultati. Questa morte si è persa nelle campagne di Guidonia e negli uffici della Procura di Tivoli.

Francesco Bianco. Due anni dopo la morte di Calore, davanti alle Terme “Acque Albule” di Tivoli, le cosiddette Terme di Roma,  i primi di gennaio del 2012, Francesco Bianco ex membro dei Nar viene  ferito da tre colpi di pistola. I proiettili lo colpiscono alla gamba, alla mano e al braccio. Alcuni testimoni che hanno assistito alla sparatoria, avrebbero visto due persone in sella a uno scooter avvicinarsi alla vittima e uno di loro, scendere prima di sparare. Scatta  un “fermo di indiziato di delitto” nei confronti di Carlo Giannotta, ritenuto responsabile del tentato omicidio. Per il ferimento di Bianco, viene indagato anche il figlio Fabio Carlo. Giannotta figlio è anche indagato nell’ambito del tentativo di rapina commesso il 3 maggio 2006 in danno della nota gioielleria “Bulgari” di Roma, di  via Condotti. Oltre al fermo dei Giannotta, furono eseguite diverse perquisizioni domiciliari disposte dalla Procura di Tivoli, estese anche alla sede di Acca Larentia a Roma. Fabio Giannotta è fratello di Mirco, capoufficio al Decoro Urbano della municipalizzata Ama e coinvolto nello scandalo di “parentopoli”.  Francesco Bianco nato a Messina e residente nel comune di Guidonia, fu assunto dall’ex sindaco Gianni Alemanno all’Atac, e coinvolto poi anche lui nello scandalo “parentopoli”: una storia diversa da Mafia Capitale questa ma allo stesso tempo a essa integrata. Gli interessi e i sodalizi di mafia capitale sembrano  avere radici antiche e nuove prospettive che coinvolgono tutti i colori politici.
(un ringraziamento a Simona Zecchi per la collaborazione)

Poi magari un giorno si farà chiarezza sulle fondazioni politiche

Altro che triangolazioni con destinazione Bvi, British Virgin Islands. Il paradiso fiscale, per molti, è a portata di mano.
Sono le fondazioni politiche. I cosiddetti pensatoi, o se si preferisce think tank, che proliferano in Italia. Nessun obbligo di pubblicare bilanci o di rendere noto l’elenco dei sostenitori e sponsor. Intassabilità delle entrate e deducibilità dei contributi. Insomma, per i costumi italici, una vera e propria cuccagna.
LA FONDAZIONE NUOVA ITALIA. Lo ha dimostrato l’inchiesta Mafia Capitale. La Fondazione Nuova Italia guidata da Gianni Alemanno ha ricevuto dalla piovra dell’ex Nar Massimo Carminati «finanziamenti non inferiori ai 40 mila euro».

  • L’homepage del sito di Nuova Italia, fondazione di Gianni Alemanno.

Ma la Nuova Italia non è la sola. Dagli accertamenti effettuati sui conti corrente delle cooperative riconducibili a Salvatore Buzzi, braccio imprenditoriale del Nero, risulta che in data 15 novembre 2012 «era stata bonificata la somma di euro 30 mila in favore della Fondazione per la Pace e Cooperazione Internazionale Alcide De Gasperi».
Il presidente? Il ministro dell’Interno Angelino Alfano.

Fondazioni, la politica si è appropriata di «uno strumento per farsi i fatti propri»

Gian Gaetano Bellavia.Le Fondazioni si sprecano, a destra e a sinistra. Ogni leader politico, finanche ogni capocorrente, ne ha una. Con finalità diverse, certo.

