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mafia

Il fallito attentato a Crocetta è la foto della loro indegnità

Le notizie dell’ultimo ed ennesimo attentato pianificato ai danni del sindaco di Gela e deputato al Parlamento Europeo Rosario Crocetta  dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la pavidità e la bassezza umana della mafia gelese di fronte alla schiena dritta e lo sguardo fiero della buona politica per la legalità coltivata con impegno e senza proclami.

Con Rosario ho l’onore di avere cominciato una battaglia politica e culturale contro questo cancro indegno che avvelena il nostro paese nascondendosi tra le pieghe dell’indifferenza e dell’irresponsabilità.

Con Rosario ho imparato a sopportare le difficoltà della mia vita violentata nella tranquillità fino a costringermi all’essere scortato, osservando la sua dignità nell’affrontare i pericoli a cui e’ quotidianamente esposto.

Con Rosario ho capito l’importanza di essere vigili, prima che vigilati.

Per questo lo abbraccio restituendogli tutta la forza che mi ha sempre assicurato. Sappia la mafia gelese (che sia Stidda o Cosa Nostra) che quest’ultimo ululato vigliacco ci rafforza nella nostra voglia di contrastarla, raccontarla e rinchiuderla nella latrina che e’ l’unico suo luogo possibile, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione a dispetto di  qualsiasi pallottola e qualsiasi bomba; in Italia, in Sicilia, e personalmente ancora di più nelle pieghe lombarde in cui tenta malamente di nascondersi. Sappiamo i nomi, sappiamo le facce, e da oggi le urleremo ancora più forte. Senza paura.

Giulio Cavalli

Le storie “invisibili” di uomini in guerra

Il giudice Caselli e un poliziotto della squadra Catturandi ospiti al teatro Nebiolo di Tavazzano. «Il mio pianerottolo come una trincea per ricordarmi questo conflitto». Un magistrato e un poliziotto, sullo stesso palco, impegnati nella stessa battaglia. Venerdì sera al Nebiolo di Tavazzano, si sono intrecciati i racconti del magistrato Gian Carlo Caselli, da 37 anni sotto scorta per le sue inchieste sul terrorismo prima e sulla mafia poi, e uno degli uomini della mitica sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo, che da 16 anni insieme a un gruppo di colleghi, invisibili quanto lui, dà la caccia ai latitanti più pericolosi della criminalità organizzata. Tra loro, in una serata blindata da polizia, carabinieri e digos (anche per proteggere l’anonimato del super poliziotto della Catturandi, I.M.D. per convenzione), il regista e autore Giulio Cavalli, direttore artistico del Nebiolo, sotto scorta da 8 mesi per le minacce dei clan. A Gian Carlo Caselli e alla sua esperienza da protagonista nelle guerre più sanguinose e importanti affrontate dallo Stato, raccontate nel suo libro Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, scritto a quattro mani con il figlio Stefano, la responsabilità di tracciare il parallelo di queste battaglie. È stato proprio Caselli a raccontare la rivoluzione di popolo che ha portato all’isolamento dei brigatisti. Questa la differenza nelle due lotte, «perché la mafia non è mai stata considerata altro da noi – ha spiegato il procuratore Caselli – : la mafia è un intreccio perverso di rapporti torbidi tra pezzi della società, della politica, della cultura, dell’informazione. Una zona grigia in cui hanno molta rilevanza quelle che si chiamano “relazioni esterne”. Se dal dopo stragi ad oggi, c’è una continuità operativa straordinaria nel contrasto militare, non c’è la stessa continuità nel cercare di individuare gli inquietanti rapporti tra mafia e politica. Se ti occupi di Riina vai bene, se inizi a guardare alle relazioni esterne che coinvolgono personaggi eccellenti, sempre facendo il tuo dovere, i bastoni tra le ruote sono molto frequenti». Positivo il pensiero di Caselli sulla possibilità di sconfiggere definitivamente il fenomeno, «perché come diceva Falcone, la mafia è una vicenda umana e come tale ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Se ci credeva Falcone, dobbiamo crederci anche noi». Una battaglia dura, fatta di rischi personali, come quelli vissuti in prima persona dal giudice che ha aperto una parentesi sul lato umano della sua esperienza a Palermo, quando viveva in un palazzo di otto piani completamente svuotato, con un ascensore che non faceva fermate intermedie. «Il mio pianerottolo era una trincea, piantonato da un soldato di leva, un poliziotto, con del filo spinato e dei sacchi di sabbia – ha raccontato il giudice – : bastava quest’immagine ogni mattina per ricordarmi che ero in guerra». A confrontarsi ogni giorno con il braccio armato della criminalità organizzata, il giovane poliziotto della Catturandi, I.M.D.,classe 1973, autore del libro Catturandi. Da Provenzano ai Lo Piccolo, come si stana un pericoloso latitante. Entrato in polizia a 21 anni sull’onda dell’effetto traumatico del post stragismo, come molti giovani di quella terra insanguinata che sentivano il peso della morte dei giudici Falcone e Borsellino come senso di responsabilità, si è trovato nella sezione speciale quasi per caso. «Mi misero alle intercettazioni e mi dissero che sarei rimasto lì un paio di giorni, per fare esperienze. Dopo sedici anni sono ancora lì – ha raccontato lui, che ha sempre vissuto senza poter rivelare a nessuno la sua vera occupazione – : alla mia ragazza dicevo di stare all’ufficio passaporti». In realtà era in una delle sezioni più attive della squadra mobile, una seconda casa in cui un gruppo di giovanissimi poliziotti, guidati da validi funzionari, hanno iniziato una battaglia vissuta giorno e notte, fatta di dettagli, tracce, pedinamenti, un lungo lavoro di ricostruzione dei movimenti dei fiancheggiatori necessario per arrivare ai latitanti. «Ma il nostro lavoro non è sufficiente – ha spiegato ancora il poliziotto -: se anche arrestassimo tutti i latitanti ancora in libertà, e lo faremo, la mafia esisterebbe ancora, perché c’è un problema storico e culturale. Se un giovane per trovare lavoro deve rivolgersi alla criminalità, significa che lo Stato è assente. I mafiosi hanno il controllo del territorio perché il cittadino riconosce quest’autorità. Se lo Stato non copre questi buchi, non riusciremo mai a vincere il fenomeno».

