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Antimafia

Covid e criminalità in Lombardia, Caselli: “È nel dna delle mafie sfruttare sofferenze e disgrazie”


Le conseguenze economiche dell’emergenza Coronavirus aprono nuovi spiragli alla criminalità organizzata. “È nel dna delle mafie da sempre sfruttare sofferenze e disgrazie e in un momento come queste le opportunità che si aprono sono enormi”, spiega l’ex magistrato Gian Carlo Caselli a Fanpage.it. In Lombardia sono tanti gli allarmi arrivati negli ultimi mesi.
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Raffaele Cinuzzo Urso, l’ambasciatore di Messina Denaro in missione a Roma

A cena, andava al ristorante “Al pescatore” di Ostia. Ma solo con pochi amici fidati. Gli incontri d’affari li teneva invece in strada, dalle parti del Vaticano o alla Garbatella, come fossero chiacchierate fra amici. Raffaele Cinuzzo Urso faceva di tutto per non apparire un boss in missione nella Capitale. E che boss, l’ambasciatore del superlatitante Matteo Messina Denaro. Però, questo distinto signore residente a Campobello di Mazara amava comunque apparire, su Facebook: pubblicava spesso selfie con i suoi quadri e l’amato tavolo da biliardo, oppure si fotografava in bicicletta o a passeggio con un bellissimo cane razza Collie. Cinuzzo Urso è l’uomo del mistero, “è un gran massone” dicevano di lui nelle intercettazioni dei carabinieri del comando provinciale di Trapani.

Da due mesi, ormai, è in carcere, e non ha detto una sola parola davanti ai giudici, nella migliore tradizione mafiosa. Per provare a comprendere quale rete di relazioni avesse nella Capitale, bisogna ripercorrere centinaia di ore di intercettazioni e i pedinamenti fatti a Roma dai carabinieri del Ros. Un viaggio, in particolare, è finito all’attenzione del procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e dei sostituti Carlo Marzella e Geri Ferrara.

Fra il 7 e il 10 marzo 2016, Urso si trova nella Capitale per una serie di incontri. Prende una camera all’hotel “I triangoli – Best Western”, nella zona dell’Infernetto. E accompagnato da Mimmo Nardo, un siciliano trapiantato a Roma da molti anni, vede alcune persone. Le fotografie dei carabinieri ritraggono Urso a colloquio con un calabrese di Villa San Giovanni, all’interno di un locale in ristrutturazione di via Simone de Saint Bon, dalle parti del Vaticano. Poi, poco prima dell’ora di pranzo, il boss entra nella discoteca Atlantico, all’Eur, e incontra un altro uomo, che è risultato impegnato nel settore della sicurezza. Assieme, vanno a pranzare al ristorante “Molo 9/12”, alla Garbatella. I ragazzi della sezione Anticrimine di Roma si fingono turisti e continuano a fotografare, mentre i colleghi del nucleo Investigativo di Trapani intercettano i telefoni. In alcuni incontri, fa capolino anche una misteriosa donna. E poco prima di una cena a Ostia, un uomo che scende da un’auto presa a noleggio. Poi, un altro giorno, il boss si intrattiene a parlare con un ex comandante dell’Alitalia, sul viale di Castel Porziano.

Cosa legano tutti questi personaggi all’ambasciatore di Messina Denaro a Roma? Anche Nardo è un nome interessante, a metà degli anni Novanta gestiva una società che forniva guardie del corpo e veline al bel mondo dello spettacolo romano, e intanto spacciava droga, avrebbe fornito pure un documento falso a Messina Denaro.

Una sera, invece, Cinuzzo Urso va a cena al Pescatore con un’amica imprenditrice di Frosinone, Sivia Mirabella, che ha un sogno, entrare in una loggia massonica. E allora Urso chiede a un massone di Campobello, iscritto alla loggia “Domizio Torrigiani” del Grande Orientale d’Italia. La pratica va a buon fine.

Il 19 maggio dell’anno scorso, i carabinieri hanno fotografato l’imprenditrice nella sede romana della “Stella d’Oriente”, il centro polifunzionale Casa Nathan, che si trova in piazzale delle Medaglie d’Oro. «Si tratta di un’organizzazione paramassonica di origine statunitense», hanno scritto i magistrati. «Sai, la cerimonia solo per me è stata fatta», si vantava lei. E il massone che l’aveva raccomandata commentava: «Ti sembra poco questo?». Cinuzzo Urso era soddisfatto: «Il favore lo hanno fatto solo ed esclusivamente per lui, si stanno facendo miracoli per te».

