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mafia

Il governo del “per me”

Luigi Di Maio da ministro degli Esteri ci dice che rispetta la sentenza della Cassazione (beh, almeno quello) ma aggiunge che “per lui” la mafia è un “atteggiamento” ancora “prima dei profili giudiziari”. La frase andrebbe benissimo in un laboratorio a scuola contro il bullismo (ma neanche troppo) ma detta da un ministro confonde molto le acque in un Paese dove la legge fa la legge, il governo governa le leggi e il Parlamento dovrebbe scrivere o modificare le leggi. Per capirci: è un’uscita che serve per difendere la sindaca Raggi ma che ha lo spessore politico di una riflessione al bancone del bar. Ma tant’è.

Quelli di Italia Viva dicono che Quota 100 è una vergogna, “per loro”, ma che accettano di lasciarla nella prossima manovra. Però è una vergogna, ripetono. Ma solo “per loro”, precisano. E però la voteranno. Qualcuno potrebbe chiedergli quindi perché la votano ma risponderebbero che è “per il bene del Paese” (solo perché non possono dire che quella dichiarazione gli serve per esistere, per differenziarsi dagli altri nel momento in cui devono lanciare il loro nuovo partito e quindi farsi notare). E vabbè.

Poi c’è qualcuno che dice che la lotta all’evasione non deve mettere alla gogna i commercianti e i piccoli professionisti. Leggi le carte, le proposte e le dichiarazioni e ti accorgi che nessuno ha indicato i commercianti come causa fondante dell’evasione in Italia, nessuno ha additato nessuno. E quindi ti domandi che senso abbia fingere di smentire una dichiarazione che non è mai esistita soprattutto se stai governando con quelle stesse persone che smentisci. Loro precisano: “per me”, “parlo per me”. Ah, ok.

Poi c’è chi dice che questo governo arriverà fino alla fine, lo diceva tutto il suo partito e invece ieri il segretario di quel partito dice che “andrà avanti finché serve al Paese”. Ma come? Ma davvero? “Per me”, risponde lui. Capito?

Ora, ci sta che la dialettica politica sia un elemento normale anche in una compagine di governo ma c’è qualcuno da quelle parti che si rende conto quanto sia difficile dare credito a questo spettacolo qui fuori?

Grazie.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/10/24/il-governo-del-per-me/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

È una roba enorme quell’incontro con Bija

Non fidatevi del fatto che se ne parli poco: la notizia è rimbalzata in prima pagina sui più importanti giornali stranieri ma qui da noi la prima difesa consiste sempre nel fare finta che l’accusa non esista. E così che Avvenire abbia dimostrato foto alla mano che il governo italiano negozi con Abd al-Rahman al-Milad, il famigerato Bija, travestito da rappresentante della Guardia Costiera libica nel 2017 in un incontro sul modello del Cara di Mineo (che poi prendere a modello il Cara di Mineo è un’altra assurdità da manuale) sembra interessare solo agli addetti ai lavori, come se fosse una notizia da poco, qualcosa di accidentale.

Eppure che l’Italia incontri ufficialmente un uomo accusato di essere uno dei più efferati trafficanti libici, colpevole di omicidi, annegamenti e stupri dimostra almeno una di queste due cose: o il governo italiano e la sua cosiddetta intelligence sono talmente inetti da non sapere nemmeno chi entra in Italia mica con i barconi ma addirittura con inviti in carta bollata o il governo italiano è consapevolmente colluso con la mafia libica che cerca di ripulire chiamandola governo Guardia Costiera libica.

Poi ci sono le reazioni e i comportamenti: gli stessi che si stracciano le vesti per una foto di qualche avversario politico con un pregiudicato oggi tacciono di fronte a una foto che mostra un boss mafioso (anche se libico) ufficialmente invitato. Strano vero? Oppure: gli stessi che giustamente si indignano per la trattativa Stato-mafia sembrano non comprendere che quella foto dimostri che lo Stato italiano e la mafia libica abbiano probabilmente trovato un accordo e addirittura si sponsorizzino lautamente con i soldi dell’Europa. Un po’ distratti, in effetti.