Rossella Mungiello

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Due parole e qualche fatto su “via Bettino Craxi”

“Più sono le leggi, più sono i ladri”
Bettino Craxi

Attenzione: la patetica idea dell’ormai prevedibile sindaco Moratti di intitolare a Bettino Craxi una via in Milano non è meramente un problema solo politico: è lo specchio di un’impunità culturale che in tutti i campi è diventata un trofeo con tutto intorno una sonnolenza scoraggiata e martellata secondo le regole della prostituzione pubblicitaria piuttosto che quelle della memoria politica di un paese. Già la proposta avanzata dal sindaco Moratti indica che il limite della dignità verso la memoria è stato superato; al di là degli esiti pratici è un’onta che puzza di sugo rancido che ci teniamo sulla giacca di questa città già imbrattata.

Quella stessa parte politica che ultimamente scalcia goffa ululando al rispetto delle istituzioni oggi ci dichiara chiaramente che la Memoria di questo paese (quella con la M maiuscola che è figlia unica della storia) non è affidata ai Fatti ma alle opinioni di pessimi opinionisti prestati a tempo indeterminato al mestiere indegno di apriporte o lucida ottoni al servizio degli interessi di pochi.


E allora non stupisce che si decida di dedicare una via proprio a colui che per primo trasformò in Sistema quel meccanismo infame di corrotti e corruttori che premia il miglior offerente a scapito del più capace. Quel sistema che ha trasformato la meritocrazia in un privilegio piuttosto che un diritto. E quando i diritti diventano privilegi da supplicare significa che qualcuno insieme ai soldi si è rubato anche le regole del gioco, che la partita è impari, che la democrazia è diventata un souvenir.
Craxi è stato condannato con sentenza passata in giudicato a: 5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo Eni-Sai il 12 novembre 1996; 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito per le mazzette della metropolitana milanese il 20 aprile 1999. Per tutti gli altri processi in cui era imputato (alcuni dei quali in secondo o in terzo grado di giudizio), è stata pronunciata sentenza di estinzione del reato a causa del decesso dell’imputato. Fino a quel momento Craxi era stato condannato a: 4 anni e una multa di 20 miliardi di Lire in primo grado per il caso All Iberian il 13 luglio 1998, pena poi prescritta in appello il 26 ottobre 1999; 5 anni e 5 mesi in primo grado per tangenti Enel il 22 gennaio 1999; 5 anni e 9 mesi in appello per il Conto Protezione, sentenza poi annullata dalla Cassazione con rinvio il 15 giugno 1999; 3 anni in appello bis per il caso Enimont il 1° ottobre 1999. Bettino Craxi morì condannato “volontariamente sottratto alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di dimora o ad un ordine con cui si dispone la carcerazione” : Bettino Craxi morì latitante secondo l’articolo 296 del Codice di Procedura Penale.
Un grande statista (ma anche un mediocre politico) deve (almeno) affrontare i processi, piuttosto accetta di diventare un collaboratore di giustizia, contribuisce in maniera decisiva al risanamento etico e giuridico della classe politica italiana; e piuttosto responsabilmente accende una stagione di prosperità e rigore che lo può vedere protagonista, ruolo a cui il suo “pentimento”  gli darebbe piena legittimazione. Invece il piccolo Craxi è fuggito ed ha vissuto i suoi ultimi anni in latitanza eludendo di fatto le leggi del suo Paese.
