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matteo renzi

Vi ricordate i “mille asili in mille giorni” promessi da Renzi? Ecco, zero.

Ne scrive il direttore de Linkiesta (e uno dei miei tanti direttori) Francesco Cancellato. Non proprio un comunista, eh:

Mille nidi in mille giorni. In un Paese messo male com’era l’Italia, con disoccupazione alle stelle, conti pubblici da panico, banche moribonde, una giustizia più lenta di un bradipo, una pubblica amministrazione specializzata nel mettere i bastoni tra le ruote a cittadini e imprese, una pressione fiscale da record, forse era l’ultimo problema verso cui puntare il dito. Forse è l’ultima cosa per cui prendersela

Eppure era importante, quella promessa che Matteo Renzi fece più o meno mille giorni fa. Era il 1 settembre del 2014 e quella era la conferenza stampa di ripartenza del governo, dopo i mesi estivi. E l’idea era ambiziosa e meritoria. Il tasso di copertura dei posti era allora fermo al 18%, contro il 33% (minimo) che chiedeva l’Europa. Ma non era solo una questione di regole europee. Più posti al nido, vuol dire più donne che possono cercare lavoro. Vuol dire redditi famigliari che crescono, consumi che ripartono, magari pure qualche figlio in più, che nell’asfissia demografica che soffoca l’Italia male non farebbe.

Doveva essere un fiore all’occhiello dell’azione governativa, insomma. Un modo – uno dei tanti, insieme alla banda larga, tanto per dirne un’altra – per far ripartire un Paese che soffriva di mal di futuro, costantemente proteso alla difesa dell’esistente, delle proprie rendite e dei propri privilegi. In fondo, il senso della sfida di Renzi se non tutto lì, stava soprattutto lì.

 

Allo stesso modo, però, sta lì pure il senso della sua sconfitta. Certo, il piano – giusto, utile, meritorio – per costruire un sistema educativo integrato dagli zero ai sei anni è partito e, a tendere, gli asili nidi smetteranno di essere un servizio assistenziale e diventeranno un servizio educativo. Tuttavia, spiace dirlo, di mille asili in mille giorni non c’è traccia. Anzi, le cronache raccontano di strutture chiuse e – come racconta l’inchiesta di Rita Querzé sul Corriere della Sera di lunedì 10 luglio – di posti che coprono solo il 70% del fabbisogno. Di un tasso di copertura che in tre anni, anziché crescere di quindici punti è aumentato solamente di tre, dal 18% al 21%, una crescita dovuta in parte alla diminuzione delle nascite, non all’aumento dei posti. E ancora: di rette in crescita che arrivano a costare anche 6-700 euro a famiglia. E di un divario tra Nord e Sud in aumento, anziché in diminuzione, anche a causa della progressiva chiusura delle classi primavera nelle scuole dell’infanzia, quelle in grado di accogliere in anticipo i bambini dai 24 ai 36 mesi.

(continua qui)

Riecco Briatore: «L’unica ricetta è il Renzusconi. O diventeremo un paese di serie B»

Se dovesse scegliere lui, proporrebbe il “Renzusconi”. Flavio Briatore, in un’intervista al Fatto Quotidiano, racconta la sua visione di Italia futura e di governo in cui racconta di sognare un Belpaese con Berlusconi presidente e Renzi al suo fianco.

Il presidente è un grande, e Matteo ha un piglio che pochi possono vantare. Vedo bene una loro società.

Una Srl, una SpA?

Italia SpA. Presidente Berlusconi, Amministratore delegato Renzi. Non ce n’è per nessuno.

Un manager operativo e un presidente di fortissimo carisma.

Silvio ritorna sempre. È intramontabile.

Briatore consulente.

La burocrazia massacra. Vai al governo e ti perdi nei commi e nei codicilli. Non si può continuare così. L’Italia sta arretrando, sta divenendo un paese di serie B, nessuno ci fila più.

Briatore consulente del governo Renzusconi.

Tre cose fondamentali. Abbassare il costo del lavoro, azzopparlo, spianarlo.

Governo di rottura.

Un dipendente che guadagna 2.500 euro mi deve costare al massimo 3.000 euro. Prima riforma da fare immediatamente.

