Il calvario di Maria Concetta Cacciola
Riportato da Strill:
di Angela Panzera – “Maria Concetta era stremata da un’esistenza rigida che la sua famiglia le aveva imposto e che le toglieva la pace. Maria Concetta era una donna adulta, privata della possibilità di scegliere la propria vita e ciò le era divenuto intollerabile”. A scrivere così sono i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria nelle motivazioni della sentenza che lo scorso 6 febbraio ha condannato, per il reato di maltrattamenti, padre, madre e fratello di Cetta Cacciola, la testimone di giustizia morta il 20 agosto del 2011 dopo aver iniziato un percorso di collaborazione con gli inquirenti. Nella sentenza di secondo grado infatti, il padre Michele ha rimediato 4 anni e 4 mesi, il fratello Giuseppe 4 anni e 6 mesi, e la madre Anna Rosalba Lazzaro 2 anni di reclusione. Alla sbarra ci sono finiti per una serie di episodi relativi ai maltrattamenti che avrebbero inflitto a Cetta Cacciola ed in particolare per averle impedito di coltivare amicizie, uscire dalla propria abitazione, con relative vessazioni fisiche e psicologiche. Maltrattamenti questi, tramutatisi per i giudici di secondo grado anche in percosse che le avevano causato l’incrinatura di una costola, non curata in ospedale perchè a Maria Concetta era stato anche impedito di recarsi al pronto soccorso. Una vita monitorata continuamente, 24 ore su 24, anche attraverso pedinamenti che per questi giudici sono stati posti in essere in conseguenza della diffusione della notizia di una sua presunta relazione extraconiugale. I maltrattamenti si sarebbero verificati a Rosarno, feudo delle cosche Pesce e Bellocco e famiglie satelliti, fino al 20 agosto del 2011: giorno della morte della testimone di giustizia, avvenuta a causa dell’assunzione di una dose di acido muriatico, ragion per cui attualmente la D.D.A sta indagando per l’ipotesi di omicidio e non per il presunto suicidio ipotizzato in un primo momento. In 122 pagine la Corte d’Assise d’Appello reggina, presieduta da Bruno Finocchiaro, sviscera l’ultima parte della vita di Cetta ripercorrendo tutte le tappe che l’avrebbero vista protagonista di un vero proprio incubo iniziato molto prima della scelta di collaborare con l’autorità giudiziaria, cioè già da quando il marito Salvatore Figliuzzi era stato arrestato, e successivamente condannato definitamente, per associazione mafiosa. Mancando l’uomo a casa, occorreva “salvaguardare in tutti modi” l’onore della famiglia.
L’inizio della collaborazione di Cetta Cacciola
La prima parte delle motivazioni della sentenza d’Appello ricostruiscono il periodo in cui Maria Concetta Cacciola decide di collaborare con Carabinieri ed inquirenti. “La donna da un lato si sentiva vittima ed oppressa dagli invasivi condizionamenti della propria famiglia- scrivono i giudici- dall’altro sapeva che il rigore e l’intransigenza della stessa non le avrebbe consentito di liberarsene, semplicemente andando via di casa. La determinazione della Cacciola è inscindibilmente connessa all’oppressione di questa famiglia, legata a codici comportamentali imposti e che non questa non sopportava più. Maria Concetta Cacciola aveva chiesto aiuto alle Istituzioni, dichiarandosi pronta a parlare con qualsiasi autorità pur di potere andare via di casa e ricevere protezione”. Dopo due incontri avvenuti con i Carabinieri di Rosarno, infatti, Cetta viene inserita nel programma di protezione riservato ai testimoni di giustizia. Non appena uscita di casa le iniziano a pesare come macigni la nostalgia per i tre figli piccoli, lasciati così da un giorno all’altro ai nonni, ma soprattutto il timore delle vessazioni che avrebbe potuto subire da parte dei familiari. Su questo punto scrivono i giudici: “la Cacciola nutriva timore più nei confronti del fratello Giuseppe che del padre, poiché le reazioni di quest’ultimo, potevano essere placate dalla madre, mentre non era così per il fratello Giuseppe. La donna temeva che quest’ultimo avrebbe potuto farla scomparire, alludendo ad omicidi di lupara bianca”. Cetta sapeva infatti, di provenire da una famiglia di ‘ndrangheta: questa è infatti la prima circostanza riferita ai Carabinieri di Rosarno. Era “conscia del modus operandi della sua famiglia, che sin da allora le aveva infuso un triste presagio”.