E allora mi scuserà la sindachessa se proprio non riusciamo ad esserne orgogliosi, in una Milano che mentre lascia la mafia sotto il tappeto e gli operai sopra i tetti si preoccupa di mettere in strada un monumento a Bettino. Un riconoscimento all’anti-memoria che, per amor del vero, esiste già non solo in altre città ma ci viene propinato tutte i giorni a tutte le ore su quelle televisioni figlie del craxiano “decreto Berlusconi” varato per salvare l’allora imprenditore Silvio Berlusconi dalla decisione dei pretori di Torino, Roma e Pescara di oscurare i canali televisivi della Finivest. Quelle televisioni che sono lo spot pubblicitario continuo dell’omicidio della meritocrazia imprenditoriale in questo paese. Quelle televisioni che per uno strano gioco di uguaglianze sono figlie (nella modalità della nascita) non di una democratica di discussione in Parlamento ma di un monocratico voto di fiducia; nello stesso modo innaturale e antiparlamentare con cui opera abitualmente questo attuale governo.
Mi scuserà il sindaco Moratti se mi permetterò di raccontare ai miei figli, prima di chi fosse Bettino Craxi, che questa è la città di Guido Galli, di Ambrosoli, di Alessandrini e molti altri. Se mi permetterò di raccontargli che Craxi oggi esce ingigantito solo per il paragone con i nani dell’attualità. Mi scuserà se mi viene da sorridere pensando che addirittura Bobo Craxi (che a 25 anni era già segretario del Psi milanese per discendenza diretta) arrivò a dire “Non mi sono mai considerato craxiano” (10-9-92).
L’aforisma di un anonimo arabo dice: Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero.
E allora se davvero come disse Silvio Berlusconi il 21 settembre del ’94 “io a Craxi non devo nulla. Ho sempre riconosciuto il ruolo dei magistrati nella lotta al sistema perverso della Prima Repubblica. TV e giornali della Fininvest sono sempre stati in prima linea a difendere i magistrati e in particolare Di Pietro!” non cerchi oggi di chiedere scusa con una via.
Non dico per rispetto di Giustizia, non dico per Memoria; almeno per Dignità, se ne è avanzata un po’.

Il cacciatore di latitanti si racconta al Nebiolo con Giancarlo Caselli

— TAVAZZANO —
APPUNTAMENTO di prestigio questa sera a Tavazzano, dove si presenta si presenta «Catturandi», il libro scritto da un poliziotto palermitano, I.M.D., che ha preferito non svelare la propria identità per motivi di sicurezza, perché si occupa della cattura dei più pericolosi latitanti di mafia in una delle realtà più difficili del Paese.
All’incontro in programma questa sera parteciperanno, insieme all’autore del volume, i magistrati Raffaele Cantone e Gian Carlo Caselli (nella foto), già procuratore capo di Palermo.

LA PRESENTAZIONE del libro si terrà questa sera alle 21 all’interno del Teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco. Il dibattito sarà coordinato da Giulio Cavalli, attore, regista, autore teatrale e direttore artistico del teatro Nebiolo. Cavalli, fra l’altro, secondo quanto appreso in settimana, sarà anche uno dei candidati di punta dell’Italia dei valori al consiglio regionale, durante le elezioni di fine marzo.
L’evento in programma questa sera fa parte del ciclo «Documentazione per un teatro civile», organizzato all’interno della struttura di Tavazzano.
Il libro «Catturandi» racconta, in modo diretto, l’esperienza professionale di I.M.D. e i metodi di lavoro della sua squadra.
R.Lo.

