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mafia

Come Giovanni Falcone è diventato un santino da sventolare per l’antimafia di facciata


La presenza del ministro Salvini (ma non solo) spacca il fronte dell’antimafia siciliano. ANPI, Arci e il fratello di Peppino Impastato organizzano per conto loro una manifestazione a Capaci che non ha nulla a che vedere con la cerimonia ufficiale pensata in Aula Bunker dove è previsto l’intervento del ministro. Anche il presidente della Regione Sivilia ha parlato di “troppo veleno” e deciso di non esserci.
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Caro ministro, c’è la camorra nella demolizione del ponte Morandi

C’è l’ombra della camorra tra le ditte che stanno lavorando alla  demolizione del ponte Morandi, crollato il 14 agosto 2018 seppellendo 43 persone. Si tratta della Tecnodem S.r.l., ditta napoletana che  si occupa di demolizione di materiale ferroso e ha ottenuto 100mila euro di commesse in sub-appalto dalla Fratelli Omini, una delle società partecipanti all’Associazione temporanea di imprese scelta dalla struttura commissariale per abbattere i tronconi del viadotto sopravvissuti al collasso.

Le condanne di Varlese – La Dia di Genova ha notificato in mattinata alla Tecnodem un’interdittiva antimafia emessa dal prefetto Fiamma Spena perché l’azienda è ritenuta “permeabile di infiltrazione della criminalità organizzata di tipo mafioso”. L’amministratrice e unica socia della società è Consiglia Marigliano, consuocera di Ferdinando Varlese, pluripregiudicato napoletano domiciliato a Rapallo, che risulta anche tra i dipendenti della stessa ditta insieme a due suoi figli e  a una nipote. Varlese è stato condannato nel 1986 dalla Corte d’Appello di Napoli per associazione a delinquere in un processo che vedeva tra gli imputati anche soggetti affiliati al clan Misso-Mazzarella-Sarno guidato da Michele Zaza e Ciro Mazzarella.

I legami con il clan D’Amico – E tredici anni fa ha ricevuto un’altra condanna in secondo grado per estorsione tentata in concorso con l’aggravante mafiosa: un’episodio dal quale – sostiene la Direzione investigativa antimafia genovese – “si evincono in maniera circostanziata i legami di Varlese con il sodalizio camorristico D’Amico”, al quale il consuocero dell’amministratrice di Tecnodem “risulta legato da rapporti di parentela”. Sulla base di questi accertamenti, la Dia di Genova ha ritenuto che la società sia in una “condizione di potenziale asservimento” o “condizionamento” dei clan camorristici. 

(fonte)

In Lombardia la politica beve dove beve la ‘Ndrangheta

Il solito bravissimo Mario Portanova per Il Fatto Quotidiano

“Madonna faccio una figura della Madonna… c’ho mezza Forza Italia cazzo stasera… Tutti quelli di Varese… Tutti i numeri uno di Forza Italia di Varese son lì figa… Faccio una figura faccio… Se va bene stasera Emi… minchia… sei il mio Maradona cazzo…”. E’ incontenibile l’eccitazione dell’imprenditore dei rifiuti Daniele D’Alfonso, titolare della Ecol-Service srl, inconsapevole naturalmente di essere ascoltato in diretta nell’indagine che oggi lo ha portato in carcere insieme ad altre 27 persone. Perché quella sera, il 18 gennaio 2018, riuscirà a mettere intorno a un tavolo non solo lo stato maggiore varesino per partito berlusconiano, ma anche due big di Milano e LombardiaPietro Tatarella (nella foto), consigliere comunale nel capoluogo e vicecoordinatore regionale, e Fabio Altitonante, sottosegretario regionale all’area Expo. Anche loro arrestati oggi. Il locale prescelto è la discoteca Noir di Lissone, in provincia di Monza-Brianza. Di cui “Emi”, non meglio precisato nelle carte dell’inchiesta, è il gestore.

