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Marchionne: che c’entra la morte con i diritti?

Sergio Marchionne è quanto di più lontano possa esistere rispetto alla mia concezione dei diritti del lavoro e dei valori morali. Ho ancora negli occhi il pessimo marketing dell’”Operazione Italia” lanciata in pompa magna per finire in un niente di fatto, ho negli occhi gli scheletri spolpati di ciò che fu Mirafiori e di come è stata ridotta, ho conosciuto e discusso con i residui degli operai della Maserati che sono diventati il sacchetto dell’umido di un’industria italiana che fu gloriosa ed è diventata una misera stelletta da sventolare, ricordo bene la frase di Marchionne ospite da Fabio Fazio (eh, sì) quando disse «la Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia». I grandi imprenditori e industriali italiani sono quelli che hanno contribuito alla crescita del Paese oltre a quella della propria azienda, e Marchionne no, non è tra questi.

Ma non è di questo che voglio parlare. No. Mi interessa piuttosto scorrere (e lo so che ci tocca, purtroppo) i commenti di chi in queste ore sta esultando per le condizioni di Marchionne, ricoverato in terapia intensiva in coma irreversibile, come se il suo dolore personale possa essere davvero un valore aggiunto alla battaglia per i diritti, come se (ancora una volta) i posti di lavoro persi (erano 120mila nel 2000, rispetto ai 29mila di oggi) trovino lenimento nella sua scomparsa. Gioire della morte di Marchionne è una cazzata pazzesca, non ha niente a che vedere con la sinistra dei diritti e dei lavoratori e di colpo rilascia lo stesso tanfo di chi gioisce per i morti del Mediterraneo. Chi gioisce per la morte di un negro è disumano come chi gioisce per la morte di un ricco. È una posizione impopolare? Beh, pazienza.

Il gioco sporco di dare un nome, un cognome e una faccia a una (giusta) battaglia per i diritti è una bassezza che non ha niente a che vedere con la difesa dei deboli. Cedere alla vendetta e al cattivismo è (per dirla alla Totò) una livella peggiore della morte. La compassione che dipende dai beneficiari è fasulla. Un uomo che muore è un uomo che muore: le sue pratiche e le sue politiche non hanno niente a che vedere con la sua malattia. No. E insozzare il clima non porta benefici. Per niente.

Buon lunedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/07/23/marchionne-che-centra-la-morte-con-i-diritti/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Marchionne, leader di entrambi

Silvio Berlusconi: «Per il centrodestra punto su Sergio Marchionne. Tra non molto gli scade il contratto negli Stati Uniti (quello con FCA, ndr.), e se ci pensate bene sarebbe l’ideale…».

Che Berlusconi volesse davvero candidare Marchionne alla Presidenza del Consiglio è una notizia a cui non crede nessuno e difatti a stretto giro di posta è arrivato il rifiuto dell’imprenditore feticcio che tra i casini italiani e un tranquillo stipendio all’estero (con un comodo regime fiscale) ha ovviamente deciso di stare dov’è. Intanto però Berlusconi per la milionesima volta con la sua frase s’è preso i titoli dei quotidiani, ha fatto incazzare ancora un po’ Salvini e ha fatto mancare per qualche minuto la terra sotto i piedi ai suoi servili servitori e ai suoi servili alleati.

Ma il punto vero messo a segno da Berlusconi è un altro: con la boutade su Marchionni Berlusconi ha rigirato il coltello sulla svolta di Matteo Renzi senza nemmeno avere bisogno di nominarlo. Marchionne, ricordiamolo, è la scelta che il leader del PD da tempo ha preso sul mondo del lavoro: «Quando in un paese c’è la disoccupazione giovanile al 39 per cento, vuol dire che abbiamo bisogno di creare lavoro. – disse Renzi nell’aprile dell’anno scorso – In questo paese si è detto che c’era un disegno squallido contro i lavoratori, ma io penso che in questo paese abbia fatto più Marchionne, più alcuni imprenditori, che certi sindacalisti. Io sto con Marchionne».