(di Salvo Palazzolo, fonte)

La “bomba sociale” è la mafia, la corruzione e il silenzio che ci sta intorno

L’ultimo sequestro di beni è avvenuto giusto ieri (e interessa candidati al Parlamento di Lega e Casapound) ma basta scorrere le cronache per incrociare l’impressionante numero di operazioni che regolarmente vengono effettuate dalle Procure: la mafia è viva e lotta insieme a noi ma l’argomento non è abbastanza trendy per meritarsi uno spicchio di attenzione in campagna elettorale.

Eppure mafia e corruzione costano più di qualsiasi altro fenomeno così terribilmente popolare: i mafiosi non stanno negli hotel a cinque stelle. Li gestiscono. Li comprano per riciclare denaro. Hotel, ristoranti, bar, come pezzi di un mondo imprenditoriale (gli ipermercati, ne vogliamo parlare?) che sono gli anabolizzanti di un mercato del lavoro (e quindi dei diritti, dei lavoratori e delle famiglie, dei consumatori, quindi di tutti) che sarebbe il caso di interrogare. Mafie e corruzione come sciolina dei rapporti illeciti che camminano sui bordi della finanza e della politica. Mafie e corruzione che sono il collante impiastricciato all’interno di alcuni uffici tecnici della pubblica amministrazione. Mafie e corruzione che qui, da noi, ottengono crediti bancari che i giovani (e i meno giovani estromessi dal mondo del lavoro) possono solo immaginare. Mafie e corruzione che modificano a proprio piacimento i percorsi della giustizia. Mafie e corruzione che relegano l’Italia agli ultimi posti di quelle classifiche internazionali che un po’ tutti sventolano in campagna elettorale.

E poi c’è il silenzio, intorno. Intorno ai processi, ai testimoni di giustizia lasciati soli, agli appelli degli investigatori, agli oppressi che spesso non riconoscono nemmeno la fisionomia dei loro oppressori. Le mafie e la corruzione, puff, sono spariti dalla campagna elettorale. Normale, del resto: è un tema su cui le bagattelle da verginità politica non se le può permettere nessuno e occorre studiare, studiare, studiare.

Eccola, la “bomba sociale”.

Torre annunziata: i carabinieri al servizio del boss

(un gran pezzo di Rosaria Federico per Cronache della Campania)

Torre Annunziata. Mazzette dai gestori della piazza di spaccio, orologi, penne: sul libro paga del boss, Franco Casillo, c’erano 11 carabinieri. Dieci rischiano l’arresto o la sospensione dal servizio. Uno è finito già ai domiciliari. Una storia, quella che si è consumata nella compagnia carabinieri di Torre Annunziata, durata almeno fino al 2010 e che ora rischia minare il lavoro di anni di investigazioni nella città del boss Valentino Gionta e nei paesi limitrofi. La richiesta di arresto dell’antimafia napoletana nei confronti di 10 carabinieri, un avvocato e tre camorristi è in calendario la prossima settimana dinanzi ai giudici del Tribunale del Riesame.

I fatti. ‘Ha ditt ‘a zia, tutto a posto’ è il messaggio quello dello chaffeur di donna Gemma Donnarumma, moglie dell’irriducibile boss Valentino Gionta, per consentire la cattura di Carmine Maresca, figlio di Luigi ‘o trippone, assassino del Tenente Marco Pittoni. Il tenente è stato ucciso a Pagani nel corso di una rapina il 6 giugno del 2008. Una cattura, quella di Maresca jr avvenuta con l’intermediazione di Francesco Casillo, énfant prodige della criminalità vesuviana, che era riuscito a instaurare rapporti di corruttela con esponenti delle forze dell’ordine e in particolare con i carabinieri. In quella occasione condusse la trattativa tra la camorra assassina e lo Stato.

Una storia, quella della cattura di Carmine Maresca, all’epoca minorenne, che si interseca con un’altra storia quella raccontata da Francesco Casillo ‘a vurzella, ‘finto collaboratore di giustizia’ di Boscoreale, inserito nel clan Aquino-Annunziata e con forti legami con il clan Gionta di Torre Annunziata.