Il Noir, però, si è guadagnato in questi ultimi anni una fama che ne sconsiglierebbe l’uso per riunioni politico-imprenditoriali. Antonino Belnome, famiglia calabrese di Guardavalle ma nato e cresciuto a Giussano, nel cuore della Brianza, uno dei più importanti collaboratori di giustizia di ‘ndranghetadegli ultimi anni in Lombardia, lo annovera fra i posti in cui gli ‘ndranghetisti erano ospiti graditi e potevano consumare a volontà senza pagare un euro: il conto “poteva ammontare a mille, anche duemila euro, perché se eravamo in quindici-venti non è che bastavano tre-quattro bottiglie”, mette a verbale il 10 dicembre 2010 davanti alle pm dell’Antimafia Ilda Boccassini e Alessandra Dolci. Si parla di champagne da 250 euro a bottiglia, precisa il collaboratore di giustizia, di “cinque, sei, sette bottiglie”.

Certo, un bel benefit, che gli ‘ndranghetisti radicati in Brianza non hanno neppure bisogno di estorcere con minacce e violenze. Spiega ancora Belnome: nella zona il gestore di un locale “mi conosce, sotto sotto sa chi sono, poi lo vede nel comportamento degli altri, nota determinati atteggiamenti, nota come si comportano al tavolo con me, quando entro quelli che mi salutano, allora il gestore le nota queste cose, quindi le capisce, anche se non è del posto e compra il locale in quel posto. Quindi in automatico non la fa pagare, e poi questo funziona come … diventa un rituale”.

Ed è ancora il pentito, diventato padrino a quarant’anni, esecutore materiale dell’omicidio di Carmelo Novella nel 2008, a dire ai pm che al Noir la sicurezza era gestita da Paolo De Luca. De Luca, anche lui nato e cresciuto al Nord, nella vicina Seregno, sarà arrestato nel 2016 con l’accusa di associazione mafiosa. Secondo gli investigatori, il “boss invisibile” era in contatto con il clan Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), molto attivo in Brianza. Niente di tutto questo ha impedito alla Lega nord salviniana di chiudere proprio al Noir, il 2 marzo 2018, la campagna elettorale per le regionali (ne scrisse anche Roberto Saviano su Repubblica). Presente Paolo Grimoldi, deputato e segretario nazionale lombardo della Lega.

All’imprenditore D’Alfonso, il promotore della “cena con spettacolo” nella discoteca brianzola, i magistrati contestano l’aggravante mafiosa, per l’accusa di aver fatto lavorare nei suoi cantieri le ditte del clan Molluso di Buccinasco. E di aver tenuto a libro paga il sottosegretario Altitonante in cambio di favori negli appalti dell’Amsa, la municipalizzata milanese dei rifiuti. Ma perché politici e imprenditori si riuniscono nel privé di una pista da ballo? L’intento lo chiarisce lo stesso D’Alfonso. Parlando con “Emi” spiega che si tratta a tutti gli effetti di “una cena aziendale”. Che gli costerà parecchio, prevede, perché “tra mangiare e dopo… questi bevono come sanguisughe…”. Fra gli invitati, si legge nelle carte dell’inchiesta, figura Andrea Grossi, figlio di Giuseppe, il “re delle bonifiche” lombarde deceduto nel 2011, coinvolto in diversi procedimenti giudiziari. Il gip ha disposto per lui la misura cautelare dell’obbligo di firma. L’accusa è di aver versato illecitamente, insieme a D’Alfonso, 10mila di finanziamento a Fratelli d’Italia, finiti sul conto corrente del partito nella filiale Bpm di Montecitorio.

Caro Salvini, per combattere la mafia ti bastava una telefonata

Senza bisogno di sfilare per le strade di Corleone, tra l’altro giocando sull’assioma Corleone=mafia che è il giochetto più stupido e ignorante sulla questione mafie oggi in Italia, Matteo Salvini poteva fare una telefonata al suo sottosegretario Armando Siri per dimostrare di voler combattere efficacemente la mafia senza bisogno di scomodare le forze di Polizia (impegnate a scorazzarlo nella sua campagna elettorale permanente piuttosto che occuparsi della sicurezza del territorio).