In pratica: Renzi si innamora di un uomo che ha tutti gli stili e i valori del centrodestra, Berlusconi lo candida (per finta premier) e il tilt è compiuto. Ma non è un tilt: è la rappresentazione più fedele di due partiti (PD e Forza Italia) e due leader che fanno i distanti e invece sono sovrapposti sui temi del lavoro, della finanza, dei diritti. Oltre che sull’immigrazione, ovviamente.

Molto bene.

Buon lunedì

 

(continua su Left)

Danneggiata la vigna di Vespa. Ora riparte l’economia?

Se davvero Bruno Vespa pensa (ma poi si è scusato o forse no) che il terremoto sia una grande occasione per fare ripartire il PIL non è colpa sua. No. È la naturale involuzione di un capitalismo umano prima ancora che economico: la crescita e la produttività a tutti i costi è il comandamento moderno e alla fine risulta perfino normale che i portatori servili di questo credo finiscano per tradirsi in diretta televisiva. E forse, del resto, non è nemmeno un tradimento consapevole: l’Europa crede nel PIL come metro di misura universale. Il prodotto interno lordo della dignità e della felicità, invece, è solo la curva di una minoranza fastidiosa.

A pensarci bene anche il fatto che Marchionne dia lezioni di etica all’imprenditoria italiana (lui che è vigliaccamente e furbescamente scappato dall’Italia portandosi dietro quel che resta telex Fiat) si inserisce perfettamente in questo percorso. Sono solo i sintomi di una malattia ben più radicata e vasta. E solidale. Ma solidale sul serio. Corporativa ai massimi livelli.

Perché altrimenti si potrebbe pensare che anche il danneggiamento della vigna di Vespa (la notizia è qui) sia semplicemente una piccola occasione per la ripresa dell’economia. O no?

L’abbandono della Fiat visto dalla Germania

In Germania scrivono della Fiat che abbandona l’Italia e ne scrivono così. Tanti per dire il titolo dell’articolo è “La fiat abbandona l’Italia, ma questo non interessa quasi a nessuno”:

La fiat abbandona l’Italia, ma questo non interessa quasi a nessuno. Cosa succederebbe invece negli Stati Uniti se la General Eletric trasferisse la sua Sede in Olanda, o come reagirebbe la Gran Bretagna se Vodafone traslocasse a Zurigo, si chiede il piccolo giornale di intellettuali della destra „Il Foglio“. L’approccio pragmatico degli anglosassoni condurrebbe a meditare su ciò che manca al loro Paese e quale fascino verso l’estero abbia subito un Gruppo cosí grande, fino ad abbandonarlo. In un tale Paese, senz’altro verrebbe subito promulagata una legge con il fine di trattenere Gruppi economici in Patria, affinché desistano dal delocalizzare. La decisione della FIAT rappresenta „uno schiaffo dell’economia globale all’interpretazione italiana della modernità“, recita il piccolo quotidiano, che viene finanziato tra l’altro anche da Silvio Berlusconi, che in economia politica non ha mai avuto la sufficienza.

Il dibattito politico italiano ritorna subito ad occuparsi delle faccende minuscole, di cui si compone la politica a Roma. La FIAT inoltre aveva precedentemente intrapreso molto per tranquillizare gli italiani. Il giorno prima della comunicazione ufficiale circa la decisione di trasferire la sede legale del Gruppo, dopo la fusione con la Chrysler, in Olanda e la sede amministrativa in Gran Bretagna, il presidente della FIAT, John Elkann, insieme al suo amministratore delegato Sergio Marchionne, hanno reso visita al Presidente del Consiglio dei Ministri, per aggiornarlo in termini informali dei futuri sviluppi. Elkann, l’erede degli Agnelli, si é fatto intervistare dal gazzettino di corte, e con toni tranquillizanti ha garantito personalmente: “Il mio ufficio rimarrà a Torino” . È infatti previsto di riattivare quelle fabbriche giá smantellate in Italia, e che Torino rimarrá la centrale europea. Il governo comunque non si muove.

