(l’intervista è pubblicata sul sito QuartaParete qui)
Il racconto di Giulio Cavalli su Dell’Utri, accompagnato dalle musiche dal vivo di Cisco Bellotti, ha fatto tappa al Nuovo Teatro Sanità il 10 e 11 ottobre, aprendo di fatto la stagione di una tra le realtà più interessanti dell’ambiente teatrale napoletano. L’amico degli eroi. Parole, opere e omissioni di Marcello Dell’Utri ha raccolto un buon pubblico alla sua prima, nonostante il diluvio abbattutosi nella serata di sabato su tutta la Campania. Un buon inizio e un ottimo segnale per chi continua a svolgere orgogliosamente un ruolo di presidio culturale e artistico nel cuore della Sanità.
Quello di Cavalli è un ritorno: già due anni fa, infatti, fu ospite del ntS’ con L’innocenza di Giulio, inizialmente rinviato in seguito al rinvenimento di un’arma nei pressi del suo studio di Roma; sebbene dunque nel mirino della criminalità organizzata, Cavalli, anche scrittore e giornalista, oltre che attore, non ha però perso il gusto di narrare di mafia e politica e di quel grigio che passa tra le due, dedicando, questa volta, le proprie attenzioni ad un personaggio molto chiacchierato: Marcello Dell’Utri, pienamente rappresentativo dell’ultimo ventennio berlusconiano; l’amico degli “eroi” (così come lui chiama Vittorio Mangano), mafioso che scelse di non riferire mai alla magistratura i propri rapporti con i vertici di Fininvest.
Ascoltando il monologo, in effetti, sembra di tornare a piè pari nei primi anni Duemila, a certe trasmissioni di Santoro (di cui non a caso sono proiettati frammenti del passato), ad un impegno antimafia che oggi appare sfumare nella retorica da Twitter che domina il dibattito politico sui media. La storia di Dell’Utri viene narrata quasi con un certo affetto nei confronti del protagonista; ne viene raccontata la vergogna per i genitori e, in generale, per i propri natali meridionali; l’amore per gli ambienti milanesi, tradizionalmente negati alla piccola e media borghesia palermitana di cui portava il marchio anche nell’amore per le cravatte (rigorosamente Regimental); unico elemento della scenografia, d’altronde, è proprio un’enorme cravatta, icona del tentativo mai riuscito di mimetizzarsi tra gli invidiati finanzieri della Milano da bere di trenta, quarant’anni fa.
Dell’Utri è il trait d’union tra Berlusconi e Mangano (gli altri due “protagonisti”), ma è anche profondamente diviso tra la volontà di essere come il primo e la vicinanza (per mentalità e provenienza) al secondo; in questa bivalenza si consuma la tragedia di Dell’Utri, che riuscirà a farsi accettare da quest’ambiente tanto ambito solo facendo da pontiere proprio con quella Sicilia da cui voleva allontanarsi. Cavalli tiene bene la scena e richiama l’attenzione del pubblico nei momenti in cui il susseguirsi di citazioni e sentenze rende la narrazione più ostica da seguire (“Cos’è questa, un’assemblea del Pd?” riprende la sonnacchiosa platea, scatenando immediata ilarità). Chiude con il richiamo all’articolo 4 della Costituzione (“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), ideale contraltare all’Italietta provinciale e truffaldina rappresentata fino a quel momento.
Al termine dell’ora circa di spettacolo, l’attore lombardo si ferma qualche minuto con noi, approfittando della pioggia ancora battente che all’esterno inonda la Sanità. È abbastanza provato dall’interpretazione appena conclusasi, ma non per questo sembra meno lucido il racconto del suo personale rapporto con “l’amico degli eroi” del titolo.
In questi giorni, Napoli ospita il tuo spettacolo e riapre alla città (anche se solo per un giorno) la biblioteca dei Girolamini in passato depredata da Dell’Utri; sembra quasi che un’intera città stia cercando di prendersi gioco dell’ex senatore siciliano. Viene spontanea allora la domanda: perché proprio Dell’Utri dopo aver parlato di Andreotti ne “L’innocenza di Giulio”?
Perché su Dell’Utri abbiamo molte più prove, paradossalmente, di quante non ce ne fossero per Andreotti; è tutto fotografato nelle sentenze. La storia di Dell’Utri è quella di un siciliano che sogna di essere milanese, quella di un milanese (Berlusconi) che disprezza intimamente ogni meridionale – ma meglio di chiunque altro ne riuscirà a sfruttare il senso di fedeltà – e quella di un mafioso da discount come Mangano. E’ una storia in cui gli opposti si attraggono, che ci racconta molto di un Paese in cui uno di questi protagonisti è ancora lì a riscrivere gli articoli della Costituzione.
Viviamo ancora nello stesso Paese della “trattativa Stato-mafia” che oggi emerge dai processi di Palermo?