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Il “superpoliziotto” e Giancarlo Caselli alla sera sulle mafie

Il “grande orecchio”, una squadra che in incognito spia i movimenti dei clan e dei suoi capi. Uomini e donne senza nome e senza volto, che per motivi di sicurezza affrontano una missione importante nel più completo anonimato. Sono gli agenti della Sezione catturandi della squadra mobile di Palermo. Ci sarà uno di loro, I.D.M. per convenzione, sul palco del teatro Nebiolo di Tavazzano stasera insieme al magistrato Giancarlo Caselli e al regista lodigiano Giulio Cavalli. “Catturandi. Da Provenzano ai Lo Piccolo: come si stana un pericoloso latitante”, questo il titolo del libro testimonianza in cui il giovane poliziotto, classe 1973, racconta le dinamiche operative della squadra impegnata nel ricostruire la rete di connivenze che da sempre protegge i latitanti più pericolosi di Cosa nostra, che sarà presentato sul palco di via IV Novembre. Leggi ed esperienza professionale, regole e istinto, competenza professionale e capacità di improvvisazione, questi alcuni degli ingredienti necessari per trasformare un poliziotto in uno specialista della Catturandi. Vietato qualsiasi ripresa audio e video per proteggere l’anonimato dell’autore durante la serata dedicata alla lotta contro le mafie. Sarà assente per motivi personali il magistrato Raffaele Cantone. Ci sarà invece la testimonianza di Giancarlo Caselli (nella foto) che, pungolato dalla domande del direttore artistico del Nebiolo, Giulio Cavalli, attore antimafia sotto scorta, parlerà del suo libro “Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia”.

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Mafia e politica: il teatro un’arena civile

Domani sera a Tavazzano l’appuntamento con i due magistrati, sul palcoscenico con Giulio Cavalli. . I giudici Caselli e Cantone al Nebiolo per raccontare la lotta per la giustizia. Riprendono gli incontri del Centro di documentazione per un teatro civile, il laboratorio di ricerca e produzione artistica nato a Tavazzano in seno alla Bottega dei mestieri teatrali di Giulio Cavalli; domani sera, alle 21, sul palco del teatro Nebiolo, saranno ospiti i magistrati Raffaele Cantone e Giancarlo Caselli che, moderati dallo stesso Cavalli, racconteranno al pubblico del loro lavoro, di come sceglierlo abbia influito sulla loro vita professionale e privata. Filo conduttore dell’incontro: i capitoli dei libri che entrambi i magistrati hanno recentemente dato alle stampe, accomunati dal desiderio di raccontare un’esperienza che, per quanto diversa, si pone come esempio di coraggio, dedizione e valore civile. Raffaele Cantone, 45 anni, pubblico ministero alla Dia di Napoli fino al 2007, ha affidato alle pagine di Solo per giustizia (Mondadori, 2008) il compito di testimoniare quanto possa essere pericoloso il suo mestiere, soprattutto se sei diventato il nemico numero uno di un clan mafioso potente e ramificato come quello dei Casalesi. Cantone racconterà al pubblico del Nebiolo di come, studente di giurisprudenza inizialmente intenzionato a vestire la toga di un avvocato, sia finito qualche anno più tardi a lavorare come magistrato in una delle Direzioni distrettuali antimafia più infuocate d’Italia, di come si faccia ad andare avanti con la scorta sempre appresso in ogni istante della giornata e la paura di una morte più volte minacciata. Il primo istinto sarebbe quello di considerare un uomo come Cantone un eroe, fermamente deciso a seguire fino in fondo quella che potrebbe essere definita una sorta di “vocazione missionaria”, ma raramente i magistrati della sua stessa pasta amano definire così la propria carriera, preferiscono parlare – come fa Cantone nel suo libro – di un percorso graduale, talvolta persino casuale, dove però rimane sempre salda la passione per il diritto. Una passione che ha mietuto parecchie vittime tra i magistrati italiani, e che sprona chi li ha conosciuti e stimati a continuare la battaglia in cui sono caduti, a ricordare a tutti le loro storie. In questa prospettiva si colloca Le due guerre – Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia (Melampo editore, 2009), il libro con cui Gian Carlo Caselli ripercorre trentacinque anni di storia italiana, dalla Torino degli anni Settanta – presso il cui tribunale lavorava come giudice istruttore – alla Palermo degli anni Novanta, conosciuta grazie alla nomina a procuratore. Lo sguardo di Caselli è quello di chi ha combattuto e combatte una duplice guerra, una contro il terrorismo di sinistra e l’altra contro la mafia, tra le quali solo la prima può dirsi vinta, mentre la seconda è ancora in sospeso. Dal processo ai capi storici delle Brigate rosse al pentimento di Patrizio Peci, dalle stragi di Capaci e via D’Amelio all’arresto di Totò Riina, passando per il caso Cossiga/Donat-Cattin e il processo a Giulio Andreotti: in mezzo, il ricordo di tanti, troppi amici che, in questa storia aspra di rischi e di eroismi, combattendo hanno perso la vita. S. C.

