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mafia

La vera minaccia per la Catturandi di Palermo è la solitudine

Le minacce mafiose ai quattro agenti della Squadra Catturandi della Questura di Palermo (come raccontato da Repubblica Palermo) sono un simbolo. Bavoso, selvaggio e infernale come solo la depravazione criminale di Cosa Nostra mentre mostra le unghie riesce a raggiungere, ma comunque un simbolo. Un seme che cade come una ferita sulla moglie di uno degli agenti ma che sa benissimo che coltiverà erba amara in tutto il gruppo. Un gruppo che da sempre ha fatto della propria compattezza (che nei momenti più caldi delle indagini sfiora consapevolmente l’isolamento dal resto del mondo) l’arma migliore sia per l’attacco che per la propria difesa. Cosa Nostra teme lo spigolo più appuntito delle forze dell’ordine siciliane perché, inevitabilmente, ne riconosce la schiena dritta, la testa alta e (il dato potrebbe essere preoccupante) l’autonomia.

Eppure quelle foto dei quattro colleghi fatte scorrere come un album di oscuri presagi al suono sinistro della frase “”Che bei mariti avete, che belle famiglie” sono un attacco agli uomini e agli affetti. E questo angolo delle forze dell’ordine impegnate in prima linea forse ce lo stiamo dimenticando.

Ce lo siamo perso sotto l’offuscamento dei proclami altisonanti dei nostri governanti sempre pronti a sfilare in telegenica solitudine durante i festeggiamenti dopo gli arresti, ce lo siamo perso nelle rivendicazioni sindacali e negli appelli finiti sempre in un trafiletto dei giornali, ce lo perdiamo tutti i giorni nelle macchine lucidate e lavate per il servizio del telegiornale mentre sullo sfondo si cerca di fare camminare l’ultima “carretta buona” per le indagini, ce lo lasciamo sfilare dalle mani da un’attenzione maniacale per l’immagine e per la forma e mai per la sostanza. Il cuore buono della Catturandi ce lo siamo mangiati nei soldi che mancano per le fotocopie, nella benzina che deve essere anticipata di tasca propria e negli straordinari per la cattura di Provenzano pagati anni dopo; solo dopo che si era posata l’ultima briciola dell’euforia di quell’arresto.

Allora sarebbe da chiedersi perché Matteo Messina Denaro abbia deciso proprio ora di rilassarsi dalla sua villeggiatura da “boss” per scomodarsi a fare circolare dentro il carcere dell’Ucciardone di Palermo le foto dei quattro agenti, perché proprio ora abbia deciso attaccare la punta di diamante della polizia palermitana. Sarebbe da chiedersi perché rischiare di rendere quel pugno di uomini ancora più serrato e duro. E sarebbe da chiederci quanto abbiamo potuto (consapevolmente e inconsapevolmente) lasciare che sugli uomini delle forze dell’ordine sia caduto un velo di solitudine. Pronti ad applaudirli o a condannarli mai più che per un battito di secondo, dimenticando quanto sia gravosa la “resistenza” nella quotidianità che si costruisce in mesi per sciogliersi in qualche minuto dentro un comunicato stampa dopo l’arresto.

Se Cosa Nostra alza la voce così vicino alla Catturandi è perché ne ha una paura fottuta o non ne ha paura per niente. In entrambi i casi tutto intorno la politica, le istituzioni, i cittadini, noi, stiamo lasciando che alla fine sia una cosa loro, un affare tra guardie e ladri, una battaglia da giocarsi muso a muso in un confine non più grande dei duellanti, delle loro mogli e dei loro figli. In qualsiasi caso abbiamo lasciato soli i cattivi (e soprattutto) i buoni: in quella solitudine che concimiamo “per delega” per una Cosa che non è mica Cosa Nostra ma rimane Cosa Loro.

Ho diviso serate giù a Palermo con i ragazzi della Catturandi mentre si sorrideva di una battaglia che è lunga ma fatta sempre con fierezza. Abbiamo parlato di mafia e di vita, ci siamo incrociati negli incontri nelle scuole, abbiamo fatto serate con la gente. E proprio adesso mi accorgo (io che tutto il giorno tutti i giorni annuso uomini in divisa che con me dedicano tempo, forze e professionalità per una vita sicura e “normale”) che non gli ho mai detto: grazie. Grazie con quella gratitudine che più delle cerimonie sfratta la solitudine.