Una storia che parla di carabinieri ‘infedeli’, di inquinamento delle prove, di regali (orologi marca Buti del valore di 5mila euro, penne Mont Blanc) e mazzette per coprire un traffico di stupefacenti e lo spaccio nella Scampia boschese del Piano Napoli di Via Passanti Scafati, ma anche armi e soffiate per evitare guai giudiziari, o verbali fasulli e finti controlli. Oppure, le soffiate ai carabinieri per far arrestare – con prove false – gli esponenti dei clan avversari.

Un quinquiennio, o forse più, di vita da ‘caserma’ border line – quella della Compagnia di Torre Annunziata, poi divenuta Gruppo – raccontata dai magistrati della Dda di Napoli nella richiesta di arresto riformulata al Riesame nei confronti di dieci carabinieri e quattro tra avvocati e pregiudicati.

Una storia che approderà davanti ai giudici del Riesame di Napoli la prossima settimana con l’Appello del sostituto procuratore Raffaele Falcone e del procuratore aggiunto Filippo Beatrice della Dda di Napoli, contro il mancato arresto in carcere e ai domiciliari o la sospensione dal servizio, di 14 persone: carabinieri, un avvocato e pregiudicati dell’area vesuviana, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, traffico di stupefacenti e corruzione, aggravati dal fatto di aver agevolato la camorra.

La ricostruzione. Nel 2015 i magistrati antimafia di Napoli chiedono misure restrittive nei confronti di sedici persone, tre vengono arrestate: sono il pluripregiudicato Vincenzo Casillo, a vurzella, 44 anni di Boscoreale e il suo complice Orazio Bafumi, 42 anni originario di Catania, entrambi già detenuti, che ricevono un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Sandro Acunzo, 46 anni, originario di Trecase, maresciallo dei carabinieri in congedo, all’epoca in servizio alla Compagnia di Torre Annunziata va ai domiciliari, mentre al suo collega Gaetano Desiderio, 46 anni di Salerno, maresciallo in servizio attualmente al Comando provinciale di Salerno, viene applicato l’obbligo di residenza.

Ma la richiesta del pm Raffaele Falcone riguarda anche altre persone, per la maggior parte carabinieri come l’ex comandante della Compagnia di Torre Annunziata, il maggiore Pasquale Sario per il quale il giudice per le indagini preliminari nega l’arresto. Decisione che non è stata, però, Appellata dalla Dda di Napoli. Arresto mancato e rinnovata richiesta di arresti ai domiciliari o sopensione dall’esercizio della professione di avvocato per Giovanni De Caprio, difensore di Francesco Casillo che avrebbe avuto il ruolo di riciclare parte dei proventi delle attività e avrebbe fatto da trait d’union tra i militari infedeli e il suo assistito.

Nell’articolato ricorso, presentato il 1 dicembre del 2016, contro l’ordinanza del Gip Anna Laura Alfano del Tribunale di Napoli, emessa a novembre scorso, i pm Falcone e Beatrice chiedono l’arresto in carcere per Sandro Acunzo (già finito ai domiciliari): gli arresti domiciliari o la sospensione dal servizio per Gaetano Desiderio; per Francesco Vecchio (già luogotenente del Nucleo radiomobile di Torre Annunziata oggi in congedo); Franco De Lisio (appuntato in servizio all’aliquota radiomobile di Torre Annunziata); Antonio Formicola (appuntato attualmente in servizio a Castellammare di Stabia); Catello Di Maio (maresciallo oggi in congedo); Antonio Paragallo (in servizio all’epoca dei fatti a Torre Annunziata); Santo Scudieri (appuntato in servizio a Torre Annunziata); Antonio Santaniello, originario di Sarno (brigadiere in servizio alla Compagnia di Nola). Richiesta di arresto in carcere invece per il pregiudicato di Boscoreale Luigi Izzo, alias ufariello, complice di Francesco Casillo.

I magistrati napoletani nel loro Appello ripercorrono parte di un procedimento aperto nel 2010 sulle cointeressenze a partire dagli anni precedenti tra i militari in servizio a Torre Annunziata e noti esponenti della criminalità dei paesi vesuviani. Sotto accusa un sistema di corruttela che vedeva Acunzo tra i principali protagonisti che – mentre era in servizio presso la Compagnia di Torre Annunziata – spartiva con Francesco Casillo e addirittura lo coadiuvava nel traffico di stupefacenti. Un patto di corruttela che Casillo, gestore della piazza di spaccio del Piano Napoli, aveva instaurato con alcuni esponenti dell’Arma dei carabinieri per garantirsi l’impunità.

