In Puglia la mafia ha incendiato 33 camion dei rifiuti, ma nessuno ne parla
Il mio editoriali per TPI.it
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Capiamoci: per giornate come ieri 24 luglio non serve nemmeno scrivere un editoriale, basta la cronaca nuda. C’è un ministro dell’interno che dice di conoscere di vista Gianluca Savoini e di non averlo invitato con lui nel viaggio in Russia in cui lo stesso Savoini ha pateticamente provato a farsi pagare dai russi (perché questi difendono l’Italia da Macron ma sono pronti a fare da zerbino a Putin, un sovranismo sguercio).
Il ministro dell’Interno viene chiamato in aula per spiegare cosa ha fatto quel giorno e per provare a chiarire le continue bugie che ci propina sulla vicenda (all’inizio quasi aveva negato di conoscere Savoini, tanto per fare un esempio) e decide che la questione non è importante, dimenticando che non sta a lui la scelta ma agli elettori e al Parlamento.
Il presidente del consiglio (le minuscole sono tutte volute) va a fare da supplente al ministro in una buffa inversione dei ruoli, scegliendo di riferire al Parlamento (non si capisce bene per cosa) e in sostanza scarica Salvini: «Non ho ricevuto informazioni dal ministro competente», dice Conte. Aggiungendo: «Sulla base delle informazioni disponibili alla presidenza del consiglio posso precisare che il signor Savoini non riveste e non ha rivestito incarichi formali di consulente esperto di questo governo. Era presente a Mosca il 15 e 16 luglio 2018 a seguito del ministro Salvini»
Mentre parla Conte il M5s decide di uscire dall’Aula. Come rimostranza nei confronti di Salvini, dicono. Il loro alleato di governo. Conte si incazza. Qualcuno del Movimento ammette che forse quella mossa è stata una cazzata: «Oggi, pochi istanti prima dell’intervento del premier in Senato, con un messaggio non firmato ci è stato chiesto di abbandonare l’aula. Dissociandomi dall’iniziativa, che non mi appartiene nel metodo e nel contenuto, sono restato al mio posto insieme a molti miei colleghi. Credo che, anche per il bene del Movimento 5 stelle, sia giunto il momento di valutare attentamente le decisioni unilaterali del “capo” e della comunicazione che lo consiglia» ha detto Mattia Crucioli.
Il Pd decide di voler presentare una mozione di sfiducia. Salvini dice di esserne orgoglioso e la paragona agli attacchi delle Ong (ma lui è scappato come un coniglio) e agli attacchi dei Casamonica. L’opposizione dipinta come mafia.
Ecco. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
Buon giovedì.
L’articolo Si oppongono. Tra loro proviene da Left.
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Il mio pezzo per TPI.it
Si sciacqui la bocca chi accosta la Lega alla mafia» dice Matteo Salvini in quasi tutte le conferenze stampa degli ultimi giorni. E una schiera di cronisti proni pronta a ritrasmettere a tutto volume queste parole del ministro dell’Interno, come se bastasse la sua autoassoluzione per nascondere il marcio che continua ad uscire da un partito che è riuscito nella miracolosa impresa di rivendersi nuovo nonostante decenni di berlusconismo e un presente che fa accapponare la pelle.
L’arresto di Paolo Arata, ad esempio, ha che fare con la mafia fin dall’accusa. Si rimane garantisti, certo, e l’arresto non equivale a una condanna ma l’accusa di intestazione fittizia, con l’aggravante di mafia, corruzione e autoriciclaggio è bell’e scritta, e il fatto che secondo i magistrati lo stesso Arata sia socio occulto del re dell’eolico Vito Nicastri fa pensare inevitabilmente alla criminalità organizzata.
Sono anni che Vito Nicastri viene considerato la testa di legno del boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro e sono anni che i giudici di Palermo lo ritengono uno dei finanziatori della sua latitanza oltre che essere il suo prestanome. Non so come il ministro Salvini chiamerebbe un’indagine del genere m…
L’articolo La Lega è cosa loro proviene da Left.
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Una storia piccola, di cui si è parlato poco ma che dice molto come tutte le storie minime che sono buone per essere paradigma contro i pregiudizi facili. A Ballarò, quartiere palermitano, la più importante azione antimafia l’hanno fatta negli ultimi mesi gli immigrati.