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

La mafia sbeffeggiata, Giulio Cavalli premiato dalla Fondazione Fava

Il riconoscimento nel nome del giornalista ucciso nel 1984. Va a Giulio Cavalli, scrittore, autore, regista antimafia, il premio Giuseppe Fava, sezione giovani. Un premio all’impegno per il drammaturgo lodigiano, che ritirerà il riconoscimento lunedì 4 gennaio nell’aula consiliare di Palazzolo Acreidr (in provincia di Siracusa), città natale di Giuseppe Fava, il giornalista e scrittore ucciso nel gennaio del 1984 da alcuni esponenti del clan Santapaola. Un regalo inaspettato per Giulio Cavalli, che arriverà in Sicilia nella giornata di domani per partecipare alla manifestazione dedicata al direttore della «Gazzetta del Sud», anche carismatico fondatore de «I siciliani», storica testata antimafia, ucciso proprio per il suo impegno giornalistico contro la criminalità organizzata.Nella stessa occasione sarà premiato anche il giornalista Sigfredo Ranucci, collaboratore della trasmissione Report di Milena Gabanelli.«Sono sostanzialmente un teatrante stonato, forse un giornalista mancato, certo un appassionato di memoria e di racconto che coltiva un pensiero con mezzi diversi per uno stesso fine – ha commentato il regista lodigiano sul proprio sito web -, se mi sforzo di pensare a chi mi senta “vicino” per modi e sapori penso a Giuseppe Fava, al suo giornalismo con la schiena dritta, al suo teatro mai scontato e con il forte senso del dovere e alla sua quotidiana e genetica voglia di lottare per sentirsi vivo». Per questo ritirerà il premio «con il tremolìo emozionato di un bambino davanti ad un regalo inaspettato e con il sorriso per un “nome” poco nominato che speravo prestissimo di incrociare». Il primo appuntamento con il palco del premio Giuseppe Fava per Giulio Cavalli è per domenica sera. Dopo la tavola rotonda sul rapporto tra mafia, potere ed informazione a cui prenderanno parte, tra gli altri, l’onorevole Bendetto Fabio Granata e il senatore Beppe Lumia, della commissione parlamentare antimafia, Cavalli salirà sul palco con una serie di monologhi (Giuseppe Fava, un uomo e 500 euro e stai messo a posto a cui seguirà un estratto del suo spettacolo A cento passi dal Duomo). Il premio per la sezione giovani arriverà nella mani dell’autore lodigiano, lunedì 4, dopo il dibattito a cui prenderà parte, tra gli altri, anche Claudio Fava, il figlio del giornalista ucciso. «I critici teatrali sono i sacerdoti al ballo delle banalità, vivono paragonando sempre noi a qualcun altro. Io sono stato il nuovo Fo, il nuovo Paolini, il nuovo Celestini, poi sono diventato il nuovo Impastato perché semplicemente mi sono permesso di credere, come lo credeva lui, che la risata sia una delle armi più soddisfacenti per smerdare la vacuità morale dei boss mafiosi e per disonorarli – ha commentato Cavalli -: pur contento di essere accostato a queste persone, anche a livello professionale, però, io non c’entro nulla. Non sono un attore, per cui non arriverò mai ai livelli di Fo; non sono una persona a cui interessa fare memoria, ma più inchiesta, quindi sono molto lontano da Paolini, e se c’è una persona a cui mi sono sempre sentito vicino è invece Pippo Fava. Ricevere questo premio così inaspettatamente significa che esiste una giustizia delle consonanze».