Nell’emettere l’ordinanza di custodia cautelare il Gip di Napoli muta l’originaria accusa per alcuni dei militari coinvolti di concorso esterno nell’associazione criminale. L’indagine si è arricchita delle dichiarazioni, seppure reticenti, di Francesco Casillo, aspirante collaboratore di giustizia che con la complicità del suo avvocato, Giovanni De Caprio, avrebbe architettato il falso pentimento per poi fuggire all’estero alla prima occasione. Sul libro paga di Casillo numerosi carabinieri che lo avrebbero aiutato, in più occasioni nel suo disegno criminale. In primis Acunzo che avrebbe venduto a Casillo droga per un milione di euro. Droga frutto di parziali sequestri come quelli avvenuti nel Porto di Napoli, il 19 gennaio del 2009, di 257 chili di cocaina. Quel sequestro -secondo i magistrati – doveva essere parzialmente eseguito. Sessantasei chili furono fatti sparire con la complicità di Acunzo per essere restituiti a Casillo. Il patto era questo. I sequestri parziali di grossi quantitativi di droga servivano a Casillo a truffare i narcos che avrebbero pensato di aver perso il carico e contemporaneamente a immettere sul mercato lo stupefacente che avrebbe fruttato milioni di euro. Quel sequestro nel Porto di Napoli del 2009, secondo l’antimafia, che ha arricchito gli elementi in suo possesso con le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia ma anche di testimoni e esponenti dell’arma dei carabinieri integerrimi, fu effettuato dall’allora Maggiore Sario – oggi tenente colonnello – con i suoi uomini del Nucleo Investigativo di Torre Annunziata tra i quali anche gli infedeli. Serviva a far bella figura visto che in quei giorni vi sarebbe stata la visita in caserma di un alto esponente dell’Arma dei carabinieri. Ma mentre, Sario – sostengono i magistrati – voleva accrescere il suo prestigio, c’era chi invece accresceva solo i suoi guadagni.

La conoscenza tra Sario e Casillo – è il pregiudicato a raccontarlo – avviene in occasione dell’uccisione del tenente Marco Pittoni. Quando Casillo chiede all’allora maresciallo dei carabinieri di Boscoreale, Varriale, di parlare con il suo superiore per concordare quella trattativa tra camorra e Stato per la cattura del killer dei Gionta. Storie nella storia che si intrecciano.

Intanto le mafie si prendono il Friuli

In Friuli Venezia Giulia, lavorano e danno da lavorare da decenni, facendo affari nei settori dell’industria, del commercio e della ristoriazione, conquistando nicchie di mercato e contribuendo a fare girare l’economia generale.

Peccato che i soldi immessi attraverso le loro attività e quelli guadagnati con quegli stessi investimenti arrivino da e tornino in ambienti malavitosi: quelli della criminalità organizzata da cui provengono e che fa capo a Cosa nostra, ’ndrangheta e Camorra. Mafiosi che nell’estremo Nord-Est d’Italia hanno trovato un’ottima occasione di riciclaggio.

L’ultima realazione del ministero dell’Interno sull’attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia nel primo semestre 2016 rappresenta una fotografia eloquente degli appetiti che la nostra regione continua a stimolare. Proprio come rilevato l’altro giorno, a Trieste, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, e come documentato dalle cronache giornalistiche in occasione di ogni operazione investigativa.

Confische nel Pordenonese

«L’ingerenza di Cosa nostra nelle attività produttive del Nord-Est ha trovato un’importante evidenza anche in Friuli Venezia Giulia», si legge nella relazione. E la prima metà dell’anno scorso offre almeno quattro conferme di rilievo. Il 3 febbraio, a Pordenone e Aviano vengono confiscati beni riconducibili all’imprenditore edile palermitano Francesco Pecora, deceduto nel 2011, a 72 anni, e ai suoi eredi, per quasi due milioni di euro.

In cima all’elenco, l’Edilizia Friulana Nord srl. La misura è disposta dal tribunale di Palermo, nell’ambito di un’inchiesta che ha ne chiarito la contiguità con personaggi di spicco, tra cui Antonino Rotolo, e che lo ha indicato come l’interfaccia tra la mafia e l’imprenditoria legale: l’uomo, insomma, incaricato di gestirne i capitali illeciti anche fuori dalla Sicilia.

