Chi ha paura del giullare?
di Francesca Meschieri
Giulio Cavalli, talentuoso attore lodigiano, ha scelto il dovere della denuncia delle infiltrazioni mafiose nel nostro tessuto economico. Ora vive sotto scorta, ma non si arrende alla solitudine della legalità. Ci vuole coraggio per fare il soldato, il vigile del fuoco o il supereroe: tutte categorie dichiaratamente minacciate dalla natura stessa del male che combattono. Ma ci vuole coraggio anche per vivere nella solitudine della legalità, nel silenzio della propria coscienza, mentre tutto attorno è paura, minaccia, persecuzione. Ci vuole coraggio, oggi, per dare voce alle tante, troppe storie di Malavita che raccontano di un Paese che fa presto a giudicare, ad elevare o distruggere le opinioni e che altrettanto in fretta dimentica il motivo per cui lo fa, alienando così il concetto di responsabilità collettiva.
Forse non tutti sanno che nell’antichità, quando la libertà di parola era un’eresia e nessuno si sarebbe mai sognato di difenderla, i cosidetti matti (chiamati in gergo popolare giullari) hanno sempre goduto della facoltà di dire cose che ad altri non erano concesse e persino sbeffeggiare il Re e tutta la sua Corte; questo perché alle loro folli parole nessuno avrebbe mai dato alcun credito e la presunta follia li risparmiava dall’ira del potere. Giulio Cavalli è un moderno giullare; un ragazzo di 32 anni come ce ne sono tanti, un talentuoso attore lodigiano che ha deciso di salire sui palcoscenici dei teatri di tutta Italia raccontando quanto la Mafia sia presente nel tessuto economico italiano, non solo al Sud ma soprattutto – e più profondamente – nel Nord delle grandi aziende.
Quando ha deciso di intraprendere la carriera di attore professionista immaginava di trovarsi un giorno braccato e minacciato per ‘colpa’ dei suoi spettacoli?
“Le minacce di morte, così come la scorta, sono una parte tutto sommato marginale del mio lavoro di cui non mi piace parlare, perché distoglie l’attenzione dal vero problema: le cause, i fatti scatenanti che hanno portato a questo. In realtà io sono minacciato da un fenomeno che non esiste, effetto e conseguenza di una realtà ben più desolante e cioè la colpa culturale di analfabetismo che ci circonda e che ha prodotto una sostanziale narcosi culturale, una sorta di normalizzazione dei fatti, che induce l’opinione pubblica a non porsi troppe domande, ma accettare in modo passivo (e quindi colpevole) una realtà che sa di marcio. E’ molto difficile raccontare le brutture del proprio Paese, farsi carico di una responsabilità culturale collettiva, scovare e raccontare le storie dei dimenticati ed è inevitabile che prima o poi, si debba incappare nel dissenso”.
Un conto è il dissenso, ma qui si parla di un rischio per la sua incolumità…
“Io faccio solo il mio mestiere, quello del narratore, del giullare di professione e non mi sento altro che uno strumento nelle mani delle carte processuali, che sono il mio vero copione”.
Spesso il fenomeno mafioso viene letto come qualcosa di inevitabile: quanto incide l’aspetto omertoso sul suo proliferare?
“Direi moltissimo. La Mafia non è altro che una forma politica portata alle estreme conseguenze della sua disonestà: la credibilità le deriva proprio dal silenzio della gente, dalla collusione con lo Stato e le Amministrazioni responsabili di tenere la porta socchiusa, di permettere alla malavita di infiltrarsi; una sorta di solidarietà criminale che, soprattutto nel Nord del Paese, si manifesta con il lavoro, i favori, la cessione degli appalti”.
Insomma non dobbiamo pensare alla mafia come un fenomeno che riguarda soltanto alcuni territori del nostro Paese, ma piuttosto come una piaga che riguarda tutti: pensiamo alle presunte infiltrazioni della ‘Ndrangheta, nei lavori di preparazione dell’ Expo milanese 2015…
“I più grandi boss di Cosa Nostra hanno collusioni ed enormi interessi economici al Nord soprattutto in Lombardia ed Emilia Romagna, regioni ricche e prospere, libere dalla mafia soltanto in apparenza: i giornali, purtroppo anche in questo caso, sono colpevoli di non fare informazione vera, ma solo presunta. Un esempio? L’omicidio di Giovanni di Muro, avvenuto a San Siro qualche settimana fa: i maggiori quotidiani l’hanno liquidato come un delitto per rapina quando invece la realtà è ben diversa e quell’uomo, freddato a colpi di pistola di cui uno dritto al volto e quindi dichiaratamente offensivo, era collaboratore della Mafia e amico di Giuseppe Onorato (il riciclatore della ‘Ndrangheta) e Luigi Bonanno (lo stesso che aveva ricevuto incarico dal boss Salvatore Lo Piccolo di uccidere il latitante Giovanni Nicchi). Perché lo stesso omicidio, se fosse avvenuto a Napoli sarebbe stato attribuito alla Mafia, mentre se accade a Milano si configura come un banale litigio?”.
A cento passi dal Duomo è l’ultimo degli spettacoli che state portando in giro per l’italia: scritto a quattro mani con Gianni Barbacetto, fa parte del progetto della ‘Carovana antimafie’, storie e racconti di malavita, nei territori infestati dalla mafia. Quali sono le reazioni del pubblico?
“In verità è sempre più positiva, la gente comincia a condividere le responsabilità che si assumono persone come me, Saviano e Lucarelli: la denuncia per noi è un dovere, lo è la diffusione della cultura, della bellezza e della giustizia. Attualmente sto preparando un nuovo spettacolo che vuole smuovere le coscienze, raccontando la storia di un senatore a vita indagato, ma la cui condanna, non la nostra memoria, è andata in prescrizione”
Da IMPRENDITORI
http://imprenditori.it/2009/12/09/chi-ha-paura-del-giullare/