E poi ci sarebbe da chiedere al ministro Lamorgese se è ancora convinta che la Guardia Costiera libica stia “facendo bene il suo lavoro”. E poi ci sarebbe da chiedere a Minniti (e ai suoi fans) se il suo pugno di ferro sia figlio anche di una voluta miopia.

Insomma, è una roba enorme quell’incontro tra istituzioni e carnefice. E come sempre loro fingeranno che non sia successo niente.

Buon lunedì.

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‘Ndrangheta: si pente De Castro in Lombardia

(un gran pezzo di Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella)

«Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta». La prime ore della mattina del 13 settembre. Nell’ufficio al quinto piano della Procura di Milano, davanti ai pm Alessandra Cerreti e Cecilia Vassena, c’è un ragazzo di 29 anni cresciuto nel lembo di terra tra le province di Milano, Varese e Novara che circonda l’aeroporto di Malpensa. Salvatore De Castro è il figlio di Emanuele, 51 anni, nato a Palermo ma affiliato alla ‘ndrangheta lombarda. Vicino al clan di Villagrazia di Cosa nostra, «il siciliano», come veniva chiamato, è stato «battezzato» a ridosso della Pasqua del ‘97. Nella ‘ndrangheta ha scalato le gerarchie al fianco del capolocale di Legnano Vincenzo Rispoli. Prima del suo nuovo arresto il 4 luglio nell’operazione «Krimisa» dei carabinieri e della Dda di Milano, De Castro era arrivato al ruolo di «capo società», vice reggente della cellula calabrese di Legnano. Oggi anche lui, come il figlio Salvatore, è un collaboratore di giustizia.

Una scelta indotta proprio dal figlio, arrestato nella stessa indagine, stanco di nascondersi, di fuggire, di una vita fatta di arresti e condanne. E dettata dalla consapevolezza che dalla ‘ndrangheta si esce soltanto in due modi: da morti o arrendendosi allo Stato. Una decisione capace di vincere il vincolo più grande che regola i clan calabresi, quel legame familiare che impedisce di testimoniare contro i congiunti, i padri, i propri figli. Una scelta «di famiglia», come la racconta lo stesso Emanuele De Castro: «Ho deciso di collaborare perché non voglio che mio figlio faccia ‘sta fine come l’ho fatta io. Perché sono stanco, mi sembra una vita assurda. Non lo so, è venuto il momento di…. vorrei vivere una vita tranquilla con la mia compagna e la mia bambina». La decisione di collaborare era stata preannunciata con due lettere spedite dal carcere dal boss direttamente al procuratore aggiunto Alessandra Dolci, il capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano. Nell’ultima comunicazione il «siciliano» ha chiesto di incontrare i magistrati «senza il mio difensore». In due mesi, padre e figlio hanno riempito centinaia di pagine di verbali. Hanno raccontato ai pm Cecilia Vassena e Alessandra Cerreti, che per molti anni ha combattuto la ‘ndrangheta in Calabria, gli assetti delle cosche al Nord e parlato delle connessioni con la politica, l’imprenditoria, la pubblica amministrazione. La loro collaborazione è la prima dopo quella del pentito Antonino Belnome, arrivata dopo il maxi blitz Infinito-Crimine del 2010, che ha svelato mandanti ed esecutori di una serie di delitti di mafia in Lombardia.

Nell’ordinanza del gip Alessandra Simion si racconta anche di come altri affiliati stessero progettando di uccidere Emanuele De Castro. Una circostanza che forse ha indotto, ancora di più, padre e figlio a scegliere la via della giustizia. Il boss 51enne di Lonate Pozzolo (Varese) ha permesso ai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano di recuperare due candelotti di esplosivo nascosti in una buca. L’affiliazione alla cosca del «siciliano» è avvenuta in un bar di Legnano: «Ci siamo messi in circolo, è stata fatta la tipica “pungitura”. Poi abbiamo brindato insieme». Padre e figlio gestivano un parking vicino a Malpensa sequestrato dagli investigatori. «Io spacciavo droga. Non sono mai stato battezzato, mio padre non voleva che lavorassi per ”loro” — ha raccontato Salvatore De Castro —. Mi diceva di starne fuori». Appena il figlio ha compiuto 18 anni, il padre gli ha confessato di essere un mafioso: «Gli chiedevo dei suoi viaggi in Calabria, del motivo per cui frequentasse Rispoli: tutti sapevano che senza il suo assenso qui non poteva muoversi foglia. E mi disse che apparteneva alla ‘ndrangheta».