Rossella Mungiello

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Palazzolo Acreide (Sr): domani al via il premio Fava

Prenderà il via domani a Palazzolo Acreide nel siracusano, la IV edizione del premio Fava “Scritture e immagini contro le mafie”. Il premio giornalistico, istituito nel 2006 nella cittadina natale del giornalista assassinato dalla mafia nel 1984, ricorda Pippo Fava, il suo operato e il suo giornalismo di denuncia attraverso una tre giorni di dibattiti sui temi dell’informazione. A partecipare all’incontro saranno giornalisti, esperti dicomunicazione e uomini che, con il loro impegno civile, hanno detto No alla mafia. Si parlerà di informazione libera, dei rapporti con il potere e la pubblica opinione, del giornalismo scomodo di inchiesta e di denuncia cui Pippo fava ha dedicato la sua vita fino alla morte. Ma si parlerà anche di quella mafia che, a 26 anni dalla morte del giornalista siciliano, ha assunto caratteri distintivi differenti da quelli degli anni Ottanta.
Nell’edizione di quest’anno del premio Fava la novità sono i due spettacoli teatrali di domani e domenica dal titolo “La mafia è un’idea” e i “monologhi di Giulio Cavalli”, attore e regista cui verrà conferito il premio Giovani Fava, durante la serata finale della manifestazione a Palazzolo Acreide.
Il cinque gennaio, infine, al centro di culture contemporanee Zo di Catania si svolgerà la premiazione del premio nazionale Giuseppe Fava, che sarà conferito al giornalista Sigfrito Ranucci, giornalista della trasmissione televisiva di Rai3 “Report”.

Maria Chiara Ferraù

01 / 01 / 2010

DA ECO DI SICILIA

http://www.ecodisicilia.com/palazzolo-acreide-sr-domani-al-via-il-premio-fava.htm

Giulio Cavalli: pensieri tra anno che muore e anno che nasce

Un regista e attore sotto scorta perché le risate non piacciono ai boss. In Italia è successo anche questo.
Giulio Cavalli: pensieri tra anno che muore e anno che nasce
A sentire la sua voce dimostra più anni dei 32 che ha compiuto a giugno. Sì, ha solo 32 anni ed è un altro concittadino italiano sotto scorta perché minacciato dalla mafia. Non è meridionale ma vive in Lombardia. Non è un giornalista (nel senso classico del termine) o un magistrato; Giulio Cavalli è un regista teatrale, uno scrittore e un attore.

Quando risponde alle domande dimostra una grande umiltà e quasi inconsapevolezza di ciò che rappresenta agli occhi di molti giovani di oggi. Quando gli si ricorda che è stato ribattezzato il Saviano del nord non si capisce se sia più divertito o arrabbiato. Credo arrabbiato.

Ha messo in scena coi suoi spettacoli pezzi della nostra storia recente e più scomoda, come l’assurda morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova, in (Re) Carlo (non) torna dalla battaglia di Poitiers, o l’incidente di Linate in Linate 8 ottobre 2001: la strage, un monologo sul disastro aereo in cui persero la vita 118 persone.

E in Bambini a dondolo mostra al pubblico quel dramma sociale che attraversa le frontiere che è il turismo sessuale infantile. Ma è con il suo spettacolo Do ut Des – Riti e conviti mafiosi, che il suo lavoro va a toccare quei fili da cui in Italia è sempre bene tenersi lontani se vuoi vivere tranquillo. Attraverso la storia di Totò Nessuno, si viaggia appunto tra riti e cerimoniali mafiosi, che vengono dissacrati e resi ridicoli agli occhi dello spettatore divertito e amareggiato.

Penso che le parole più adatte per parlare di Do ut Des siano proprio le sue: “Tutte le mafie del mondo vivono, proliferano e crescono sulla base del proprio onore che cresce sulla paura. Quell’onore si incancrenisce e diventa credibilità fino a sommergersi e travestirsi di cultura. Ridere di mafia significa ribellarsi ad un racket culturale”.

Alla fine di questo lungo anno, abbiamo voluto chiedergli di tirare le somme di questi 12 mesi e delle speranze che nutre per il 2010 alle porte. Con qualche risposta che ha preferito non dare e un premio da ritirare ai primi di gennaio.