L’ allontanamento dai figli e il disonore dei Cacciola
Una volta deciso di collaborare con la giustizia, Cetta sa che all’inizio di questo percorso non può ancora portare con sé i suoi tre figli e per questo li colloca a casa della madre. All’interno di una lettera inviata proprio ad Anna Rosalba Lazzaro nel maggio del 2011, la testimone cerca di spiegare il travaglio che viveva e le ragioni della sua scelta. “Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire […\]Ti affido i miei figli, l’unica cosa che ti supplico e di non fare l’errore mio…a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni sposata per avere un po’ di libertà…credevo potessi tutto invece mi sono rovinata la vita perchè non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Dagli quello che non hai dato a me […] La cosa più bella sono i miei figli che li porterò nel cuore e li lascio con dolore, un dolore che nessuno mi ricompensa”. Su questo punto la Corte scrive che “l’allontanamento da casa e l’affidamento dei figli alla madre, unito alla valutazione del contenuto dalla lettera, non lasciano trapelare contraddizioni, intenti speculativi e/o menzogne intessute per mistificare un desiderio di libertinaggio”. La Corte scrive libertinaggio, ma in realtà i Cacciola erano preoccupati per qualcosa di più di semplici comportamenti frivoli, temendo che Cetta potesse essere andata via per continuare una presunta relazione extraconiugale. Onta e disonore. “Il disonore che sarebbe gravato sulla famiglia risulta dalle stesse parole pronunciate dall’imputato Michele Cacciola il quale intercettato dirà che la preminente preoccupazione sua e dei fratelli di Maria Concetta era quella che la donna fosse andata via con un compagno: «Io avevo il pensiero che te n’eri andata con qualcuno. A me lo so che non mi hai disonorato! Il mio pensiero e dei tuoi fratelli era quello»”. I Cacciola infatti, non si preoccupavano che la donna stesse collaborando con l’autorità giudiziaria, riferendo tutto quello a cui era a conoscenza: associazione mafiosa, omicidi. I Cacciola erano solo preoccupati per “l’onore della famiglia”. “Per le eventuali dichiarazioni che Maria Concetta potesse aver reso agli inquirenti su eventuali fatti di mafia – scrivono i giudici d’Appello – non lo preoccupava, perchè avrebbe sistemato tutto lui”. E come? A ciò i giudici di questo processo non possono rispondere, ma sul punto ci hanno pensato gli stessi inquirenti della D.D.A che recentemente hanno fatto finire in galera i due avvocati della famiglia ossia Gregorio Cacciola e Vittorio Pisani per il reato di violenza privata aggravata dalle modalità mafiose in concorso con padre, madre e fratello della testimone di giustizia e per cui a breve partiranno i processi. Secondo la Procura antimafia infatti, i due legali avrebbero ideato un piano di ritrattazione di tutte le dichiarazioni di Cetta, ritrattazioni però estorte contro la sua volontà e con violenza e per favorire la cosca Bellocco.
Il ritorno a Rosarno
Cetta dopo essere stata in vari siti protetti decide di far ritorno a Rosarno. Non riesce a stare lontana dai tre figli e soprattutto non riesce a resistere alle pressioni dei genitori che in auto si recano a Genova per prelevarla. Ma lei non voleva tornare in Calabria. All’amica Emanuela Gentile – l’otto agosto, due settimane prima di morire, e qualche giorno prima di fare rientro a Rosarno – dirà le seguenti parole: “io mi spavento a ritornare Emanuela. Tu lo sai che questi fatti non te li perdonano? Loro lo fanno apposta per farmi tornare, hai capito? Li sappiamo queste cose come vanno nelle famiglie nostre no? Almeno nella mia famiglia. Io mi spavento troppo a ritornare”. Maria Concetta aveva paura, sapeva che poteva accaderle qualcosa di tremendo. Le confidenze fatte all’amica hanno sicuramente contribuito a formare il convincimento dei giudici di secondo grado che, come quelli dell’Assise di Palmi, ritengono provato che Maria Concetta in Calabria non volesse ritornare a Rosarno e che avesse paura per la sua vita. “Emerge il timore che Maria Concetta nutriva nei confronti della sua stessa famiglia, in particolare del fratello Giuseppe. E poi è la stessa Maria Concetta Cacciola ad interrogarsi, chiedendosi se avesse senso tornare a casa dai suoi figli per vivere al massimo un altro anno e mezzo. Ex post deve prendersi atto che la prognosi di Maria Concetta era stata profetica, ma troppo ottimistica sui tempi di sopravvivenza poiché appena 15 giorni dopo, e non un anno e mezzo, era stata rinvenuta cadavere”.