Partiamo dall’inizio. Nel 2016 un gambiano poco più che ventenne, Yusupha Susso, decide di rispondere alle offese razziste, non ce la fa più e reagisce. Solo che se la prende mica con uno qualunque, ma con un mafioso e figurati se la mafia di Ballarò si fa mettere i piedi in testa, perdipiù da un nero. Così Emanuele Rubino decide di vendicarsi e per dimostrare tutta la sua indecente potenza al quartiere spara alla testa a Yusupha. Il ragazzo va in coma. Rubino viene arrestato.
La comunità straniera decide che è ora di reagire. Vengono da Tunisia, Gambia, Bangladesh e da anni pagano il pizzo, chinando la testa. Decidono che è ora di rialzarsi e denunciano i loro estorsori. Ne nasce una delle più importanti indagini degli ultimi anni nel quartiere di Ballarò dove la cosca locale viene smembrata da arresti e condanne. Una di loro, Sumi Aktar, diventa la prima politica bangladese eletta in Sicilia (alla Consulta delle culture), e dice: “Da stranieri abbiamo già dimostrato il nostro coraggio denunciando la mafia e il pizzo. I commercianti bangladesi hanno contribuito alla crescita di Palermo. Da stranieri ci sentiamo parte di questa città. Per noi Palermo non è una tappa transitoria. E’ casa nostra”.
Ed è una storia bellissima perché non divide le persone in base ai colori o alla provenienza ma dimostra che esistano dappertutto buoni e cattivi. E anche buoni che hanno più coraggio degli storici residenti. E poi è una storia bellissima perché se la raccontate a Salvini implode e diventa polvere di stelle.
E sanno tutte di buono le storie che mischiano persone, coraggio e dove vincono quelli giusti. Perché questi sono fatti, mica pregiudizi.
Buon lunedì.
L’articolo Se l’antimafia la fanno gli stranieri, a Ballarò proviene da Left.
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Non so se capita anche a voi, a volte, di avere la sensazione di seguire una vicenda che non si mostra realmente per quello che è. Come se in pubblico avvenissero cose solo per placare gli animi mentre i veri fatti, quelli che contano, decidono e disegnano le sorti vengano decisi da un’altra parte. Immaginate uno spettacolo dove tutte le scene migliori avvengano di nascosto nel cesso, una cosa così, e sul palco si intrattiene il pubblico solo per evitare che a qualcuno venga voglia di alzarsi e andare a fare un giro per la sala, magari proprio nei bagni, e scoprire l’indicibile.
Uno spettacolo osceno. Uno spettacolo che avviene fuori scena. Una cosa così. E anche di fronte a tutta la discussione sullo Sblocca Cantieri e sul maxi emendamento della Lega che di fatto rimette in discussione l’intero disegno di legge, la sensazione è quella che si prova quando i bambini fanno gli spruzzi in acqua perché non vogliono sentire gli altri, illudendosi in mezzo alle goccioline per un secondo di essere da soli senza nessuno intorno. È un fumo (che è poi quello che ha cercato e insiste nel cercare di dire il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa) che annebbia l’opinione pubblica e distoglie dalla realtà dei fatti ovvero che la Lega sta mettendo in discussione una legge così come è stata congelata, scritta e desiderata dallo stesso governo di cui fa parte. Una sorta di opposizione a se stessi, l’ennesima per lucrare sui voti, per fare un po’ di facile campagna elettorale e soprattutto per prendersi il tempo di decidere se andare al voto il prossimo settembre o aspettare ancora un po’.
Questo governo non governa, giochicchia. Rimane sulle spine per riempire i giornali di storie e intanto finge di avere soluzioni a problemi che si è creato da solo. E voler sospendere il codice degli appalti come continua a ripetere il ministro dell’interno significa tornare a una legge che è già stata abrogata. Il caos più completo. Andrebbe avvisato che sospendere il codice degli appalti significa andare a casa dei mafiosi citofonare a uno a uno, e portargli un regalo su un vassoio d’argento. Ma che gli interessa della mafia a Salvini? È solo ministro dell’interno, lui, del resto.
Buon mercoledì.
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Tra le tracce della maturità c’è anche il generale Dalla Chiesa, che fu Prefetto a Palermo nel 1982 e che avrebbe dovuto combattere la mafia con la stessa pervicace intelligenza con cui contribuì a sconfiggere le Brigate Rosse in Italia. Venne ucciso perché fu lasciato solo (si muore sempre quando si è soli, nella guerra alle mafie) ma è bello pensare che il suo seme stia in tasca a questi maturandi che si preparano a girare per il mondo.
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E sanno tutte di buono le storie che mischiano persone, coraggi e dove vincono quelli giusti.