Seconda riforma.

Flat tax. Stessa tassa uguale per tutti.

Salvini la pensa così. Sei ricco o povero, è uguale.

Il 28 per cento pago io e il 28 per cento paghi tu.

Al Fatto, parlando del suo futuro e quello del governo, Briatore chiosa sostenendo che il Renzusconi è “L’unica possibilità, l’ultima per l’Italia. Mi piace l’uno e mi piace l’altro. Il vecchio e il giovane. Due vincenti”

(fonte)

Ecco come Renzi li ha “aiutati a casa loro”: sestuplicando l’export degli armamenti

Per fortuna c’è Giorgio Beretta a rimettere in ordine le date e i numeri. Ecco qui:

Lo sa, ma non lo dice in pubblico. E la notizia non compare né sul suo sito personale, né sul portale “Passo dopo passo” e nemmeno tra “I risultati che contano” messi in bella mostra con tanto di infografiche da “Italia in cammino”. Eppure è stata la miglior performance del suo governo. Nei 1024 giorni di permanenza a Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha raggiunto un primato storico di cui però, stranamente, non parla: ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti. Dal giorno del giuramento (22 febbraio 2014) alla consegna del campanellino al successore (12 dicembre 2016), l’esecutivo Renzi ha infatti portato le licenze per esportazioni di sistemi militari da poco più di 2,1 miliardi ad oltre 14,6 miliardi di euro: l’incremento è del 581% che significa, in parole semplici, che l’ammontare è appunto più che sestuplicato. Una vera manna per l’industria militare nazionale, capeggiata dai colossi a controllo statale Finmeccanica-Leonardo e Fincantieri. E’ tutto da verificare, invece, se le autorizzazioni rilasciate siano conformi ai dettami della legge n. 185 del 1990 e, soprattutto, se davvero servano alla sicurezza internazionale e del nostro paese.

Renzi e il motto di Baden Powell

Un fatto è certo: è un record storico dai tempi della nascita della Repubblica. Ma, visto il totale silenzio, il primato sembra imbarazzare non poco il capo scout di Rignano sull’Arno che ama presentarsi ricordando il motto di Baden Powell: “Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato”. L’imbarazzo è comprensibile: la stragrande maggioranza degli armamenti non è stata destinata ai paesi amici e alleati dell’UE e della Nato (nel 2016 a questi paesi ne sono stati inviati solo per 5,4 miliardi di euro pari al 36,9%), bensì ai paesi nelle aree di maggior tensione del mondo, il Nord Africa e il Medio Oriente. E’ in questa zona – che pullula di dittatori, regimi autoritari, monarchi assoluti sostenitori diretti o indiretti del jihadismo oltre che di tiranni di ogni specie e risma – che nel 2016 il governo Renzi ha autorizzato forniture militari per oltre 8,6 miliardi di euro, pari al 58,8% del totale. Anche questo è un altro record, ma pochi se ne sono accorti.

Il basso profilo della sottosegretaria Boschi

Eppure non sono cifre segrete. Sono tutte scritte, nero su bianco e con tanto di grafici a colori, nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2016” inviata alle Camere lo scorso 18 aprile. L’ha trasmessa l’ex ministra delle Riforme e attuale Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Maria Elena Boschi. Nella relazione di sua competenza l’ex catechista e Papa girlsi è premurata di segnalare che “sul valore delle esportazioni e sulla posizione del Kuwait come primo partner, incide una licenza di 7,3 miliardi di euro per la fornitura di 28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione Eurofighter Typhoon realizzati in Italia”.  Al resto – cioè ai sistemi militari invitati in 82 paesi del mondo tra cui soprattutto quelli spediti in Medio Oriente – la Sottosegretaria ha riservato solo un laconico commento: “Si è pertanto ulteriormente consolidata la ripresa del settore della Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del triennio 2011-2013”. La legge n. 185 del 1990, che regolamenta la materia, stabilisce che l’esportazione e i trasferimenti di materiale di armamento “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”: autorizzare l’esportazione di sistemi militari a paesi al di fuori delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia meriterebbe pertanto qualche spiegazione in più da parte di chi, durante il governo Renzi e oggi col governo Gentiloni, ha avuto la delega al programma di governo.