Mondadori: mi sono giocato un sogno per un po’ di coerenza

Lo ammetto. Ho sempre sognato di scrivere un libro per Einaudi. Per due motivi: il primo, per nulla di spessore, è che sono rimasto appiccicato con la faccia per anni a quella magnifica copertina vuota del Giovane Holden di Salinger e alla fine mi è rimasta una voglia matta di avere il mio nome su quella grafica profumata così essenziale e un buon cappello a becco d’anatra da cacciatore vecchio stile, il secondo per amore di quello struzzo che Picasso regalò a Giulio Einaudi nel 1951 durante una visita dell’editore ad Antibes.

Sono stato contattato da una gentilissima lavoratrice di Einaudi (Gruppo Mondadori) che mi ha illustrato e proposto un nuovo progetto editoriale. Fin qui, dico, ha tutti i lustrini per essere l’inizio di una favola stellata. Anche perché bisogna dire che in quei mesi rispondevo perfettamente al prodotto editoriale perfetto: le minacce, la scorta, l’intimido perfetto per l’antimafia da souvenir. Quella tutta suppellettili e scaffali che ti soffia in viso e ti trasforma in icona. Eppure scrivere un libro e lavorare con le parole è sempre una presa di posizione, la costruzione inevitabile di un credito e di un debito: con sé stessi, con i lettori e con gli editori. Un manifesto in cui dichiari di riconoscerti il più pienamente possibile. Così come la buona politica che, mica per niente, Plutarco definiva la più alta delle arti. Ho declinato gentilmente l’offerta. Non mi vedevo negli scaffali con la matricola di un editore che “strozzerebbe” chi parla di mafia, non mi vedevo nemmeno a criticare in giro per le piazze un fascismo morbido mentre mi allattavo alla mammella del re e cagliavo nelle sue stalle. Per una questione di igiene e di bellezza.

Ammetto pure che non mi sono nemmeno sentito nemmeno per un secondo né eroico né resistente. Ma coerente sì. E la coerenza costa (e mi costa), ma è una coperta comoda la sera. Qualcuno mi dice che iniziare una carriera di scrittore con una testata sulla porta del re è il modo peggiore per costruirsi una carriera eppure, dopo l’ultima legge “ad aziendam”, ripenso con un sorriso al “filo sottile del compromesso” che riuscivano a cavalcare così bene i giullari che rifiutavano di abitare la corte del Re e preferivano le piazze. Anche se talvolta ci potevano rimettere la testa.

Ho grande ammirazione per molte delle firme del Gruppo Mondadori (penso a Corrado Augias, Pietro Citati, Federico Rampini, Roberto Saviano, Nadia Fusini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano e altri) e ho molta ammirazione per centinaia di professionisti seri e preparati che lavorano nel gruppo ma non amo gli arzigogolati professionisti della giustificazione. Quelli no. Ogni scelta è un’azione.

Ad ottobre uscirà il mio libro. Il mio editore (che non me ne vorrà ma di cui mi sembra inelegante fare il nome) è a capo di una piccola casa editrice che lavora e sogna di fare qualcosa di buono. E’ spettinato, dice troppe parolacce e non è per niente telegenico. Non ha l’amicizia o il parente giusto per evitarsi nemmeno un mese di spese condominiali eppure per me è stato il migliore editore possibile. Quando Corrado Stajano l’8 giugno del 2003 si dimise dal Corriere della Sera nella sua lettera d’addio scrisse “Mi dimetto per protesta. Contro l’arroganza del governo e dei suoi ministri, contro una Proprietà subalterna, contro le interferenze, difficili da negare, piovute dall’alto ai danni di un possibile libero giornalismo. In un momento grave per la Repubblica in cui non è certo il caso di fare gli struzzi”. Gli struzzi, appunto.

Tranquilli, hanno ragione: da noi a Lodi la mafia non esiste

Lodi è una piccola città a forma di paesello che fa finta di essere in provincia di Lodi. Marudo è un paesello che nemmeno finge di essere provincia ma si ritrova in provincia di Lodi. A Lodi la mafia non esiste e comunque se esiste non se ne parla perché è maleducazione. Qui è passato praticamente indenne Giampiero Fiorani che, in fondo, è una brava persona che fatto del bene per la propria città. Dicono i benpensanti che nelle ultime operazioni di ‘ndrangheta Lodi è stata schivata: è vero, il boss dei gelesi collegati a Ri ha nzivillo scorrazza come un lodigiano qualunque nel centro di Lodivecchio. La mafia è così: se non ne scrivi o ne parli, in fondo non esiste.