Dentro la vicenda Siri (e lo diciamo sciacquandoci la bocca mica per la Lega ma per l’orrore di cui sono imbevuti gli atti processuali) ci sono già dei fatti, al di là della presunta corruzione che dovrà essere poi provata in tribunale, che puzzano di mafia lontano un chilometro ed è un dispiacere che il ministro dell’Interno abbia deciso di non occuparsene preferendo l’ennesima sfilata.

Nicastri (colui che chiese e ottenne dall’imprenditore Arata la promessa di inserire una nuova norma per il biometano) aveva già pronta una società ad hoc per sfruttare l’eventuale emendamento di governo. Questo è un fatto. Ed è un fatto che nelle intercettazioni Arata (grazie anche al ruolo del figlio all’interno della Lega) abbia promesso quella norma in cambio di denaro. Questi sono fatti su cui il ministro Salvini non può fare finta di niente, bontà sua.

Così come non può fingere di non sapere che Nicastri (per diretta corrispondenza suggeritore della norma che avrebbe dovuto fare passare la Lega) sia ritenuto un prestanome di Matteo Messina Denaro e uno dei finanziatori della sua latitanza.

C’è quindi una questione giudiziaria e una questione di opportunità che il ministro ha a disposizione per “liberare il Paese dalle mafie” come promette da mesi e come ha ripetuto pur di non parlare della Festa della Liberazione.

Salvini vuole sconfiggere la mafia? Perfetto, provi a capire perché il biometano per qualcuno andava insistentemente inserito nel contratto e risulterà utile come non lo è mai stato per scoprire che la mafia non sta a Corleone ma si infila tra i colletti bianchi che fungono da anelli di congiunzione con la politica, quelli stessi che già Falcone e Borsellino avevano capito come fossero ben più indispensabili dei mafiosi con la coppola e la lupara.

Farebbe così, un ministro dell’Interno. Chiamerebbe il suo sottosegretario, chiederebbe spiegazioni e ce ne darebbe conto.

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/04/26/caro-salvini-per-combattere-la-mafia-ti-bastava-una-telefonata/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La mafia c’è, eccome

Mentre ci arzigogoliamo su presunte emergenze quasi sempre più percepite che reali (e lo dicono i numeri) avviene che nel giro di pochi giorni l’Italia sia attraversata da tre cruenti esecuzioni che ci ricordano il problema invisibile, quello di cui non fa mai troppo bene parlarne, quello che a parole vorrebbero sconfiggere tutti e invece cambiano i governi e loro stanno sempre lì: le mafie. Le mafie che ci sono, sono in ottima salute, mentre si discute di confini e di flat tax progressiva (che è un po’ come mia nonna che è anche mia nipote) e soprattutto si fanno sentire.

A Napoli un raid criminale uccide Luigi Mignano appena accompagna il nipotino a scuola. Scena da far west. Faida di camorra dicono i ben informati.

A Milano “Enzino” Anghinelli, nel pieno dei festeggiamenti del Fuori Salone e dei turisti tutto intorno, fermo a un semaforo, si ritrova la testa spappolata da un killer che lo avvicina mentre era fermo a un semaforo. Dicono sia roba di droga. E dove c’è droga c’è criminalità organizzata.

Poi c’è Foggia dove il maresciallo dei carabinieri Vincenzo Di Gennaro viene crivellato di colpi, il suo collega rimane ferito.

La mafia c’è. Eccome. E spara. Eccome. Ed è uno dei peggiori problemi di questa nostra malmessa democrazia che di mafia (chissà perché) non si appassiona mai. Eppure non se ne sente parlare (se non superficialmente e solo per dare prova di durezza parolaia di qualche ministro) eppure non ci sono progetti in essere, di mafie si parla quasi come se fosse un disturbo.

La mafia c’è. Eccome. Ed è una questione di sicurezza nazionale. Ma di quella tra noi, non di quella sventolata.