#Carnaio la mia intervista a Il Cittadino

L’INTERVISTA L’AUTORE LODIGIANO SI RACCONTA A MARGINE DELL’IMPORTANTE RISULTATO RAGGIUNTO CON IL SUO “CARNAIO”

Cavalli: dopo il podio nel Campiello più narrativa e meno palcoscenico

Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sono il meno possibile. E la letteratura me lo permette»

Rossella Mungiello

Per anni ha calcato il palcoscenico nei panni di un canta- storie. Usando la voce e la fisicità per dare vita a spettacoli amari e di denuncia, rinunciando anche alla sua libertà personale, vivendo sotto scorta per le minacce subite dalla criminalità. Oggi sceglie di stare più al riparo, di privile- giare la parola scritta, di prendersi il tempo per far nascere e crescere una storia.

Ci sarà sempre meno palcoscenico e sempre più narrativa nel prossimo futuro di Giulio Cavalli, scrittore lodigiano classe 1977 – già autore teatrale e attore (che ha lavorato con nomi con Dario Fo e Paolo Rossi ndr), giornalista ed editorialista, ma anche politico, eletto come consigliere regionale – che sabato sera si è imposto nel panorama nazionale della narrativa contemporanea con il secondo posto ottenuto al Premio Campiello con il suo “Carnaio”, edito da Fandango Libri. Un romanzo che racconta di un paesi- no DF, appollaiato sulla costa come tanti, in cui il pescatore Giovanni Ventimiglia, in un giorno di marzo, si imbatte in un cadavere rimasto a mollo per giorni. È il suo primo di una serie di ritrovamenti di cadaveri, tutti di giovani, tutti neri, che si susseguono al punto da costringere le autorità a escogitare una soluzione che diventa anche un modo per fare profitto.

Da dove è arrivato lo spunto narrativo?
«Il libro “Carnaio” nasce da un’immagine, frutto di una conversazione con un pescatore in Sicilia, dove mi trovavo per un reportage sull’immigrazione. Mi spiegava come spesso capiti ai pescatori di recuperare cadaveri in mare e di come, per evitare di avviare l’iter giudiziario, li ributtino in acqua, prometten- do in cambio tutto l’impegno possibile per salvare i vivi. Mi disse che i corpi sono come lessi dal tempo passato in mare: usò un termine culinario che, de- clinato alla vita umana, mi fece molto pensare a come il cannibalismo messo in atto nei confronti di altre morti inizi proprio nel riconoscerle come altro da noi. Non è un libro sull’immigrazione: è un libro sull’etica di una comunità che si sposta ogni giorno un metro più in là, in un scivolamento verso il basso che conduce all’orrore».
È quello che sta accadendo all’Italia di oggi?
«Credo che la letteratura non sia un editoriale politico lungo, ma che debba seminare dubbi. Se quel che accade oggi in Italia è questo, devono dirlo i let- tori. Il premio Campiello ha portato il libro in ambienti anche molto diversi, per sensibilità, sul tema dell’immigrazione e la soddisfazione più grande è sta- ta riuscire a uscire dall’agone politico e portare la discussione su un gradino più alto, con visioni diverse che si ritrovano però in valori comuni sui diritti».

Dopo il teatro civile, il giornalismo è stato quasi un approdo naturale, oggi lo è la letteratura?
«Tra il teatro, il giornalismo e la narrativa, quello che ho sentito più congenia- le negli ultimi anni è certamente la narrativa. E “Carnaio”, tra i miei romanzi, è quello che mi ha lasciato più libertà, nella scrittura e nella costruzione della storia ed è il mio primo libro da scrittore puro, dato che “Mio padre in una scatola da scarpe” (Rizzoli, 2015) è segnato dalla matrice a fuoco della criminalità organizzata e dell’antimafia, mentre “Santamamma” (Fandango Libri, 2017)è molto personale e autobiografico. Ed è ovvio che il Campiello, ma anche il premio Napoli e il Festival del Viaggiatore di Asolo, sono attestati di stima per il mio lavoro e mi danno molta soddisfazione. Il Campiello ha messo al centro l’attività di scrittore, come principale e prioritaria. Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sia il meno possibile. E la letteratura me lo permette».