Questa storia che sto per raccontare è una storia da tre soldi e, per molti, una delle solite invenzioni dei professionisti antimafia. Per questo sono sicuro che verrò convocato al più presto per pagare le mie falsità.
Ma andiamo con ordine. A Marudo in provincia di Lodi c’è bella fabbrichetta a forma di cartiera. In alcuni locali in affitto c’è la lei di una bella coppia di famiglia da Mulino Bianco. Lei sposa lui, cavallo bianco, castello e tutti felici e contenti, residenti a San Angelo Lodigiano. Un giorno, però, sfogliando con commozione il proprio album di nozze lei riconosce tra i propri invitati la crema degli arrestati e latitanti casalesi e gelesi. Proprio un bel regalo di nozze, a Lodi dove la mafia è un’invenzione e la provincia ne è immune. Lui, messo alle strette, si dice che in questi giorni si sia redento. Non proprio per amore, ma forse per i trent’anni di condanna che gli ciondolano sul gozzo. E comincia a parlare, l’infame. È amico intimo di Casalesi non proprio modello di giustizia e legalità, se la spassa con i 4 ridicoli picciotti di Lodivecchio che giocano a fare i boss gelesi amici di Rinzivillo e che probabilmente si incontrano ancora tutti come ai vecchi tempi (fino a qualche tempo fa al ristorante Cà Bianca di Castiraga Vidardo). Lei trema per l’eroismo parlante del marito convertito. Casalesi, gelesi e un pizzico di Calabria. Nessuno sa, nessuno ne parla. L’importante è che scorra tranquilla la vita della provincia immune dalle mafie in questo soleggiato ferragosto. Adesso aspettiamo che ne parlino tutti o smentiscano. O no?

*Siccome rimane immutato il mio disprezzo per qualsiasi consorteria criminale ma allo stesso modo ci tengo alla gente che lavora; mi preme precisare che l’azienda a cui si fa riferimento nell’articolo nulla ha a che vedere con la Lodigiana Maceri srl. Se non per una “prossimità geografica”. Tanto dovevo, per onestà intellettuale, ad un paese che (come spesso succede in queste zone) si ritrova a dover “subire” la presenza di questi personaggi che pascolano nell’oscurità.

La mafia che gocciola dai polsini del Re

La notizia dei 100 milioni versati da Silvio Berlusconi alla mafia secondo il foglio dattiloscritto e controfirmato da Vito Ciancimino secondo quanto scritto da Felice Cavallaro sul Corriere della Sera sarebbe una notizia solo in un Paese con la memoria andata in prescrizione dove un Governo ricattabile gioca a confondere i fatti con le opinioni, e a curare il cancro delle mafie con i cerotti. Quindi è una notizia.

Eppure, nell’Italia dell’informazione trasformata in vassoio per raccogliere le bave del re, l’ultima rivelazione di Massimo Ciancimino (e, per la prima volta, di sua madre Epifania Scardino) è passata come una brezza di ferragosto perfettamente inscatolata tra i “complotti” e le “invenzioni” che sono la ciclica difesa del fedele Ghedini a tutela servile del premier. Non importa nemmeno che l’anziana moglie di Don Vito dica «Si, mio marito incontrava negli anni Settanta Berlusconi a Milano… Ma alla fine si sentì tradito dal Cavaliere…». Eppure di un assegno di 25 milioni dato dal Cavaliere ai Ciancimino se ne parla ormai da sei anni, dopo un’intercettazione in cui il figlio Massimo parla della regalìa berlusconiana alla sorella dichiarando di avere ricevuto quei soldi direttamente dalle mani di Pino Lipari. Sarebbe una notizia, in un Paese normale. In questo ferragosto di battibecchi e divorzi è diventata invece una voce di corridoio.

O forse non è una notizia perché la memoria non si è appassita come qualcuno vorrebbe e ci si ricorda che nel processo Dell’Utri si legge che ogni anno arrivavano milioni in regalo direttamente da Arcore. Dichiarazioni di più pentiti ma (poiché il cecchino Feltri ci insegna che solo la “carta canta”) anche ben documentati: durante le indagini negli anni novanta sulla famiglia mafiosa di San Lorenzo infatti si ritrova un appunto nel libro mastro del pizzo che dice “Can 5 5milioni reg”. O forse ci si ricorda perfettamente che che i fratelli Graviano furono spediti a Milano a partire dal ’92 dove “avevano contatti importanti” e dove incontrarono più volte anche Marcellino Dell’Utri. Lo dice il pentito Gaspare Spatuzza ma (siccome vi diranno che Spatuzza non è credibile e i pentiti non possono deviare il corso della politica) lo dice anche l’ex funzionario della DC Tullio Cannella, politico per nulla pentito. E ci si ricorda che Gaetano Cinà, uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), visitava spesso gli uffici di Milano 2 e l’ex fattore di Arcore Vittorio Mangano sia un condannato mafioso con il tratto per niente eroico della vile omertà.