I sindacati si lamentano come sempre della cassa integrazione a zero ore, ripetutamente applicata nelle quattro fabbriche della FIAT attualmente operanti in Italia; rammentano inoltre a Marchionne le sue promesse di effettuare investimenti, espresse nel lontano 2010 ma rimandate a causa della crisi economica e del comportamento non cooperativo da parte dei sindacati. Gli appelli al governo ricalcano schemi degli anni settanta e ottanta, e si limitano a richiedere che la FIAT venga convocata ad una tavola rotonda. Il governo presieduto da Enrico Letta non si è finora mosso. Inconsueto però è stato il commento minaccioso del Direttore delle Entrate e della Riscossione, Attilio Befera, che annunciava di verificare attentamente tale operazione di trasferimento della Sede legale in Olanda e fiscale in Gran Bretagna. E questo potrebbe significare grossi problemi per il Gruppo. Infatti, come in altri diversi casi analoghi, verrebbe richiesto alla FIAT di tassare l’intera plusvalenza accumulata nella vecchia Sede di Torino, al momento del trasferimento, comprese le licenze che si sono formate nel tempo grazie a ricerca e sviluppo italiani e che ora vengono sfruttate all’estero per la costruzione e la vendita dei marchi e dei modelli creati in Italia.

Un capitano d’industria di lungo corso, dirigente di imprese con migliaia di lavoratori, è invece dell’opinione che finalmente si avvera il vecchio sogno degli Agnelli: scappare da Torino! Grazie alla fusione di FIAT con la Chrysler, e quindi il trasloco all’estero, si é reso possibile l’abbandono di questo sistema economico italiano, vecchio ed incrostato, giá ripugnato dall’ ”Avvocato” Giovanni Agnelli. Che non si alzino proteste in Italia non sorprende nessuno: “la gente giá é al corrente del perché la FIAT si é cosí decisa” . Essa ha investito miliardi nelle fabbriche sul territorio italiano ed ancora si sente ancorata a questa terra. “peró attualmente tutti quanti voglio scappare” – é il giudizio del direttore di punta italiano. “L’Italia é mummificata, ostile all’imprenditoria; le imprese vengono terrorizzate in tante maniere, é tutto molto difficile, ed al di fuori dell’azienda praticamente non funziona niente” La conclusione dunque è annientante: “ Il sistema italia é cosí dispendioso, che ogni impresa é in perdita ancora prima di iniziare a lavorare “ Simili giudizi si sentono spesso negli ambienti economici. Ma quasi nessuno ha il coraggio di esprimere la propria opinione di fronte allle telecamere, indicando il nome e la propria funzione. È inoltre impressionante come l’opinione pubblica abbia trattato il capo della FIAT e Chrysler durante gli ultimi anni. Esso ha ripetutamente e apertamente evidenziato la carenza di competitivitá e un ambiente ostile all’imprenditoria in Italia. Marchionne è invece sempre stato considerato un orco cattivo, fino a che non ha iniziato a comportarsi, negli ultimi mesi, in modo compito e diplomatico, stile che appunto viene meglio apprezzato in Italia

L’occupazione nel territorio viene ridotta

Per diversi imprenditori e direttori di alto livello non era stato necessario osservare il destino orribile di Marchionne al fine di orientarsi adeguatamente. Le decisioni sugli investimenti all’estero vengono infatti prese cautamente e in tutto silenzio. Numerose imprese evitano di indicare nei loro bilanci ufficiali ovvero nei prospetti pubblici lo sviluppo dell’occupazione nelle loro unitá all’estero. Uno studio di questo quotidiano evidenzia invece che da anni le imprese più importanti, quotate in borsa, si orientano verso l’estero e tendenzialmente riducono l’occupazione nelle loro aziende sul territorio italiano. Proprio la FIAT ha mantenuto costante la sua forza lavoro in Italia, sulla carta, poirché i lavoratori in cassa integrazione vengono annoverati ufficialmente tra gli occupati.Pur nel breve periodo tra il 2008 e il 2012 si registra un incremento dell’occupazione all’estero e una sua diminuzione sul territorio italiano, in capo a numerose imprese. Ciò riguarda persino i gruppi industriali controllati dallo Stato, come eni e enel. Anche gruppi privati di comprovato successo come Luxottica e Pirelli hanno diminuito l’organico italiano ed assunto migliaia di lavoratori all’estero. Delle 35 imprese industriali quotate nell’indice standard FTSE mib e nell’indice della media impresa FTSE mid cap, 14 hanno ridotto il personale in Italia, solo sei hanno incrementato il loro organico. All’estero, il numero dei dipendenti di 25 imprese é cresciuto. Nel totale, l’occupazione all’estero dell’imprenditoria italiana é aumentata di 80.000 unitá. Complessivamente, la quota di occupazione all’estero é aumentata per 28 delle 35 imprese industriali. Tale quota ammontava nel 2012, per 10 di queste imprese, a più dell’80 per cento, per ulteriori undici imprese al 60 per cento. Nello stesso periodo, tra il 2008 e il 2012, in Germania i bilanci consolidati della Volkswagen, compresa Porsche, evidenziano un aumento dell’organico di 50 mila unitá, seppur anche un aumento della quota dei dipendenti all’estero dal 50,2 al 55,6 per cento. La Siemens ha complessivamente ridotto il personale dipendente e la quota degli occupati all’estero é diminuita dal 68 al 67 per cento.