Si va – solo per citarne alcune – da Italiani europei di Massimo D’Alema, nata nel 1998, a Magna Carta di Gaetano Quagliariello fino a Fare Futuro di Adolfo Urso e alla montezemoliana Italia Futura.
Ma ci sono anche la Liberamente di Mariastella Gelmini, Riformismo & Libertà di Fabrizio Cicchitto, la Cristoforo Colombo di Claudio Scajola (ma il numero di telefono riportato sul sito risulta inesistente).
Censire tutti questi enti è difficile. Altraeconomia ne ha contati almeno una quarantina.
MANCA LA TRASPARENZA. Una cosa è certa però. Tranne rarissime eccezioni si tratta di organizzazioni i cui bilanci e i soci sostenitori non risultano pubblici.
«Le fondazioni», spiega a Lettera43.it Gian Gaetano Bellavia, commercialista esperto di diritto penale dell’economia, già consulente in materia di riciclaggio per la procura di Milano, «sono come le macchine. Si possono usare per fare la spesa, per portare i figli a scuola. E per fare una rapina».
Il problema è uno: «I politici si sono appropriati di uno strumento giuridico particolare solo per farsi i fatti propri». Si tratta, in altre parole, di un uso (spesso) illecito di uno strumento lecito.
Le fondazioni nacquero infatti nell’800 con finalità di pura beneficenza, per gestire immobili e denari donati. Quindi non era certo necessaria una «pubblicità» dei bilanci. Le cose poi sono cambiate.
BILANCI SOLO IN PREFETTURA. Oggi i bilanci devono essere redatti, questo sì. «Per essere presentati ai membri del consiglio di amministrazione. Poi vengono consegnati, da sempre, in prefettura», continua Bellavia. Ma i controlli, secondo l’esperto, «non ci sono. Il prefetto di fatto è l’unico che può sciogliere una fondazione. Ma all’interno della prefettura nessuno si occupa di vagliare le carte». Senza considerare un particolare: alla fine «controllati e controllori appartengono alla stessa categoria».
Per cambiare le cose servirebbe poco. Ora che il premier Matteo Renzi ha annunciato un’accelerata contro la corruzione, potrebbe molto semplicemente «rendere obbligatoria la trasparenza delle fondazioni». E l’iscrizione alle Camere di commercio. «Basta che depositino i bilanci», conclude Bellavia, «anche gratis».

Symbola e Open, le uniche ad aver un bilancio pubblico

Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente alla Camera.

Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente alla Camera.

Ci sono delle eccezioni, però: Open, che ha raccolto l’eredità della fondazione Big Bang a sostegno di Matteo Renzi, e Symbola, del deputato Pd Ermete Realacci. Quest’ultime sono le uniche due fondazioni ad avere scelto la massima trasparenza di bilanci e liste dei sostenitori.
IL TETTO MASSIMO.«Abbiamo un tetto massimo di 10 mila euro per le donazioni», spiega a Lettera43.it il presidente Realacci, «e un minimo di 50 euro». Symbola si occupa di promuovere e studiare la qualità italiana. «Non organizziamo eventi politici a sostegno del Pd», chiarisce il presidente. «Svolgiamo lavori di ricerca e redigiamo rapporti. Abbiamo anche rinunciato alla donazione del 5 per mille». Symbola vive sulle donazioni dei soci e sulle sponsorizzazioni. Ma è tutto «trasparente», insiste Realacci. E, infatti, sul sito è possibile consultare il bilancio preventivo 2013: entrate previste 877.940 euro e un utile di 49.485 euro.
Open nel 2013 ha registrato proventi per 1.027.546 euro e oneri per 1.064.288 euro.
Tutto nero su bianco. Insieme con la lista dei sostenitori, per un totale di finanziamenti ricevuti pari a 1.905.819,99 euro.

Italianieuropei, la trasparenza solo se c’è una legge ad hoc

Massimo D'Alema.

A metà strada sta la dalemiana Italianieuropei il cui bilancio, come tengono a sottolineare gli addetti stampa, è depositato alla Camera di Commercio anche se «non ce ne sarebbe l’obbligo».

Per pubblicare finanziatori e quant’altro, però, aspettano una legge. Per adesso preferiscono rispettare la «privacy» dei donatori. Il problema, dicono dalla fondazione, è regolamentare le lobby. Soprattutto ora che è venuto meno il finanziamento pubblico ai partiti. Imprese e gruppi infatti potrebbero fare pressione dietro finanziamenti coperti dal segreto.
PER D’ALEMA&CO 16,7 MLN DALL’UE. Italianieuropei, però, fa parte di una super-fondazione europea, la Feps (Foundation for european progressive studies: qui il bilancio) attraverso la quale percepisce finanziamenti pubblici Ue: dal 2008 al 2013, secondo Il Fatto Quotidiano, si è portata a casa 16,7 milioni di euro.
Si dice pronto «a rendere pubblici i bilanci» anche Anche Adolfo Urso, presidente di Fare Futuro. «Nonostante con la pubblicità ci sia il rischio che le donazioni private diminuiscano per la paura di esporsi.
CICCHITTO: «L’UNICA VIA PER I PARTITI». Ma, anche alla luce delle ultime inchieste, «la trasparenza pagherebbe sicuramente di più».
Fabrizio Cicchitto, di Riformismo e Libertà, dal canto suo, vede nelle fondazioni «l’unica via di finanziamento regolare ai partiti». Con l’abolizione dei contributi pubblici, «non c’è alternativa». Anche se la «sua» fondazione, poi trasformata in associazione per problemi economici, era «sui generis: non finanziavamo l’attività politica, tantomeno una corrente. Organizzavamo dibattiti».