I Graziano a Udine

Il 19 maggio i riflettori si spostano su Udine. Per il capoluogo friulano è l’ennesimo campanello d’allarme rispetto alla presenza, radicata da anni, della famiglia Graziano.

Questa volta, nel mirino degli investigatori ci sono Domenico, pure deceduto nel 2013, a 76 anni, e suo figlio Camillo, 48 anni, entrambi con casa a Tavagnacco e «imprenditori edili mafiosi»: la Guardia di finanza sequestra beni per un valore complessivo di circa 7 milioni di euro, tra Palermo e l’hinterland udinese, dove gestiscono tra l’altro la Nord Costruzioni srl.

Nel 2010, analogo provvedimento aveva travolto il boss Vincenzo – fratello minore di Domenico -, vicino ai Madonia e ai Galatolo, condannato già due volte per associazione a delinquere di stampo mafioso e tutt’ora in carcere con l’ulteriore accusa di avere fatto parte del commando che avrebbe dovuto eliminare il pm Nino Di Matteo.

Il boss dei Brancaccio

Ed è sempre a Udine che si era trasferito Giovanni Arduino, 54 anni, palermitano organico alla famiglia Brancaccio. Il 9 maggio, colpito da ordine di carcerazione emesso dalla Corte d’appello del capoluogo siciliano tre giorni prima, decide di costituirsi ai carabinieri: dovrà scontare tre anni di reclusione per trasferimento fraudolento di valori, aggravato dal metodo mafioso.

«Sebbene non immediatamente riconducibile a un contesto di tipo mafioso – osserva la relazione –, si registra un certo attivismo di criminali di origine siciliana, inseriti in associazioni per delinquere autoctone dedite ai reati di tipo predatorio o inerenti agli stupefacenti».

L’alleanza con i Casamonica

Non meno affollato il versante calabrese. La mappatura tracciata e costantemente monitorata dal personale della Dia di Trieste segnala «la presenza di elementi organici alla ’ndrangheta innanzitutto con riferimento a ditte operanti nel settore edile, estrattivo, del trasporto conto terzi e dell’industria meccanica».

È in quest’ottica di «silente contaminazione del sistema produttivo regionale» che va letta l’operazione della Polizia che, l’11 maggio, era culminata nel sequestro della Serrmac Sas di Budoia. L’impresa, già sottoposta a procedura fallimentare, risulta di proprietà di un gruppo criminale comprendente esponenti della camorra, della ’ndrangheta e dei Casamonica.

La ’ndrina e le pizzerie

Per non dire di tutto quello che precede e che è seguito al primo semestre 2016. Merito soprattutto del nuovo impulso impresso all’attività investigativa dal procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia di Trieste, Carlo Mastelloni, dal suo insediamento, nel 2014.

Basti pensare all’iscrizione sul registro degli indagati, per associazione a delinquere di stampo mafioso, di Giuseppe Iona, 51 anni, originario di Belvedere di Spinello e residente a Monfalcone, ritenuto capo di una ’ndrina che, dal 2007, avrebbe controllato un traffico di droga e armi.

E alla non meno complessa inchiesta per presunto riciclaggio che ha investito la catena delle pizzerie Peperino e che la collegherebbe alla Camorra. Dell’altro giorno, infine, il blitz del Ros nei negozi Celio e Jenniyfer del centro commerciale Bennet di Pradamano, di proprietà di una società riconducibile ai Piromalli di Gioia Tauro.

(fonte: Il Messaggero Veneto)

La “savianofobia” del senatore D’Anna

È una malattia ancora non scientificamente riconosciuta ma se ne trova traccia un po’ dappertutto, con un’incidenza maggiore tra amici degli amici o tra i compagni di partito di qualche politico in odore di camorra, preferibilmente cosentiniano: la savianofobia solitamente mostra i primi sintomi con un’invidia violenta, quasi un’esplosione di bile oppure nei casi in cui l’incubazione è più lunga con qualche cazzata che assume la forma di favoreggiamento culturale alla mafia. In generale, comunque, la “savianofobia” è soprattutto il virus di chi guarda il dito e non la luna perché è tutta la vita che di mestiere è il servitore del dito, anelando alla luna. Appunto.