Le lacrime dello sciacallo

Se avete bisogno di una cartolina dal futuro per leggere in anticipo la prossima campagna elettorale vi basta rivedere le immagini del ministro dell’Inferno che si è recato, nel suo tour promozionale estivo (pur non avendo né un nuovo disco né un nuovo libro), a casa dei cuginetti Simone e Alessio D’Antonio che sono stati travolti da un Suv a Vittoria (Ragusa) mentre giocavano fuori casa.

Al di là del fatto che usare due bambini morti per la propaganda politica (perché è lo stesso Salvini che ci ha detto di essere in campagna elettorale, lo ricordate?) è un atto aberrante (del resto è lo stesso che i bambini troppo scuri li tiene sulle navi fottendosene allegramente) c’è da sottolineare come Salvini abbia dichiarato di essere lì da padre e non da ministro con il suo solito orrido palleggiare da una funzione all’altra come gli viene più comodo (del resto questa lunghissima campagna elettorale gliela stiamo pagando noi, poiché non sono bastati 49 milioni di euro) e insistendo nel volerci convincere che un padre chissà perché debba essere di natura una brava persona (come se non fossero stati padri i peggiori killer di mafia).

Dicono le cronache che Salvini ha regalato alle famiglie “una medaglietta sacra della Madonna di Medjugorie” e gli ha promesso di chiamarli ogni settimana. In pratica in questo Paese se i tuoi figli vengono falciati da un’auto con a bordo i due figli dei due boss della città (Rosario Greco che a Vittoria è soprattutto il figlio di Emanuele Greco detto Elio indicato dalla Procura come boss di Cosa Nostra nella zona e Angelo Ventura, figlio di Giambattista “Titta” Ventura, il pluripregiudicato Gianbattista Ventura, fratello di Filippo Ventura, ritenuto il capomafia di Vittoria) in cambio vinci Salvini come risarcimento della Giustizia.

Il ministro dell’inferno (quello che vorrebbe sconfiggere le mafie) non ha nemmeno avuto il coraggio di fare i nomi dei due pregiudicati nonostante la corposa scorta (sempre pagata da noi). Ha preferito spandere un po’ di pietismo come se fosse un semplice amico di famiglia.

Poi, alla fine, la visita che doveva essere privata è stata un bel primo piano delle sue lacrime da mandare in mondovisione.

Del resto lo sciacallaggio è un vizio duro da togliersi.

Buon martedì.

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#Carnaio La mia intervista per Il Giornale di Vicenza

(fonte)