Fare Metropoli e Liberamente, soldi costestati a Penati e Gelmini

Filippo Penati.

Filippo Penati.

Mafia Capitale, però, non è la prima inchiesta che tocca le fondazioni.
PENATI E IL TESORETTO DA 363 MILA EURO. Sempre un’associazione – Fare Metropoli – era al centro del cosiddetto Sistema Sesto San Giovani del piddino Filippo Penati. Definita dagli inquirenti un «mero schermo destinato a occultare la diretta destinazione delle somme» all’ex presidente della Provincia di Milano per le sue campagne elettorali. Si parlò di 18 finanziamenti illeciti da aziende e banche per un totale di circa 363 mila euro.
IL CASO LIBERAMENTE. Nell’inchiesta «Ambiente svenduto» sull’Ilva di Taranto emerse invece – come riportato dalla Gazzetta del Mezzogiorno – «un contributo di 4-5 mila euro chiesto a Fabio Riva dall’avvocato Luigi Pelaggi, capo della segreteria tecnica del ministero dell’Ambiente per l’organizzazione il 10 luglio 2010 a Siracusa di un convegno della fondazione Liberamente», ente fondato dall’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo con i colleghi Mariastella Gelmini e Franco Frattini.
E proprio Gelmini tiene a precisare a Lettera43.it che si è trattato «di un caso isolato». «Non va fatta di tutta l’erba un fascio», ripete l’ex ministro berlusconiano. «Le fondazioni sono perfettamente regolamentate, poi dipende dall’uso che se ne fa».
Insomma, la responsabilità è «individuale». E il problema, se problema lo si vuole chiamare, «non è certo la trasparenza», continua Gelmini: «A servire è una norma sulle lobby».

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A Roma si appendono al prefetto. Imperfetto.

Apre il suo blog Emiliano Fittipaldi, e punta diritto là dove nessuno osa andare:

Ordunque è lui, il prefetto di Roma, il mr. Wolf che deve salvarci dai cattivi di Mafia Capitale. È “Peppino”, come lo chiama l’ex dg Rai Mauro Masi, l’uomo che deve ripulire i sette colli dalla lordura dei fascio-ladroni e dei politici corrotti. È lui che in questi giorni dichiara e tranquillizza («non scioglierò il comune, sarebbe una vergogna») e che vuole dare la scorta a Marino. È sempre lui, uomo di Stato, che il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha mandato a spulciare le carte degli appalti del Campidoglio.

Epperò sarà davvero Giuseppe Pecoraro l’uomo giusto per l’impresa? Il nocchiere senza macchia che a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana, finita in polemiche continue (dai funerali di Priebke all’annullamento dei matrimoni gay), ma per l’inchiesta napoletana sulla P4. Ossia l’organizzazione capeggiata dal faccendiere Luigi Bisignani che manovrava nell’ombra il potere politico, gli affari milionari  e le nomine pubbliche di società di Stato e servizi segreti.

Oggi sembra che se lo siano dimenticati tutti. Ma il nome di Pecoraro fa capolino spesso e volentieri tra le carte dell’inchiesta. E non poche sono le telefonate tra il prefetto e Bisignani, condannato a 1,7 anni i reclusione per una sfilza di reati, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.

Tre anni fa i colloqui tra i due sodali hanno incuriosito non poco il pm Henry John Woodcok, che  cercò di capire come mai il prefetto chiamava il faccendiere discutendo di questioni assi sensibilil, come riunioni del Copasir e affari di imprenditori prodiani come Angelo Rovati. Così il magistrato, il 23 febbraio di quell’anno, convocò il prefetto nei suoi uffici (Pecoraro non è mai stato indagato per la vicenda) in modo da avere delucidazioni. Lì il poliziotto, nominato prefetto su proposta dei sottosegretari berlusconiani Nitto Palma e Mantovano, ammise che sì, Bisignani lui lo conosceva bene. «Dal 2004, da quando ero capo della segretaria del capo della Polizia De Gennaro. Io parlo con Bisignani come si parla ad un amico. Siamo amici di famiglia, conosco anche la moglie», spiegò.