Nonostante il premier si affanni a scrivere pizzini a Cicchitto in cui gli raccomanda in Aula di parlare di mafia (avendo già altri nel partito che si occupano a parlare “con la mafia”), nonostante anche nel centrosinistra qualcuno insista per scambiare la mafia come sceneggiatura buona per le fiction piuttosto che cancro delle istituzioni, oggi Cosa Nostra può guardare dall’alto i frutti della propria strategia di tensione e poi cooperazione con le istituzioni: tra il ’95 e il 2001 sono state approvate alcune leggi che sono fatti, mica opinioni. Sono state chiuse le carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara. Con la scusa della privacy si è imposta la distruzione dei tabulati telefonici più vecchi di cinque anni. In modo bipartisan è stata riformata la legge sui collaboratori di giustizia con il risultato di una diminuzione sensibile dei pentiti (calpestando il modello di Falcone e Borsellino). Si è pressoché smantellato il 41 bis e con la riforma del “giusto” processo si è concessa la facoltà di non rispondere, elevando l’omertà ad un (eroico) diritto di stato. Alcuni parlamentari hanno anche provato a parlare di “dissociazione” mafiosa. Il ministro Alfano ha proposto una riforma che consentirebbe alle difese di chiamarei in tribunale un numero illimitato di testimoni, per ingolfare ancora meglio la palude dei processi. L’onorevole Gaetano Pecorella ha proposto il ricorso alla Convenzione Europea per la revisione dei processi (guarda caso, idea del vecchio Vito Ciancimino per annullare la sentenza del maxi processo di Palermo). Sempre ricalcando l’idea del vecchio boss Don Vito la Lega propone l’elezione dei giudici. Ad abbattere le difficoltà del riciclaggio ci ha pensato lo “scudo fiscale”.

Cosa dobbiamo aspettare perché sia un diritto (e soprattuto un dovere) raccontare e dire del rapporto adultero tra le mafie e questa Seconda Repubblica? Quando si riuscirà a gridare che il marcio di questo Stato sta uscendo dai polsini dei nostri governanti?

Mafia é mafia. Senza sinonimi, senza moderazioni.

Si sfilaccia il Governo, fuori i contenuti

Abbiamo passato anni a sentirci dire che nel lato “democratico” del Paese era necessario (e utile) smussare gli angoli e democristianare gli animi per non rimanere schiacciati dal berlusconismo. E mentre tutti si esercitavano in un opposizione sempre più pia e a tratti reverenziale abbiamo reso possibile che un uomo come Mister B. e le sue cricche diventassero un “sistema” stabile, collaudato e proprietario delle istituzioni. In una lenta e nemmeno sotterranea OPA lanciata con successo alla res publica.

Alla mia generazione hanno detto di stare tranquilli, di non fare colpi di testa, di non scialacquare la nostra giovinezza in attesa di ottenere il certificato DOC dello spettatore prematuramente disarmato mentre vede e commenta i giochi di Palazzo. Ci hanno raccontato che non bisognava attaccarlo frontalmente ma giocare di sponda (chissà, forse per un attaccamento alle buone maniere) in un’opposizione che a guardarla oggi ha l’odore acre del “concorso interno”. Ci hanno fatto raccontato che erano tutti impegnati nell’esercitare la propria “vocazione maggioritaria” per costruire visioni e progetti per il paese e oggi, al primo spiraglio, balbettano Tremonti come neo statista salvifico e una coalizione “magna” (nel senso latino e romanesco del termine) con centristi adescatori di niente e neo legalitari con la firma in calce alle leggi-regalo alla mafia e al riciclaggio di questi ultimi anni.