«Questo libro è nato perchè mi impegno in lavori differenti giornalista, artista, autore teatrale e in tutti questi ambiti ho affrontato il tema dell’immigrazione. Ma ad impressionarmi è stato il racconto di un pescatore di Pozzallo durante uno dei miei viaggi lungo il Mediterraneo per narrare di vite spezzate, senza futuro. Di uomini e donne che pativano le pene dell’inferno prima di approdare, se ce la facevano, sulle nostre coste. Mi disse che trovare pezzi cadaveri all’interno delle reti accadeva spesso, ma fu la descrizione ad impressionarmi “erano lessi, dal sale e dal sole”. Il pescatore usò un termine prettamente culinario facendo riferimento ad una vita umana che aveva avuto un inizio ed una fine. Come giornalista è difficile lasciare spazio alle sensazioni. Per cui quel dialogo è stato il germoglio dal quale è nato il romanzo, una consapevole discesa verso gli inferi. Ma non vorrei venisse catalogato come un libro sull’immigrazione piuttosto parla del nostro io, delle nostre coscienze, di come ci si abitua, con estrema facilità, anche ai crimini più ferali». Giulio Cavalli, 42 anni, milanese, con “Carnaio” (Fandango, 218 pagine) è uno dei cinque finalisti del Premio Campiello, da anni vive sotto scorta per le sue prese di posizioni contro la mafia, dopo le rilevazioni di un pentito. Il suo è un romanzo distopico, inquietante, grottesco, attuale e, forse, necessario. Contro le onde che nascono dagli eventi, contro l’indifferenza. Un pugno che arriva diritto allo stomaco, una sorta di iperbole narrativa che guarda alla realtà e, soprattutto, all’attualità: i migranti. L’autore inizia da una cittadina sul mare: DF, dalla vita tranquilla, dove un giorno un anziano pescatore trova nella rete il cadavere di uomo di pelle nera, il fatto non fa molto rumore se non fosse che a quel cadavere ne seguono altri. Molti spiaggiati dietro una duna e, infine, mentre l’allarme si fa generale un’ondata gigantesca ne butta un’infinità per le strade e sopra le case di DF, facendo 14 morti tra gli abitanti. Ad una prima conta risultano 24.712 corpi, ma saranno di più. I cittadini s’ingegnano prima difendendosi, poi per trasformare il dramma in business. Dei corpi non si butta nulla: vengono lavorati e trasformati in combustibile per una centrale elettrica. E ancora in cibo, giocattoli e pelle da concia con la quale costruire divani e progettare borse. La città viene definita con un acronimo DF è il Distrito Federal raccontato da Roberto Bolaño? Sì l’ispirazione è quella, mi interessava non dare ai lettori un nome preciso, volevo che il romanzo fosse disinfettato da tutte le questioni che potevo sollevare. Doveva essere una provincia del Sud, che però ha uno spirito imprenditoriale di una provincia del Settentrione. Ma non possiamo pensare che non ci sia alcun riferimento alla politica del ministro dell’Interno. In realtà il libro è stato scritto molto prima che nascesse il Governo Di Maio-Salvini. Volevo solo uscire da alcune retoriche utilizzando una narrazione che non desse giudizi, ma offrisse altre forme di pensiero per quanto portate all’esasperazione. Nessuna retorica, quindi? Certo che no. Mi interessava mettere in evidenza dove può arrivare l’uomo quando lascia da parte, si dimentica che cosa sia l’etica e sposta l’asticella del sentimento e dell’indignazione sempre più in alto. Non volevo giudicare nessuno mentre accade sempre più spesso, dimenticando che non tutti hanno strumenti culturali e sociologici per potersi opporre a qualcosa o a qualcuno. Gli abitanti di DF stanno imboccando un declino etico impressionante, non solo il cadavere di un immigrato diventa indifferenza, ma anche cibo. Potevo scrivere un libro sulla retorica delle idee, invece ho provato a scrivere un bel romanzo, forse più accessibile. Perchè “Carnaio” come titolo? Siamo abituati ad ascoltare numeri singoli quando si parla di imbarcazioni di migranti che affondano nel Mediterraneo, ma le dimensioni sono completamente diverse. In uno spettacolo teatrale avevo detto che, con tutti i cadaveri si sarebbe potuta costruire una montagna altissima, e solamente con i morti degli ultimi 10 anni. Con questo titolo volevo fosse soffocata la parola emergenza e che si parlasse di una città, così cambiano anche le dimensioni che possiamo avere di quanto accade in quel braccio mare o lungo i confini di terra. Il messaggio che vuole lanciare? Diciamo che persone molto lontane da me politicamente e non solo hanno apprezzato il libro, ed è già una vittoria. Inoltre ritengo di essere riuscito a tenere un argomento, così abusato, nei confini della letteratura. C’è chi vi ha letto profezia, altri fantasia. Siamo alla quinta ristampa e, probabilmente, ai lettori piace. E poi bisogna smettere con la retorica dell’emergenza: l’Europa deve dimostrare una volta per tutte di non essere solamente un’unione finanziaria. Il trattato di Dublino credo debba essere rivisto e riscritto perchè dalla guerra e dalla fame si continuerà sempre a scappare. A DF qualcuno si ribella… Ma tutti alla fine senza scampo. Mancano leader come nel nostro Paese. I politici per guadagnare popolarità diventano solo populisti. •Chiara Roverotto