Pecoraro, rappresentante dello Stato, frequenta Bisignani anche se sa che il lobbista anni prima è stato arrestato e condannato in via definitiva per il riciclaggio della maxitangente Enimont allo Ior. Incredibilmente, il prefetto nega a Woodcock di sapere che l’amico è stato anche iscritto alla loggia segreta P2. «Mi risulta, però, che sia legato al sottosegretario Gianni Letta…Escludo che il Bisignani si sia speso per farmi ottenere la nomina di Prefetto di Roma: la mia carriera e il mio curriculum sono ineccepibili».

Meno ineccepibile, secondo i pm, è il tenore delle loro conversazioni. I due al telefono parlano di tutto. Se Gigi chiede all’amico di intervenire nella scuola della figlia dell’ex ministro Stefania Prestigiacomo perchè infestata «da cinghiali», Pecoraro cerca di sapere dal lobbista informazioni su un progetto per un Parco Giochi a Val Montone. «Bisignani mi disse che c’era dietro anche Angelo Rovati, che chiamai facendo presente che c’erano problemi di viabilità legati all’apertura del predetto parco. Perchè chiamai Bisignani? È un imprenditore che conosce tutti. Ho richiamato poi direttamente Rovati perchè avevo già parlato con la presidenza del Consiglio senza successo. Rovati lo conosco da tanti anni, non volevo danneggiare l’iniziativa». In realtà è lo stesso Bisignani a spiegare ai magistrati che Pecoraro lo aveva chiamato «per mettere in guardia Rovati, consigliandogli di dirgli di uscire dall’affare». Per i pm napoletani il colloquio telefonico è perfetta metafora del potere della ragnatela del lobbista: «Che un prefetto ritenga normale rivolgersi a un privato cittadino per contattare un imprenditore coinvolto in un procedimento amministrativo di sua competenza la dice lunga sull’anomalia Bisignani».

In altre telefonate Pecoraro spiega al pidduista di aver parlato con il segretario di Letta (ora ai servizi segreti), in un’altra chiede a Bisi di trovare lavoro a un suo amico, «l’ex collega Mario Esposito, prefetto in pensione, che voleva lavorare come consulente in materia di sicurezza». In un’altra telefonata tra i due si parla addirittura di una riunione del Copasir, il comitato di controllo dei nostri 007, che avrebbe dovuto discutere di alcune accuse lanciate da Massimo Ciancimino a De Gennaro. «Appare inquietante» chiosano i magistrati napoletani che indagano sulla P4 «il fatto che il Bisignani e il prefetto Pecoraro parlino dell’ordine del giorno del Copasir, se si pensa che il Bisignani è soggetto assolutamente estraneo alle istituzioni dello Stato».

Pecoraro, però, non è d’accordo: l’amico Gigi lo ha sempre tenuto in gran conto: «Le accuse contro di lui? È un aspetto che non conosco, mi stupisce e mi auguro che non sia vero» disse a “Repubblica” quando Bisi venne arrestato «Detto ciò non voglio esprimere alcun giudizio. Io in questa vicenda ci sono entrato come i cavoli a merenda».

Ma l’uomo che qualcuno vorrebbe commissario di Roma al posto del sindaco Marino s’è fatto notare anche per altre vicende. Se recentemente ha difeso i poliziotti che hanno manganellato gli operai dell’Ast di Terni, lo scorso aprile ha giustificato l’agente immortalato a “camminare” sul costato di una ragazza inerme finita in terra durante una manifestazione. «Il poliziotto non doveva essere lì, è vero, ma forse voleva dare una mano ai suoi colleghi: per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare», disse.

Ma Pecoraro è stato protagonista anche della scandalosa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma e Alua Shalabayeva, un’azione definita «illegale» sia dall’Onu che da Amnesty International e gravata, secondo la Cassazione, da «manifesta illeggittimità originaria».Un abuso, da stato di polizia: la donna aveva i documenti in regola, ma le autorità italiane non vollero vedere. Piegate da motivazioni ancora oscure. Ebbene quel provvedimento, deciso dal ministero dell’Interno, portava la firma del prefetto Pecoraro.