L’operazione dei carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Milano, che hanno sgominato una organizzazione criminale dedita al traffico illecito di rifiuti, ci ricorda che la Terra dei Fuochi in realtà ce l’abbiamo tutti vicino a casa, che sia roba di mafia, di cattiva imprenditoria o di tutte e due le cose assieme. E sarebbe ora di accorgersene.
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Il solito bravissimo Cesare Giuzzi sul Corriere
Il tradimento arriva da chi decide di rompere la più importante regola della ‘ndrangheta: il rispetto per la famiglia. Il pentito si chiama Francesco Farao, 38 anni, figlio del boss ergastolano Giuseppe, capo della cosca. Il pentito racconta ai magistrati la regola che da trent’anni sancisce gli equilibri del clan: «Per togliere la gestione della cassa occorre uccidere il cassiere».
Ed è una legge che i Farao-Marincola fanno rispettare con il piombo. Prima uccidendo Nicodemo Aloe (1987) poi con l’agguato a Natale Bruno (2004) e infine con l’omicidio di Vincenzo Pirill0, freddato la sera del 5 agosto 2007 nel ristorante «Ekò» di Cirò Marina (Crotone) in una strage nella quale resteranno ferite altre sei persone, compresa una bambina di 11 anni. Aloe, Bruno e Pirillo avevano tutti ereditato la guida del clan dai Farao-Marincola in quel momento ristretti in carcere. E tutti avevano tradito un’altra delle sacre regole della ‘ndrangheta: non rubare. Un comandamento che si traduce nella assoluta necessità per il «reggente» di provvedere al sostentamento dei familiari dei capoclan in carcere. E soprattutto di non dimenticare che il posto sul trono è «pro tempore» e le ricchezze restano dei capibastone.
Natale Bruno, ad esempio, ha pagato con la vita l’aver riservato al sostentamento di moglie e figli dei Farao-Marincola solo una miseria, l’essersi «fregato i soldi», l’aver «spaparanzato i soldi della ‘ndrangheta»: «Sette-ottocentomila euro che gli venivano periodicamente consegnati dagli affiliati», come scrivono i pm di Catanzaro guidati dal procuratore Nicola Gratteri. Lo stesso errore che commetterà tre anni più tardi Pirillo: «Cenzo è sulla strada che sta sbagliando pure…». I vertici del clan che è un tutt’uno tra Cirò e il Legnanese, rimproverano alla vittima d’aver destinato solo 1.500 euro in più alle spese dei familiari dei detenuti e di aver sperperato un milione e mezzo di euro per un palazzo incentro con i soldi della cosca, oltre all’aver acquistato macchine e camion per la sua azienda. Così i Marincola decidono di «togliergli il maneggio degli affari» perché mentre loro erano in carcere «aveva voluto strafare». A questo occorre poi aggiungere che si diceva che Pirillo volesse fare fuori uno dei fedelissimi dei capoclan, quello Spagnolo Giuseppe, detto ‘u Banditu, che sarà invece uno degli esecutori materiali del suo delitto.
Il pentito Francesco Oliverio, ex capo di Belvedere di Spinello e a lungo imprenditore a Rho, racconterà agli investigatori di Ros e Dia, che a causa delle «inosservanze» di Cenzo Pirillo «la moglie del boss Marincola era stata costretta a lavorare pur di vivere dignitosamente». Un’onta in una famiglia di ’ndrangheta tra le più ricche del Crotonese. Quando l’omicidio sta per maturare, e il piano prende corpo, iniziano a circolare voci «di disprezzo» sul conto di Pirillo, come per costruire una sorta di consenso «popolare» tra gli affiliati: il boss di Legnano Nicodemo Filippelli, ad esempio, racconta che il reggente si sarebbe lamentato di lui perché «non avrebbe mai portato soldi dalla Lombardia». Perillo muore, e un anno dopo cade sotto al piombo anche il nipote Cataldo Aloisio, freddato a Legnano per paura che organizzasse una ritorsione. Ma il clan per rispetto della regola continuerà a «sostenere i familiari dei cassieri assassinati». Da quel momento la faida si ferma. I magistrati lo ricostruiscono grazie a un colloquio in carcere di Peppe Farao: «Il boss spiega la necessità che i propri figli e nipoti si trovassero un lavoro, astenendosi dal commettere azioni violente che in passato gli stessi padri, ora detenuti, avevano commesso per aver rispetto del territorio perché ormai non ne avevano più bisogno».