Abusare della pazienza degli onesti è un gioco vile e codardo tanto quanto opprimerli e, ora, la misura è colma. Quello che stiamo vivendo non è né uno sfascio né una crisi: è un’opportunità. Il momento che si aspettava per esporre i modi e i contenuti. In poche parole per raccontare e illustrare la propria identità. E allora dica il PD se è voglioso di andare a braccetto con questo “nuovo” centro che cambia i simboli ma mai le facce, ci dicano i finiani quanto oltre a pentirsi sono disposti a correggere, scendano in campo i movimenti con il proprio diritto costituzionale a manifestare e (finalmente) anche a pretendere.
Con chiarezza, onestà intellettuale e senza remore. Ognuno con la fierezza della propria posizione, se serve. Ma non perdiamo l’occasione del riassestamento per pescare ancora una volta nelle zone d’ombra, ritrovandoci con una valigia di consenso che non possiamo e non vogliamo rappresentare. Il Governo bollito racconta la fine della strategia del grigio e della chiarezza ad intermittenza. Qui fuori c’è il partito più grande d’Italia, senza colonnelli né nominati: il Partito degli astensionisti. Costruiamo coerenza, concretezza e partecipazione e ripartiremo a discutere di lavoro, famiglia, scuola e salute. Con fuori tutti i corrotti e i corruttori di una mignottocrazia che oggi non interessa a nessuno.
È saltato il tappo, fuori i contenuti.

Una barba di storia: Nino Agostino. Ammazzato per niente.

Durante un matrimonio, matrimonio mica da persone normali, ma tra fecce di mafia. Quei matrimoni con il sapore acre del gangsterismo e per di più nel dorato Canada. A sposarsi è Nicola Rizzuto, uomo di Cosa Nostra trapiantato nel profondo nord americano, e tra un flute di champagne e una mezza ostrica e saliva Oreste Pagano intercetta un bisbiglìo: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada. C’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì.” Una storia di desolazione mica normale, quella del poliziotto Nino Agostino ammazzato con la moglie Ida Castellucci a Villagrazia di Carini il 5 agosto del 1989. Con una nascitura di cinque mesi nel grembo morta prima di nascere, come quelle storie che finiscono sempre per essere di seconda mano. Perché se muori ammazzato d’agosto sulle strade che portano al mare senza favole o poesie ma solo a forma di due cadaveri e mezzo e un cespuglio folto di punti di domanda, nel nostro disperato Paese, finisce che sei pure un morto ammazzato di serie b. Nella gogna del ricordo che divora vittime come fosse un gorgo. Eppure Nino Agostino era un poliziotto di quelli che ci credono al proprio lavoro, di quelli che in missione ci sono da sempre, senza decreti di governo o premi in busta paga, in una Sicilia assolata che in quegli anni passa sui morti come fossero un colpo di sole. Eppure Nino Agostino, da vivo prima che da morto, è una storia italiana con tutti gli ingredienti della melma: un collega e (presunto amico) Guido Paolilli, oggi in pensione, che indaga sul caso e chiude il faldone parlando di “delitto passionale”. Come nelle più becere e scontate storie di pavidità d’indagine; una presunta collaborazione di Nino con i servizi segreti e un coinvolgimento nelle indagini per la cattura del boss dei boss Bernarso Provenzano; un foglietto, stropicciato, nel portafoglio in cui si legge “Se mi succede qualcosa andate a cercare nell’armadio di casa”, e nell’armadio di casa, ovviamente, arriva prima di tutti una perquisizione che verbalizza di non avere trovato nulla di interessante.

Oggi Nino Agostino è un fantasma. Un fantasma con in tasca una storia sempre troppo poco conosciuta e un serie di incroci che lambisce anche Bruno Contrada. Suo padre Vincenzo, insieme alla moglie Augusta, caracolla per l’Italia raccontando di una famiglia sparata prima ancora di sbocciare rivendicando la giustizia. Ha la rabbia degli onesti traditi senza risposte e lo sguardo lieve di chi non ha mica smesso di voler essere padre di suo figlio, e una barba lunga che gli si appoggia all’altezza del cuore che non taglierà finché non avrà risposte.

Nel calderone altisonante della mafia epica la storia di Nino e Ida Agostino é una barba di storia. Nella quotidianità della memoria esercitata la storia di Nino e Ida Agostino é una storia da tenersi in tasca. Per ricordarsi almeno quante storie ci dimentichiamo, dimenticandoci che non ce le hanno nemmeno raccontate per intero.