Già. L’intoccabile Peppino, promosso in questi giorni a salvatore della Patria.

Gli effetti non secondari di “Mafia Capitale”

In Italia la miopia delle politiche sociali considerate un costo e un peso da appaltare il più possibile ha lasciato al terzo settore e alla cooperazione il compito di sostenere quasi intere porzioni di umanità.

Nel terzo settore e nella cooperazione lavorano moltissimi uomini e donne che hanno scelto di sacrificare (anche economicamente) la propria vita in nome di un valore da professare nel proprio mestiere.

Carminati e compagni sono riusciti a pisciare anche su questi. Anche se sente poco in giro.

L’egoismo ancora vince sulla solidarietà.

“Se non fosse stato ucciso oggi Renatino De Pedis starebbe in Parlamento, minimo sottosegretario”

hqdefault“C’è sempre qualcuno dei ripuliti a comandare, a stare sopra, senza i ripuliti non andremmo da nessuna parte, fermi alle rapine”. L’intervista del Fatto Quotidiano ad Antonio Mancini, ex boss della Banda della Magliana, apre la caccia all’uomo che sta sopra Massimo Carminati nella scala gerarchica di Mafia Capitale, un “insospettabile”.

Antonio Mancini conosce Massimo Carminati, il “Guercio” o il “Nero” di Romanzo Criminale, da “quando aveva tutti e due gli occhi boni”, spiega, e lo ha visto crescere come uno abituato a “drizzare i torti”. “La più grossa sorpresa, anzi l’unica, sono i termini che utilizza Massimo. Io me lo ricordo come una persona educata, riservata, taciturna, conosceva l’italiano. Ora si aggrappa a espressioni forti che non gli appartenevano” spiega Mancini, più noto come Accattone della Banda della Magliana. Inizialmente non lo vedeva come un leader, “per me era un ragazzo d’azione. Ma è stato bravo a riempire il vuoto lasciato da Renatino De Pedis dopo la sua morte”. Se non fosse stato ucciso “oggi Renatino starebbe in Parlamento, minimo sottosegretario. Lui è morto incensurato. Eppure ha ammazzato la gente con me, ha rapinato con me, è stato dentro, ma è riuscito a farsi ripulire tutto”. Fu lo stesso De Pedis a dire ad Antonio Mancini che “era stato sempre Carminati a far parte del commando che ha ammazzato Mino Pecorelli”, il giornalista ucciso nel 1979. E aggiunge: “Ha presente quante e quali prove avevano su di lui rispetto all’omicidio Pecorelli? Chiunque altro, me compreso, sarebbe stato condannato”.

Carminati sale poi ai vertici dell’organizzazione perché “di tutti gli altri che c’erano attorno a Renato, era l’unico ad avere lo spessore giusto, appellava De Pedis come presidente, ci sono le intercettazioni a raccontarlo, ed era l’unico a poter riacchiappare i fili della varie componenti“. C’è però qualcuno sopra Carminati, Antonio Mancini è sicuro di questo: “C’è sempre qualcuno dei ripuliti a comandare, a stare sopra, senza i ripuliti non andremmo da nessuna parte” spiega al Fatto Quotidiano, “anche per questo nella Banda c’è stata la frattura tra noi della Magliana e quelli di Testaccio”. Perché “loro avevano preso le sembianze mafiose, esattamente quelle che hanno scoperto ora. Noi della Magliana eravamo banditi da strada, amavamo le rapine, senza guardarci le spalle, senza compromessi”.

Per quelli di Testaccio Carminati “era l’unico ad avere le chiavi per entrare nell’armeria del Ministero della Sanità” e Mancini lo tira in ballo per la strage di Bologna perché “il fucile ritrovato alla stazione stava nella nostra armeria, e lui aveva le chiavi e lui già stava dentro a certe storie di Servizi”.

Accattone è convinto che Carminati uscirà presto, “prima di quanto potete immaginare, altrimenti dovrebbero incarcerare mezzo mondo”. Ricordando il suo passato da Boss della Banda della Magliana, Mancini dice che “noi eravamo il terzo mondo di Carminati, quello in basso; mentre oggi quello di mezzo, e quello sopra, si utilizzano a vicenda, per questo dico che Carminati ne uscirà pulito; il mondo di sopra si salverà, e porterà con sè il mondo di mezzo e ucciderà il mondo di sotto”.