Buon lunedì.

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No, a Como non era bullismo. Era ‘Ndrangheta.

Oltre cento anni complessivi di condanne e la conferma del reato di associazione mafiosa. È questo il verdetto di primo grado pronunciato oggi dal Tribunale di Como nel processo ai rampolli della ‘ndrangheta canturina. Pene che vanno dai sette ai diciotto anni nel caso di Giuseppe Morabito, considerato il capo del gruppo e appartenente all’omonima famiglia.

La verità emersa dal processo racconta come i giovani componenti dell’associazione mafiosa avevano il controllo degli affari della movida di Cantù, con particolare riferimento della zona attorno a piazza Garibaldi. Controllo che mettevano in atto attraverso atteggiamenti violenti e intimidatori, metodi tipici della mafia. Dalle carte dell’inchiesta emerge come i commercianti del posto erano a conoscenza della fama del gruppo di calabresi e li trattavano con riguardo: “Meglio non farli pagare che rischiare la vita”, dicevano all’epoca dei fatti. In tutto questo il comune di Cantù ha scelto di non costituirsi parte civile: l’amministrazione di centrodestra, più volte interpellata dai media su questa scelta, ha scelto di derubricare l’accaduto: “Si tratta di atti di bullismo, ecco perché non ci costituiremo”. Bullismo, nient’altro. La sentenza, però, racconta un’altra storia.

“Siamo soddisfatti per questa sentenza perché sono state confermate le nostre indagini” ha commentato il Pubblico Ministero Sara Ombra. Un processo che si è svolto in un clima di paura con teste che hanno ritrattato le proprie testimonianze. “Questa sentenza ci dice che non ci trovavamo di fronte a fatti di bullismo né di criminalità spicciola né di ragazzate, ma che ci trovavamo di fronte a criminalità organizzata di stampo mafioso” dichiara a margine la Presidente della Commissione Antimafia della Regione Lombardia Monica Forte che, come aveva già fatto il capo della direzione distrettuale antimafia di Milano Alessandra Dolci (VIDEO), punta il dito contro chi ha provato a minimizzare nell’ultimo periodo: “Oggi le istituzioni e la politica che in passato hanno minimizzato e non si sono costituite parte civile non fanno una grande figura. Oggi questa sentenza deve indurre a un cambio di passo su questi temi”.

(fonte)

Perché non riusciamo a prendere Matteo Messina Denaro? Ecco qua.

di Salvo Palazzolo per Repubblica

L’indagine sul superlatitante Matteo Messina Denaro è a una svolta. La più drammatica. Questa mattina, la procura di Palermo ha fatto scattare le manette per due investigatori, sono accusati di aver passato notizie riservate su alcuni mafiosi trapanesi dell’entourage del padrino ricercato. Contestazioni pesanti per il tenente colonnello Marco Zappalà, un ufficiale dei carabinieri in servizio alla Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta, e per Giuseppe Barcellona, un appuntato dell’Arma che lavora alla Compagnia di Castelvetrano, la città della primula rossa di Cosa nostra. Con loro è stato arrestato anche l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, già condannato per traffico di droga e poi diventato un confidente dei servizi segreti:è accusato di aver fatto da tramite e passato al boss Vincenzo Santangelo la trascrizione di un’intercettazione fra due mafiosi trapanesi.

Una catena delle talpe che è stata scoperta dai carabinieri del Ros: il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi e l’aggiunto Paolo Guido contestano adesso le accuse di rivelazione di notizie riservate e accesso abusivo a un sistema informatico. Vaccarino risponde invece di favoreggiamento aggravato, dall’aver favorito l’organizzazione mafiosa. Ricostruzione accolta dal giudice delle indagini preliminari Piergiorgio Morosini, che ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare, accogliendo la ricostruzione dei sostituti procuratori Pierangelo Padova e Francesca Dessì.