ORA QUALCUNO CHIEDA SCUSA

Adesso qualcuno deve chiedere scusa. Non bastano i comunicati, non contano le facce contrite davanti alle telecamere per dire che anche la Lombardia è caduta nel mercimonio politico mafioso che infesta tutto il Paese, da nord a sud, in un’unità d’Italia fatta di mala politica prostituita alla mafia. Trecento arresti sono uno schiaffo alla ‘ndrangheta calabrese lombardizzata ma non solo; trecento arresti sono cinque dita in piena faccia di chi come il sindaco Moratti ha giocato per una vita a sottovalutare, minimizzare, negare e coltivare indifferenza. Trecento arresti sono una sberla a tutti quei sindachetti e polituncoli padani che hanno tranquillizzato tutti per anni dicendo che il fenomeno non esisteva, che al massimo era “una cosa loro”, che le cittadine lombarde sono “immuni dalla mafia”, appoggiati da rappresentanti delle istituzioni che sfoggiano una pavidità e un’ignoranza utili ad una pacifica e tranquillizzante carriera. Trecento arresti oggi fanno sentire l’odore acre della lombardia. E non bastano più i “deodoranti” della Lega e del Pdl. Non funzionano più i convegni buoni per fare l’antimafia da souvenir per la fiera della Milano da bere. Scrivevamo un anno fa io e Gianni Barbacetto in A CENTO PASSI DAL DUOMO:

“L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma. Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste. Una regione che mette i moniti dei procuratori antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perchè non l’hanno mai trovata. Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina. Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità.”

Insieme a Gaetano Liguori siamo andati ad urlarlo in giro per l’Italia. Mi sono meritato qualche chilo di minacce, qualche accusa di allarmismo, sorrisini da “professionista dell’antimafia” e i rimbrotti di qualche maresciallo che ha dovuto fingere di credermi. Adesso si alzano le voci di chi sapeva e si sprecano le lettere di vicinanza. Addirittura spuntano democratici esperti dell’ultima ora. Tutti pronti a cavalcare; tanto hanno già pagato gli altri, nel bene e nel male.

Oggi ai cittadini qualcuno dovrebbe chiedere scusa.

http://www.youtube.com/watch?v=Lcy8GIqfjkI

http://italiadeivalori.antoniodipietro.com/articoli/giustizia/ora_qualcuno_chieda_scusa.php

‘Ndrangheta buffa: Mandalari parlava troppo e Chiriaco faceva finta

Che tragica opera buffa la ‘ndrangheta che in Lombardia in incognito si fa chiamare Lombardia. Un’opera da qualcosa in più dei soliti tre soldi con qualche Pantalone, un paio di Azzeccagarbugli e la solita decina di politici distratti. La colonna sonora sarebbe una mazurka tra le consonanti ispide calabresi e le vocali lunghe lombarde.

POLITICI INCONSAPEVOLI. Una razza in costante aumento: “io non sapevo”, “non lo conosco”, “incontro tante persone in campagna elettorale”, “ognuno vota chi vuole”. Ormai possiamo dare per assodato che a lato dei candidati che sudano a smontare gazebo con il nero dei santini sulle mani, in Lombardia si è ramificata una nuova generazione di candidati: le vittime (vincenti) delle preferenze criminali. Faraoni e signorotti a cui pagano cene elettorali a tradimento schiere di fan estasiati e criminali ovviamente a loro insaputa. Però sono da capire; a differenza di Scajola e la sua casa regalata a tradimento, sulle preferenze non si paga l’ICI e sono più difficili da scovare. Abelli non sapeva che l’ASL di Pavia fosse un suo comitato elettorale con un cordone ombelicale che andava diritto tra i peli della ‘Ndrangheta. Emilio Santomauro è un fuoriclasse: dopo essere inconsapevolmente caduto nelle mani della camorra (con il clan Guida) è passato per sbadataggine sotto gli interessi della ‘ndrangheta. Del resto, essendo un uomo dal sangue UDC è sempre stato professionista della larghe intese per “ricucire l’Italia”. Poi c’è Ponzoni Massimo, che se di nome facesse Tom potrebbe essere un eroe del male per fumetti: ultimamente riesce ad essere per caso e per sfortuna in quasi tutti i “buchi neri” lombardi. Ma solo quando lo troveranno con un carico di armi nucleari in giardino sarà abbastanza indegno da pensare alle dimissioni.