Il 2009 è stato per lei un anno importante. Ci può raccontare come è cambiata la sua vita e come ripensa oggi a quest’anno che se n’è andato?
Se penso al 2009 non penso all’aspetto televisivo e vouyeuristico della scorta. Il 2009 è stato un anno importante perché ho fatto delle scelte importanti, augurandomi di avere lucidità e onestà intellettuale per riuscire a farle anche nel 2010. Poi ad ogni disposizione e presa di posizione seguono purtroppo delle reazioni che sono più o meno civili. Però siccome ho sempre preferito dedicarmi alle cause e non agli effetti, allora questo 2009, che è stato un anno di cause, è importante.

Ora che vive sotto scorta, e viene definito il Saviano del nord, rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Non definitemi il Saviano del nord, per piacere. Non usate questa espressione, vi prego. Ci sono 675 persone in Italia sotto scorta.

Ma rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Ma certo. Io non faccio qualcosa in base alle conseguenze. Cioè, se trovo che qualcosa sia giusto, l’ultimo mio pensiero è quali conseguenze potrebbe comportare. Io mi dedico alla pars construens delle mie decisioni, quindi mi auguro di non arrivare mai a essere compromettibile, a essere piegato su me stesso e piegato sugli effetti. Quindi assolutamente rifarei tutto quello, e continuerò a farlo.

Secondo lei perché è così difficile pensare che la mafia non sia solo un problema del sud Italia?
Perché il nord, e soprattutto la Lombardia è sempre stata la regione regina nel prostituire la politica ai linguaggi della pubblicità, e allora, se ci pensi, l’effetto tranquillizzante, l’effetto più importante in politica è che sia sotto forma di spot, e la mafia è un fenomeno che è vissuto, per chi ha una conoscenza superficiale o ignorante, come qualcosa di molto sporco e peloso; per chi invece ha avuto appena appena il gusto e la voglia di approfondire un po’, si scopre che è figlia della debolezza morale di una classe politica. E’ come fare lo spot di un panettone e dire che però poteva succedere che qualche candito non sia buono.

Lei utilizza il grammelot per fare un teatro che è di denuncia sociale. Da che cosa deriva questa scelta?
Il grammelot è il cordone ombelicale coi giullari e con gli arlecchini, e i giullari sono stati i più grandi attori di teatro civile, molto di più di noi che ci siamo imborghesiti cinquecento anni dopo. Quindi recuperare un po’ di pancia per essere il più possibili trasparenti anche in scena mi sembrava fondamentale. Poi, siccome il federalismo esiste solamente nelle teste di qualche ebete ma in realtà lo stesso federalismo, il purismo linguistico, soprattutto in Lombardia è un’utopia, tra l’altro criminale, allora il grammelot è quella lingua che ti permette di non essere identificabile con una zona, soprattutto in questo momento in cui l’identificazione con i quartieri sembra quasi che diventi un elemento di pregio.

Il grammelot è stato utilizzato anche da Dario Fo. Pensa che questo sia uno degli aspetti che ha portato al vostro incontro?
Beh, sicuramente come formazione teatrale sono molto vicino a Fo, per cui era una grande speranza lavorare con lui. E tra l’altro Fo è stato, penso, uno degli esempi negli anni ’70, proprio dell’uso politico, nel senso alto del termine politica, della risata. E quindi rimane sicuramente un maestro irraggiungibile, per chiunque.

Cosa le ha lasciato, insomma, quest’esperienza col premio Nobel?
Ogni volta che ti capita di fare un incontro importante ci sono due aspetti. Uno che se vuoi è egoistico ed è la soddisfazione di aver potuto ottenere della stima di persone che hanno fatto la storia del nostro lavoro. E poi cercare di assorbire il più possibile quello che queste persone ti possono dare. Io credo che ormai la persona Fo è schiava, nel senso bello, del teatrante che è geneticamente in tutto quello che fa e in tutto quello che dice.

Spera che vi siano altre vostre collaborazioni in futuro?
Sì, mi auguro che le collaborazioni continuino. Spero che gli incontri siano sempre l’inizio di qualcosa, non l’apice.