E ora si apre uno scenario inquietante: quante altre informazioni riservate sull’indagine Messina Denaro erano già filtrate? E cosa si nasconde dietro gli uomini delle istituzioni accusati oggi di essere delle talpe? Zappalà faceva intendere di voler infiltrare Vaccarino in Cosa nostra, per avere informazioni. Ma era davvero così? Per certo, è stato Zappalà a passare notizie riservate: il 7 marzo 2017, ha incontrato Vaccarino nel cinema che gestisce a Castelvetrano e gli ha spedito per mail la fotografia dell’intercettazione ricevuta da Barcellona. Una mail che è stata intercettata. Il giorrno dopo, Vaccarino ha incontrato Santangelo e passandogli il documento gli ha detto: “Con l’uso che sai di doverne fare e con la motivazione che la tua intelligenza sai che mi spinge”. Parole tutte da interpretare, sono state intercettate anche queste grazie alla microspia piazzata nell’auto dell’ex sindaco di Castelvetrano. 

“Hanno svelato un’indagine su Messina Denaro”. In manette un ufficiale della Dia e un carabiniere

L’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, è stato un infiltrato dei servizi segreti

L’inchiesta

Il tenente colonnello Marco Zappalà era ritenuto fino a ieri uno degli investigatori più fidati dell’antimafia, si era anche occupato delle indagini riservate sulle stragi Falcone e Borsellino. Questa mattina, sono stati i suoi colleghi della Dia di Palermo ad arrestarlo, in ufficio.

Il sottufficiale dei carabinieri di Castelvetrano aveva anche lui un lunga esperienza di indagini antimafia, era incaricato di seguire alcune delicate intercettazioni disposte dalla procura di Palermo, proprio una di queste è stata svelata in tempo reale ai clan.

E poi c’è il mistero Vaccarino: nel 2007, l’ex sindaco di Castelvetrano era stato ingaggiato dal Sisde allora diretto dal generale Mario Mori per la più riservata delle operazioni. Per qualche tempo, aveva intrattenuto una corrispondenza fatta di pizzini con Messina Denaro. “Per provare a giungere alla sua cattura”, disse lui ai magistrati di Palermo quando lo indagarono per concorso esterno in associazione mafiosa dopo averlo intercettato causalmente nel corso delle indagini sul latitante. E i servizi segreti confermarono. “E’ un nostro infiltrato”. Così l’inchiesta venne archiviata.

Il giallo

Ma davvero nel 2007 Antonio Vaccarino aveva lavorato per lo Stato? Oppure faceva il doppiogioco, ancora una volta per alimentare i suoi contatti con Messina Denaro? Ripercorrendo nuovamente questi eventi, va ricordato un dato di cronaca intervenuto più di recente su quel direttore del Sisde che allora curò l’operazione Vaccarino-Messina Denaro: Mario Mori, oggi generale del Ros in pensione, è stato condannato in primo grado a 12 anni nel processo Trattativa Stato-mafia. La trattativa che dopo la strage Falcone, tre ufficiali del Ros (Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, tutti condannati) avrebbero messo in campo con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino: “Per fermare le stragi”, hanno sempre sostenuto loro. “Invece – è la tesi dell’accusa – fecero da tramite fra le richieste di Riina e lo Stato”. Il processo d’appello inizierà il 29 aprile.

Intanto, continuano ad essere tante le domande che avvolgono la latitanza del capomafia di Castelvetrano che conosce i segreti delle stragi e della trattativa, perché all’epoca era il “figlioccio” di Salvatore Riina, il capo dei capi: dal 1993 delle bombe di Roma, Firenze e Milano, Matteo Messina Denaro – condannato all’ergastolo – è diventato imprendibile. Probabilmente, per le protezioni di cui gode ancora all’interno di alcuni ambienti delle istituzioni.

Due anni fa, un altro uomo con un distintivo in tasca – l’agente dei servizi segreti Marco Lazzari – venne arrestato per l’ennesima fuga di notizie: aveva soffiato al boss di Gela Salvatore Rinzivillo di essere finito nel mirino delle indagini su Messina Denaro, L’ennesimo spiffero pesante arrivato dal cuore della Sicilia.