BOSS DALLA LINGUA LUNGA. Ad ascoltarli fanno tenerezza. Lontani anni luce dall’icona del boss tra cacchette di capra e ricotte che scriveva in codice sui pizzini stropicciati come Binnu Provenzano, oggi gli aspiranti boss lombardi sono un misto di prepotenti con la cazzuola ed esosi da periferia. Il guappo Vincenzo Mandalari al telefono nel febbraio del 2009 si incensa come fanno le sciantose sotto il portico della Scala: “C’è stato un momento, in cui ad Assago comandavo io! credimi! per mia negligenza, sempre per il fatto di essere abusivista, io ce l’ho nel sangue di essere abusivista!”. Poi, resosi presto conto che “i politicanti vedi che sono scemi” decide di scendere in campo. Aveva in mente di darsi da fare a Bollate per le elezioni comunali. Una strategia precisa: far cadere l’attuale amministrazione, prima, ed eleggere un sindaco amico, poi. “Adesso riusciamo a farla cadere, perché io mi sono intrufolato in politica»”dice in una conversazione del 13 febbraio 2009 Mandalari, e poi l’idea di fondare un partito “non è importante destra o sinistra a livello locale”. Un politico con le idee chiare, senza dubbio. Se è vero che Calderoli è diventato ministro non possiamo che ringraziare la Boccassini per avere frenato la rincorsa di Vincenzino verso la Presidenza del Consiglio. Ma la lingua lunga, nell’opera buffa della ‘ndrangheta milanese si paga: così oggi al Mandalari latitante per la sgarrupata periferia milanese forse converrebbe una residenza certa in carcere piuttosto che un bossolo lucido infilato nella schiena. Le malelingue dicono che stia facendo le primarie per decidere se costituirsi.

MEDICI MITOMANI E BOSS PER FINTA. Più parla Carlo Antonio Chiriaco e più rischia di diventare l’eroe incontrastato della tragica farsa passato il polverone. Direttore sanitario dell’Asl di Pavia e arrestato per associazione mafiosa e corruzione, oggi dichiara di avere fatto tutto per finta. Perché malato. Un direttore sanitario patologico. La radice quadrata di un direttore sanitario ma anche un boss alla seconda. Un mafioso pentito di non essersi pentito di aver giocato, per finta, fino a convincere la mafia ad essere uno di loro. Un mitomane che comprava voti al “faraone” Giancarlo Abelli corrompendo qualche paio di infermieri per una sua libido elettorale. Un direttore sanitario che tra una preghiera a Don Giussano e un inchino a Comunione e Liberazione era affascinato «morbosamente» (dice proprio così nell’interrogatorio) dalla voglia, fin da giovane, di farsi credere dagli altri un malavitoso della ’ndrangheta, per vedere poi l’effetto che fa in chi ascolta. Un mafioso per finta. Ma la nomina alla direzione dell’ASL è una cosa verissima.

IL BOSS DEI BOSS CHE SERVE A MARONI. Pino Neri è il capo della ‘ndrangheta in Lombardia, nessuna prova più lampante della sua tesi di laurea sui “riti della ‘ndrnagheta”. Anzi no, arrestato il boss dei boss Pasquale Zappia. Il capo dei capi era lui. E che diamine, è anche stato eletto a Paderno Dugnano dai mafiosi, non si può andare contro la volontà popolare dei ‘ndranghetisti. Anzi, scoop: il grande capo è Cosimo Barranca. Ha il cognome onomatopeico della potenza criminale. Prima pagina: Domenico Oppesidano, il vero volto del re della ‘ndrangheta. Comunque vada, in Italia, se c’è qualche maxi operazione trovatevi presto il boss dei boss. La comunicazione spicciola antimafia e di propaganda elettorale ha bisogno di una faccia che funzioni da copertina. E non importa se la forza della mafia calabrese sia proprio il suo essere orizzontale. La disattenzione, al massimo, la pagheranno i nostri figli.

GLI ESPERTI DELL’ULTIM’ORA. Come Puffo Quattrocchi giro e rigiro ripetendo tra me e me “l’avevo detto, io”. Ma è una recriminazione per cui non vale la pena. In compenso uomini di destra e di sinistra, associazioni e istituzioni oggi ci dicono che loro lo sapevano già. Mi ricordo bene l’appoggio e l’affetto quando da allarmista inascoltato e inascoltabile mi battevano la pacca sulla spalla. Credevo fosse pietismo, invece evidentemente è il loro modo di essere utili alla causa.