L’ultimo caso conclamato è il senatore Vincenzo D’Anna. Senatore casertano, D’Anna, ha iniziato a fare politica nella capiente pancia della Democrazia Cristiana campana fino all’innamoramento per Forza Italia e Silvio Berlusconi. Fu assessore a Caserta dal 2005 al 2007 e deputato. Nel 2010 viene candidato (ed eletto) nella Circoscrizione Campania 1  per poi aderire al gruppo Iniziativa Responsabile, che sostenne il governo Berlusconi IV in quota ex Pdl. Nel 2013 viene eletto senatore (sempre nelle file del PDL) e quando Alfano e Berlusconi danno il via alla scissione interna D’Anna con grande piglio decide di non decidere aderendo a Gal (Grandi autonomie e libertà, un gruppo parlamentare onomatopeico, non c’è che dire) di cui diventa vicepresidente. Ma il capolavoro politico è del 2014: D’Anna aderisce a”Forza Campania”, la corrente interna a supporto di Nicola Cosentino.

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Milano: la ‘ndrangheta travestita da carrozziere e dottore.

124147836-26b66a40-b8c2-4c84-866f-de2a4a8d317dUn chirurgo plastico di 42 anni e un carrozziere quarantenne di Desio: secondo l’ultima indagine dell’antimafia milanese i due, arrestati all’alba dalla polizia, sarebbero ai vertici della ‘ndrangheta lombarda, capace di infiltrarsi negli istituti ospedalieri del capoluogo e di interloquire con Cosa Nostra. Il tutto in costante rapporto con la casa madre in Calabria. Si tratta del chirurgo plastico Arturo Sgrò, incensurato ma con parenti condannati per associazione mafiosa, e Ignazio Marrone, con precedenti per armi e ricettazioni: entrambi sono accusati di 416-bis. Secondo le accuse, sarebbero affiliati al clan Iamonte Moscato della locale di Desio.

Agivano in simbiosi. Le manette sono scattate questa mattina all’alba, e i fatti contestati risalgono al 2013 e 2014. Il chirurgo Sgrò e il carrozziere Marrone hanno attività lavorative diverse e provengono da estrazioni sociali opposte: nonostante ciò, secondo il procuratore aggiunto Ilda Boccassini e il dirigente della squadra mobile Alessandro Giuliano, agivano in perfetta simbiosi, occupando entrambi un ruolo apicale nella ‘ndrangheta calabrese trapiantata al nord.

Il chirurgo. Sgrò, originario di Melito Di Porto Salvo, professionista qualificato, con esperienze lavorative anche all’estero, era alle dipendenze dell’ospedale Niguarda, ma l’istituto ospedaliero è risultato estraneo ai fatti. Gli affiliati, parenti, sodali e detenuti, non solo della locale di Desio, secondo le ricostruzioni della squadra mobile si recavano al Niguarda per visite o operazioni senza prendere alcun appuntamento, secondo una logica di mutuo soccorso prevista dal sodalizio mafioso. Sgrò avrebbe anche svolto attività di recupero crediti per conto di due suoi cugini detenuti in carcere.

Il carrozziere. Marrone era già stato coinvolto nell’inchiesta ‘Infinito’ che nel luglio 2010 portò in carcere 300 affiliati tra Lombardia e Calabria, tra cui il temuto e rispettato Pio Candeloro. Dalle intercettazione telefoniche è emersa la sua disponibilità di armi, alcune delle quasi sequestrati in due sopralluoghi della polizia: una Mauser, arma da guerra, e una Beretta clandestina, quest’ultima custodita da un dipendente della ditta di autorimessa di Marrone, assieme a un disturbatore di frequenze. A Desio l’impresa del carrozziere era un vero e proprio fortino, sorvegliato da telecamere. Qui, dicono gli investigatori, avvenivano gli incontri tra affiliati, punto fisico di riferimento sia per Sarò che per Marrone.

I rapporti con Cosa Nostra. Quest’ultimo – nato in Sicilia – era autorizzato dal clan a risolvere i contrasti tra gli affiliati di ‘ndrangheta calabrese e Cosa Nostra. Era in contatto con un membro della famiglia Molluso che ha parenti imputati per mafia a Corsico, con i Mancuso, i Limbadi e il clan siciliano Rinzivillo di Gela. Era inoltre in rapporti strettissimi con Giuseppe Pensabene, capo della locale di Desio, attualmente detenuto.

(fonte)

Lombardia: l’ombra della ‘ndrangheta (e una condanna) sull’ex consigliere regionale leghista. E nessuno se n’è accorto.