Si cerca troppo spesso di raccontare il presente con le sentenze, ma le sentenze non sono che le macerie del passato; al di là di quella giudiziaria che poi verrà fuori, una verità “culturale” già la sappiamo ed è quella – e non le sentenze – che dovrebbe darci le chiavi di lettura del presente.
Cosa intendi?
Ad esempio, è già ora evidente che Mancino ha una paura enorme data dall’aver camminato troppo tempo nella penombra; così com’è evidente che Dell’Utri è stato condannato perché già sostituito con “qualcos’altro”. Non c’è bisogno di aspettare una sentenza per poterlo dire.
Perché Dell’Utri s’è lasciato sostituire, alla fine?
Da un lato, c’è quel meccanismo che porta ogni servo a vedere la propria salvezza nel padrone, anche quando è evidente che il padrone l’ha ormai abbandonato. Dall’altro, Dell’Utri ha monetizzato la propria dipartita sistemando le prossime quattro o cinque generazioni di Dell’Utri.
Cosa pensi del suo atteggiamento ironico e strafottente?
Sentendo le parole di chi lo ha conosciuto di persona, mi son fatto l’idea di uno che è intimamente convinto di essere superiore a Berlusconi; che pensa che in un mondo ideale sarebbe stato Berlusconi a fargli da vassallo e non il contrario. Da questa convinzione viene il suo atteggiamento sprezzante. Quando ha saputo di questo spettacolo, ha detto al suo avvocato: “Finalmente scrive di me qualcuno bravo e non i soliti giornalisti”.
Condividi l’immagine che di Dell’Utri ha dato la serie “1992”?
No, non l’ho vista, cerco di salvarmi da queste serie.
Cos’è cambiato in Lombardia negli ultimi due anni? (il 9 ottobre Mario Mantovani, vicepresidente della Regione, è stato arrestato per corruzione, ndr)
I centocinquanta arresti hanno inciso, indubbiamente. A scuola si parla di mafia e c’è una generazione che sta crescendo con una forte sensibilità antimafia; mentre quella precedente non ha gli strumenti, probabilmente, per sviluppare questa sensibilità. Ci siamo affezionati, nel frattempo, a dei simboli: io stesso, in quanto “attore con la scorta”, sono stato un simbolo; però poi ti accorgi che ogni folata di luce in più che ricevi avvicina la gente al tuo feticcio e l’allontana dal fulcro della questione.
Un corto-circuito, in pratica.
Un corto-circuito dal quale noi per primi dobbiamo allontanarci. Io ammetto che da questo punto di vista ho commesso degli errori, per questo cerco di non parlare della scorta.
Credi che una responsabilità l’abbiano anche i media e la rassegnazione del pubblico?
Il “savianismo”, che io definirei più che altro “mondadorismo”, ci ha raccontato che la lotta alla criminalità possono farla solo gli eroi; e così non abbiamo protetto abbastanza chi ha il diritto di avere paura di dover lottare in prima persona.
Può essere il teatro una chiave per diffondere queste informazioni che oggi difficilmente “passano” sulla stampa (anche perché i giornalisti che se ne occupano, come Ester Castano a Sedriano, sono puntualmente boicottati)?
No, se devo essere sincero non credo che il teatro possa addossarsi questa responsabilità. Così come la letteratura e la magistratura, da sole, non possono nulla; e non credo nemmeno a questa puttanata che “la parola” possa sconfiggere le mafie. Il teatro deve fare la sua parte, per carità. In questo quartiere, la criminalità organizzata fa venire l’acquolina al gommista, per dire una categoria a caso, con il suo potere. Col teatro non posso liberare il “gommista” ma posso gettare dei semi che, se coltivati, possono arrivare a liberarlo; ma da solo il teatro non può risolvere granché.
Com’è cambiata la sensibilità degli artisti ed il gusto del pubblico negli ultimi venti anni di Berlusconi?
Il pubblico continua a chiedere “teatro di impegno civile”, perché vuole sentirsi raccontare il presente senza necessariamente ricorrere ad Aristofane o Platone. Questa fu l’intuizione di Marco Paolini con Vajont ed è ancora validissima.
Cosa manca allora al dibattito sulle criminalità organizzate?
Mancano gli intellettuali. Abbiamo lasciato la patente di intellettuali ai soli magistrati, i quali spesso sono, sì, ottimi professionisti ma si sono dimostrati anche pessimi intellettuali. Non possiamo lasciare che siano loro a tradurre nel sociale il significato delle sentenze; per questo lavoro ci vorrebbero delle figure che al momento mancano. E poi ovviamente c’è il problema che metà degli attori e giornalisti italiani è stato a lungo (e forse è tuttora) sul libro paga di una sola persona.
Ultime due domande per finire. Se questi venti anni fossero una pièce teatrale, in quale genere si inserirebbero?
(sorride) Non so, dovremmo chiedere a Dario (Fo). Sicuramente una farsa…
E questo momento storico attuale?
(prende un sospiro) Questa è la polluzione notturna degli ultimi vent’anni.
Antonio Indolfi