L’incrinatura di una costola e i maltrattamenti
Durante il suo percorso di collaborazione Maria Concetta Cacciola aveva riferito ai Carabineri che nel mese di giugno del 2010, dopo l’arrivo a casa delle lettere anonime riguardanti la presunta relazione extraconiugale, il padre e il fratello l’avevano malmenata, provocandole la frattura di una costola. I familiari, scrivono i giudici, non l’avevano portata in ospedale né l’avevano sottoposta ad esami radiologici. L’avevano fatta visitare privatamente da un medico, amico di famiglia, tale Michele Ceravolo, che non aveva prodotto alcun referto e l’avevano tenuta a casa per tutta la durata della degenza. Questo medico, sentito durante il giudizio di primo grado, aveva però negato di aver mai curato Maria Concetta Cacciola. “Il dottore Ceravolo, scrivono i giudici d’Appello, ha negato di aver prestato soccorso alla donna, però la vacuità delle spiegazioni rese sui rapporti con la famiglia Cacciola è di tale evidenza che a ben ragione sono stati trasmessi gli atti al pm, così come per tutti gli altri familiari che sentiti in dibattimento, hanno anche su questi, ma anche su altri, aspetti negato. Le risultanze processuali hanno consegnato tutta la sofferenza, le privazioni e lo stato di umiliazione in cui Maria Concetta Cacciola versava a causa delle imposizioni dei familiari. Le veniva imposto inoltre, di continuare un matrimonio nel quale l’affectio coniugalis era venuta meno. Quando la donna aveva confidato al padre i dissidi coniugali, sfociati anche in un episodio in cui, nel corso di una lite, il marito le aveva puntato contro una pistola, Michele Cacciola le aveva risposto: «questo è il tuo matrimonio, te lo tieni per tutta la vita, questo è tuo marito te lo devi tenere». La famiglia dunque, non solo vigilava sul comportamento di Maria Concetta, ma le aveva imposto regole di comportamento limitative della sua libertà personale: uscire solo per accompagnare i figli a scuola e/o per sbrigare commissioni”. Sui maltrattamenti inferti da Michele Cacciola la Corte ha messo in evidenza un’intercettazione avvenuta nel carcere di Larino quando il figlio della donna, Alfonso, era a colloquio con il padre detenuto Salvatore Figliuzzi, un mese e mezzo dopo la morte della madre. Il figlio infatti riferiva al padre che: ”non la facevano uscire negli ultimi due, tre mesi” e alla domanda del padre se qualcuno la picchiava, il ragazzo riferiva: ”il nonno, per spavalderia, è un pagliaccio di merda. Lo vedi il Signore l’ha castigato. Lui prima faceva tutto lo spavaldo, il prepotente, fino al limite della gelosia, non la faceva uscire neanche con la macchina. I Carabinieri hanno fatto la loro parte, ma la causa principale è stato lui”. Parole durissime quelle scritte dalla Corte d’Assise d’Appello reggina soprattutto sulle posizioni di Michele e Giuseppe Cacciola. Per la madre, Anna Rosalba Lazzaro, i giudici, comunque, pur riconoscendone le responsabilità, ritagliano il ruolo di mediatrice dei valori imposti; a lei spettava, infatti, il compito di permearla dei “valori” selezionati e imposti dalla componente maschile della famiglia e rispetto alla quale la Lazzaro aveva un ruolo servente, quasi ancillare. Le due donne erano accomunante da una consapevolezza: in quanto donne erano assoggettate entrambe alla determinazioni maschili. Due destini simili quindi quelli di madre e figlia, entrambe si dovevano piegare alle volontà dei propri uomini. Entrambe dovevano fare i conti con regole e codici. Entrambe hanno pagato per queste regole. La Lazzaro privata della libertà personale, Maria Concetta Cacciola della vita.