BS05F1_3085144F1_18493_20121214214247_HE10_20121215-042Per fortuna a Brescia ci sono i ragazzi della Rete Antimafia di Brescia. Per fortuna, davvero. Perché un ex consigliere regionale della Lega Nord, Enio Moretti, suo fratello e i fratelli Rocco e Vincenzo Natale (che compaiono in più di un documento investigativo come vicini ad ambienti ‘ndranghetisti) sono stati condannati per un sistema illegale basato sull’emissione di fatture gonfiate (milionarie) e crediti d’imposta inesistenti utilizzati da una galassia di società satellite per pagare in modo illecito i contributi dei dipendenti tramite compensazione. E però l’hanno scritto in pochi. Tranne loro. Eppure sarebbe facile chiedere all’antimafioso Maroni e all’integerrimo Salvini come mai ancora una volta la Lega si ritrova vicino alla ‘ndrangheta così lontana dalla Padania che ci raccontano.

Come scrive bene la Rete Antimafia nel suo sito:

Nel più totale silenzio da parte dei media cittadini proseguono le udienze del processo nato dall’indagine “Lupo” e che vede alla sbarra l’ex Consigliere Regionale leghista Enio Moretti, suo fratello e, fra gli altri, i fratelli calabresi Rocco e Vincenzo Natale.
Un processo che sta mettendo in luce un intricato intreccio di rapporti tra l’ esponente della Lega Nord bresciana ed i due fratelli Natale, già noti alle cronache per le loro frequentazioni nel mondo della criminalità organizzata calabrese.
Molto interessante l’udienza odierna, durante la quale abbiamo potuto ascoltare le parole del Luogotenente della compagnia di Chiari della GdF Antonio Romano, coordinatore delle indagini.
Per un approfondimento sul dibattimento vi rimandiamo alla prossima edizione del settimanale “Chiari Week” (unico organo di stampa presente oggi in Aula) in edicola venerdì, quello su cui invece vogliamo focalizzarci ora è la totale mancanza di attenzione da parte dei media bresciani.
Fa specie, molta specie, constatare come un processo che vede coimputati un esponente di livello della Lega (oltre che ex Consigliere Regionale Moretti era il segretario della sezione clarense e membro dello Staff dell’ex Senatore ed ex Sindaco di Chiari Sandro Mazzatorta) e due fratelli calabresi in odore di ndrangheta non desti interesse nelle redazioni dei quotidiani cittadini.
Non possiamo non essere critici nei confronti di un’informazione che non informa, perchè questa carenza, ormai cronica, è stata in parte responsabile dell’avvento silenzioso della criminalità organizzata sul nostro territorio.
Per combattere la mafia è necessaria una presa di coscienza da parte dei nostri concittadini, ed in questo i media hanno un ruolo fondamentale: se non funzionano loro non possiamo funzionare neanche noi.
Per questo motivo auspichiamo che il processo venga seguito con interesse ed attenzione da tutti i giornali cittadini.

Sono finito a fare l’attore in Uruguay

b552d3_aa1b4a7cd6b24a0a90ef7683eb6ad375.jpg_srz_p_307_228_75_22_0.50_1.20_0.00_jpg_srzO almeno così mi hanno immaginato i ragazzi di PROGRAMMA 101, una Onlus in cui la somma degli anni dei membri del Cda è di 10 anni in meno dell’età del Presidente della Repubblica. Perché c’è un’antimafia giovane, freschissima e fortunatamente scagliata dalle vecchie pettegole. Il loro articolo è qui.

Il bambino con il gelato blindato

411EUaV-LbL._SY300_La storia è uscita nei giorni scorsi, qualche quotidiano ne ha scritto ma è rimasta comunque sotto traccia. Una storia in cui la delicatezza e l’umanità ci chiedono di non fare nomi e nemmeno luoghi ma che anche scritta senza troppe indicazioni è dolorosa come una manciata di sale sul cuore: un bambino di nove anni, figlio di un magistrato antimafia, si ritrova sotto scorta insieme alla madre e alla sorella. L’obiettivo è lui: il bimbo. Il figlio maschio di un magistrato di cui (secondo le parole intercettate dal boss) “non deve rimanere nemmeno il seme”.

Provate a spiegare ad un bambino in compagnia del suo gelato blindato che la mafia non è un’emergenza prioritaria di questo Paese. Ai professionisti dell’antiantimafia consiglio di provare a convincere lui.