“Non vengono trasferiti direttamente posti di lavoro all’estero”

La questione se un aumento dell’occupazione all’estero sia da valutare positivamente o in termini negativi ha mobilitato l’opinione pubblica italiana negli anni passati, quando numerosi piccoli imprenditori hanno delocalizzato le loro attivitá in Romania. Da allora, gli imprenditori italiani distinguono tra “emigrazione” e la piú apprezzata “internazionalizzazione” . In seguito all’apertura di ben cinque fabbriche, tutte all’estero, in due anni il produttore di freni Brembo ha marcato una poderosa crescita nei mercati internazionali. Il presidente del Gruppo, Alberto Bombassei, rileva principalmente la necessitá di servire la clientela dove essa si trova, producendo appunto in loco, cioè in Cina, negli Stati Uniti, in Polonia o nella Repubblica Ceca. Anche per esso, paladino degli investimenti all’estero, la situazione é ben delineata: non é possibile mantenere competitivitá in un mercato internazionale se la produzione avviene solo in Italia. “Non vengono trasferiti direttamente posti di lavoro all’estero”, giudica Bombassei, ed aggiunge che anche la FIAT ha trasferito la produzione della piccola “panda” dalla Polonia a Napoli. Che purtroppo l’occupazione diminuisca in Italia ma aumenti all’estero, viene ammesso anche da Bombassei. “La questione é rappresentata dalla difficile congiuntura nel mercato domestico e la carenza di competitivitá che dura da 30 anni”. “Determinante non é solo il numero di dipendenti, bensí anche la loro qualifica professionale e la loro retribuzione” dichiara Gianfelice Rocca, Presidente della Confindustria lombarda e patron del Gruppo tecnologico Techint. La globalizzazione può essere interpretata come l’impiego di manodopera poco qualificata all’estero, mentre ricerca, sviluppo e pianificazione aziendale rimangono in Italia, secondo l’opinione di Rocca. L’Italia peró non sembra abbastanza flessibile da mantenere in carico lavoratori poco qualificati il piú a lungo possibile, ma neppure sa sfruttare le opportunitá della ripartizione dell’occupazione piú e meno qualificata, all’interno di un Gruppo, in un contesto globalizzato.  In riferimento alla FIAT, la questione piú importante, piuttosto che il trasferimento di sede amministrativa o legale, è dove in futuro le autovetture verranno progettate: a Torino ovvero a Detroit.

Tali argomentazioni sembrano essere troppo complesse per il dibattito che attualmente avviene nell’opinione pubblica italiana. Qui i sindacati e i lavoratori attualmente combattono contro la chiusura di una delle quattro fabbriche del Gruppo svedese Electrolux e contro la riduzione dei salari. Contemporaneamente il Presidente della Confindustria mette in guardia di fronte al pericolo che senza una modifica di rotta, in Italia si allargherà la desertificazione industriale. Ma tali rituali senza alcun esito si ripetono da tempo in Italia.

[Articolo originale “Fiat geht weg – und keinen interessiert’s” di Tobias Piller] 

[Traduzione di Italia dall’Estero]

Il caso Fiat visto dal genio di Fo

A volte leggi alcuni suoi lampi e credi proprio che non ci sia altro da aggiungere.