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Moltiplicava i pani, i pesci e i profughi: Luca Odevaine (ex braccio destro di Veltroni)

luca-odevaine-durante-le-operazioni-di-sgombero-del-campo-rom-di-via-troili-a-ro-620558Se il Pdl trema, anche il Pd non è messo tanto bene. L’ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine (arrestato per corruzione aggravata), si faceva versare le tangenti su conti segreti di moglie e figlio. E il capo della segreteria del sindaco Ignazio Marino, Mattia Stella, (non indagato) oltre a essere stato più volte tirato in ballo da Salvatore Buzzi nelle intercettazioni, c’era stato tranquillamente a cena.

Luca Odevaine – membro del Coordinamento nazionale sull’accoglienza profughi – preferiva incassare le mazzette sui conti correnti bancari dei parenti. A partire da quello dell’ex moglie venezuelana Lozada Hernandez Nitza del Valle per passare poi a quello del figlio Thomas Edinson Enrique Lozada. Considerato «il moltiplicatore dei profughi da destinare al centro di Buzzi» per fargli guadagnare di più, Odevaine è stato anche consigliere del ministro dei Beni Culturali Giovanna Melandri.

Secondo la procura e i carabinieri del Ros il sodalizio con Buzzi si ritroverebbe nelle forti pressioni per trasferire i migranti in altre strutture parallele: per questo sarebbe stato pagato mensilmente con i 5 mila euro. Le ha provate tutte, Odevaine, per aggirare i controlli: chiamava la tangente «affitto» e la voleva depositata su conti non a lui direttamente riconducibili.

Il 15 febbraio 2013 spedisce un sms a Salvatore Buzzi: «Salve, buongiorno. Puoi verificarmi gli affitti, per piacere. Sono un po’ in difficoltà. Grazie, un abbraccio…». La ricompensa, in passato pagata con bonifico sul conto dell’ex moglie venezuelana, doveva finire nelle mani del figlio Thomas. Ma un intoppo ha creato confusione. Odevaine incalza dunque Buzzi: «No, se so’ sbagliati, hanno mandato… purtroppo m’hanno fatto un bordello i tuoi, l’hanno mandato al… al vecchio conto».

La sua preoccupazione è che l’ex moglie ora non gli consegni il denaro ricevuto per errore: «Eh, no, m’ha bruciato, chiaramente, quella, figurati, che so’ arrivati… col cazzo che me li dà, però va be’…». Buzzi cerca allora di calmarlo, spiegando che si è trattato della svista di una collaboratrice «…Sandra gliel’ha ridato, se so’ sbagliati loro, hanno… ce… ce l’avevano quello… quello buono di iban, no? Quello di, di… di Thomas, e però per… si vede che per errore, in automatico… l’hanno mandato a quell’altro di prima…».

Destinata a scatenare nuove polemiche è invece la cena tra Buzzi e Mattia Stella. L’uomo vicinissimo a Marino non è indagato ma dalle intercettazioni dei carabinieri del Ros, agli ordini del generale Mario Parente e il colonnello Stefano Russo, emerge che «i rapporti con la nuova amministrazione comunale da parte di Buzzi sono costituiti da una relazione con il capo della segreteria del sindaco, Mattia Stella, che s’intrecciano con quelli con Mirko Coratti (Pd, presidente del consiglio comunale, dimessosi dopo essere stato indagato per corruzione aggravata e illecito finanziamento ndr), massimamente in relazione alla questione Ama.

Eloquente nel senso della costruzione di un rapporto privilegiato con Stella è la conversazione nella quale Buzzi chiamava Carlo Guarany, lo informava che prima sarebbe andato in Ama e successivamente sarebbe andato presso il Gabinetto per incontrare Mattia. Conversazione nella quale Guarany diceva che occorreva “valorizzare” Mattia e “legarlo” di più a loro».

Non sono indagati e minacciano querele anche i deputati Pd Micaela Campana e Umberto Marroni, sollecitati da Buzzi per ottenere un’interrogazione parlamentare sull’appalto su un centro rifugiati bloccato da un giudice del Tar del Lazio. E se la Campana saluta Buzzi, via sms, con «Bacio grande capo», Umberto Marroni, alle 18.31 del 20 marzo scorso gli inviava il seguente sms: «Ho parlato con Micaela meniamo». E, in riferimento alla stesura del testo, precisava «La sta preparando Micaela».

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