Il 2010 inizierà per lei con il premio Fava, per cui lei ha detto che reagirà col tremolio emozionato di un bambino davanti ad un regalo inaspettato… Ci può dire qualcosa di più su questo premio, lei che si è definito un giornalista mancato?
Guarda, siccome i critici teatrali sono i sacerdoti al ballo delle banalità, vivono paragonando sempre noi a qualcun altro. Io sono stato il nuovo Fo, il nuovo Paolini – il nuovo Paolini con, tra l’altro, Marco in buona salute e che continua a lavorare – il nuovo Celestini, semplicemente perché usavo un linguaggio, un ritmo molto alto durante gli spettacoli. Poi sono diventato il nuovo Impastato perché semplicemente mi son permesso di credere, come lo credeva lui, che la risata sia una delle armi più soddisfacenti per smerdare la vacuità morale dei boss mafiosi e per disonorarli. Allora in tutto questo io, fondamentalmente, pur contento di essere accostato a queste persone, anche a livello professionale, però, non c’entro nulla; io non sono un attore, per cui non arriverò mai ai livelli attoriali di Fo; non sono una persona a cui interessa fare memoria, ma più inchiesta, quindi sono molto lontano da Paolini, e se c’è una persona a cui mi sono sempre sentito vicino è inevitabile che fosse invece Pippo Fava, che tra l’altro paga, con questa carenza di memoria, proprio questa non specificità, il fat
to che lui non si sia riuscito a dare un ruolo. E quindi ricevere il premio Fava così inaspettatamente vuol dire che allora esiste una giustizia delle consonanze. E poi vado a ritirare un premio giornalistico di una persona che non era solamente un giornalista; è sempre molto riduttivo, secondo me, marchiare le persone. E’ allora per questo che forse è uno tra i premi che ho ricevuto che più mi sorprende, perché l’avrei sempre sperato. Ecco, per questo.

Speranze per il 2010?
Di continuare a essere onesto, con me stesso.

Ultima domanda. Si parla di lei come candidato dell’Idv alla regione. Accetterà?
No, non rispondo a questa domanda.

Devia?
Devio.

di  Laura Meloni

DA AGORAVOX.IT

L’ARTICOLO QUI

Il Premio Fava all'attore Giulio Cavalli Per l'impegno civile nel suo teatro-verità

Siracusa – Con il suo teatro di inchiesta scuote le coscienze, o almeno ci prova. Di certo scuote gli animi in certi ambienti criminali, tanto che dallo scorso anno, dopo la rappresentazione di Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi, coprodotto dal comune di Lodi e dal comune di Gela, vive sotto scorta. Giulio Cavalli, 32 anni, attore, regista e autore teatrale di estrema caratura civile è il vincitore del Premio Pippo Fava 2010, sezione giovani.
L’annuncio è stato fatto questa mattina nella sala degli Stemmi, della provincia regionale di Siracusa, dove è stato presentato il programma della manifestazione, dedicata al giornalista ucciso dalla mafia, che si terrà dal 2 al 4 gennaio prossimi a Palazzolo Acreide, città natale di Fava. All’incontro con i giornalisti hanno partecipato la vice presidente della fondazione Fava, Maria Teresa Ciancio, Nuccio Gibilisco del coordinamento Fava di Palazzolo, Gabriella Galizia (coordinamento Fava), Giusy Aprile, responsabile provinciale di “Libera”, Damiano Chiaramonte, segretario provinciale dell’Associazione Siciliana della Stampa e il vice sindaco di Palazzolo, Paolo Sandalo.
Il premio sarà consegnato lunedì 4 gennaio alle 17.30 nella sala consiliare del palazzo di città di Palazzolo Acreide. Gli organizzatori hanno svelato anche il nome del vincitore del tradizionale premio Fava: si tratta di Sigfrido Ranucci, giornalista della trasmissione Report. Questa consegna avverrà a Catania, alle 18,30, presso il centro culturale Zo.
Un po’ tutti i presenti hanno ricordato questa mattina la figura di Giuseppe Fava, sottolineando l’impegno soprattutto dei giovani che credono nel giornalismo d’inchiesta.
Per la Provincia ha portato il saluto ai presenti il presidente del consiglio provinciale, Michele Mangiafico. “Il Consiglio provinciale è stato molto motivato nel suo impegno civile – ha detto -. Nei confronti di Fava abbiamo un debito di memoria, bisogna trasmettere ai giovani il messaggio positivo della sua esperienza di vita”.

DA IL GIORNALE DI SIRACUSA

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