‘Ndrangheta: una valanga di merda in Lombardia

Scrivo questo pezzo con rabbia. Che non sarà certo un sentimento nobile e sicuramente non è elegante per il mio ruolo (che ancora qualcuno dovrebbe spiegarmi in un gioco di rimbalzi e delazioni che mi hanno trascinato su tavoli diversi da giullare scarso a politicante interessato). Non è elegante, mi dicono, lasciarmi prendere dalla pancia che è una zona molle. Eppure oggi provo rabbia. Forse perché mentre scrivo sono di fianco ai nomi di questo Consiglio Regionale che vengono “segnalati” nell’ordinanza e nemmeno troppo preoccupati stanno preparando la strategia difensiva tutta di comunicazione e per niente sui fatti, i riscontri e la realtà. Come al solito. Però scrivo con il sorriso. Il sorriso nel leggere le intercettazioni dove queste merde criminali trapiantate anche qui si sentono braccati come topi di fogna mentre si dicono “questa volta non ce la scampiamo”, con la Boccassini sulle carte a tenere la barra diritta in un’operazione che comunque passerà alla storia. E allora mi si accende il sorriso ad immaginarmeli Alessandro Manno e Emanuel De Castro che scodinzolano desolati sotto gli stipiti. Mi si apre il sorriso a pensare che la mafia che in Lombardia non esiste ha deciso in Lombardia di chiamarsi proprio “Lombardia”, mentre il boss Pino Neri veniva eletto a Paderno Dugnano in un Centro intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sorrido perché non potranno rimanere impuniti: impuniti loro e impuniti tutti quelli che non sentono e non vogliono sentire, in una palude di immobile e latente inciviltà dove informare è un atto di coraggio. Non si potrà stare a lungo impuniti a forza di giocare a fare i sordi: magari mangiati, comprati, giudicati, annessi o complici. Perché il silenzio è complice. E allora mi sia giustificata la rabbia davanti ad un silenzio gelatinoso e interessato che oggi sanguina come di certo non si può nascondere. Lasciando per un secondo il tempo delle analisi, delle considerazioni, dei risvolti politici o criminali. Mi si lasci la rabbia e il sorriso di guardare oggi negli occhi chi gioca a sommergersi tenendomi la testa sott’acqua.

Da AGORAVOX: Voglio battermi per costruire un’Italia migliore

L’ho scritto già il giorno dopo l’approvazione della legge al Senato. Lo ribadisco oggi. Ci troviamo dinanzi una situazione per cui Antigone si deve scontrare con Creonte. Sono sempre più convinto che bisogna chiedere, ad ogni cittadino, la disobbedienza civile a una legge ingiusta. Dobbiamo fare in modo che Creonte riconosca le ragioni di Antigone e non possa permettersi di mandarla in esilio, perché il consenso elettorale non equivale all’annichilimento del diritto.

Essere eletti non significa agire sopra le leggi ma per esse. Agire affinché i cittadini siano coinvolti nella vita del paese e non si sentano succubi del re di turno. No, questa volta il re non deve agire per sé. Nell’Italia dei furbetti, delle cricche, delle tangenti, approvare questa legge significa abiurare alla democrazia. Perché con questo disegno di legge il Governo si contrappone inevitabilmente al diritto, poiché in uno stato di diritto non è accettabile una legge che si scontra con la norma costituzionale e con la Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

Non è accettabile che si facciano leggi a tutela dei propri interessi. Non è accettabile che si imbavagli la stampa. Non è accettabile. Punto.

Sono stato tra i primi a scrivere per AgoraVox e da sempre gli sono accanto nella battaglia per la libertà d’espressione. Ero sul palco il giorno in cui è stata presentata a Roma, sono qui, oggi, mentre adempie al suo compito di watchdog della poltica e dell’informazione.

Insieme abbiamo creato Mafiopoli, abbiamo sfidato boss e comparse, abbiamo seguito l’Expo, denunciato connivenze. Abbiamo fatto un percorso lungo. Un percorso che non può fermarsi, ora, dinanzi alla volontà di un’élite il cui unico scopo è la tutela dei propri interessi.

Se dovrò disobbedire, lo farò. Se dovrò pubblicare su AgoraVox le notizie che altrove non si potranno pubblicare lo farò. Non è con una legge che si è espropiati del nostro diritto alla parola. Non è con una legge che si annullano i nostri diritti di cittadinanza.

Tutto ciò non è solamente un’ipoteca sul futuro ma anche una tomba sulla nostra storia recente. E’ un macigno gettato sulla lotta alla criminalità organizzata e sulle loro vittime. Perché tante volte le indagini non nascono come indagini di mafia ma lo diventano. Con questa legge, alcune, non sarebbero mai partite. Io non voglio vivere in un paese che dimentica il suo passato e ipoteca il suo futuro. Voglio battermi per costruire un’Italia migliore.

Io ci sono. E voi?

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