I meriti della ministra Pinotti

Non c’è dubbio, però, che gran parte del merito per il boom di esportazioni sia della ministra della Difesa, Roberta Pinotti. E’ alla “sorella scout”, titolare di Palazzo Baracchini, che va attribuito il riconoscimento di aver consolidato i rapporti con i ministeri della Difesa, soprattutto dei paesi mediorientali. La relazione del governo non glielo riconosce apertamente, ma la principale azienda del settore, Finmeccanica-Leonardo, non ha mancato di sottolinearne il ruolo decisivo. Soprattutto nella commessa dei già citati 28 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon: “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” – commentava l’allora Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica, Mauro Moretti. “Il contratto con il Kuwait si inserisce in un’ampia e consolidata partnership tra i Ministeri della Difesa italiano e del Paese del Golfo” – aggiungeva il comunicato ufficiale di Finmeccanica-Leonardo. Alla firma non poteva quindi mancare la ministra, nonostante i slittamenti della data dovuti – secondo fonti ben informate – alle richieste di chiarimenti circa i costi relativi “a supporto tecnico, addestramento, pezzi di ricambio e la realizzazione di infrastrutture”.

Anche il Ministero della Difesa ha posto grande enfasi sui “rapporti consolidati” tra Italia e Kuwait: rapporti – spiegava il comunicato della Difesa“che potranno essere ulteriormente rafforzati, anche alla luce dell’impegno comune a tutela della stabilità e della sicurezza nell’area mediorientale, dove il Kuwait occupa un ruolo centrale”. Nessuna parola, invece, sul ruolo del Kuwait nel conflitto in Yemen, in cui è attivamente impegnato con 15 caccia, insieme alla coalizione a guida saudita che nel marzo del 2015 è intervenuta militarmente in Yemen senza alcun mandato internazionale. I meriti della ministra Pinotti nel sostegno all’export di sistemi militari non si limitano ai caccia al Kuwait: va ricordato anche l’accordo di cooperazione militare con Qatar per la fornitura da parte di Fincantieri di sette unità navali dotate di missili MBDA per un valore totale di 5 miliardi di euro, che però non compare nella Relazione governativa. Ma, soprattutto, non va dimenticata la visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita per promuovere “affari navali”: ne ho parlato qualche mese fa e rimando in proposito ai miei precedenti articoli.

Le dichiarazioni dell’ex ministro Gentiloni

Una menzione particolare spetta all’ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. E’ lui, ex catechista ed ex sostenitore della sinistra extraparlamentare, che più di tutti si è speso in difesa delle esportazioni di sistemi militari. Lo ha fatto nella sede istituzionale preposta: alla Camera in riposta a due “Question Time”. Il primo risale al 26 novembre 2015, in riposta ad un’interrogazione del M5S, durante la quale il titolare della Farnesina, dopo aver ricordato che “… abbiamo delle Forze armate, abbiamo un’industria della Difesa moderna che ha rapporti di scambio e esportazioni con molti paesi del mondo…” ha voluto evidenziare che “è importante ribadire che l’Italia comunque rispetta, ovviamente, le leggi del nostro paese, le regole dell’Unione europea e quelle internazionali (pausa) sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi d’arma vietati”. Già, ma la legge 185/1990 e le “regole Ue e internazionali” non si limitano agli embarghi, anzi pongono una serie di specifici divieti sui quali Gentiloni ha bellamente sorvolato.

Nel secondo, del 26 ottobre 2016, in risposta ad un’interrogazione del M5S che riguardava nello specifico le esportazioni di bombe e materiali bellici all’Arabia Saudita e il loro impiego nel conflitto in Yemen, Gentiloni ha sostenuto che “l’Arabia Saudita non è oggetto di alcuna forma di embargo, sanzione o restrizione internazionale nel settore delle vendite di armamenti”. Tacendo però sulla Risoluzione del Parlamento europeo, votata ad ampia maggioranza già nel febbraio del 2016, che ha invitato l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, ad avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”, in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Questa risoluzione, finora, è rimasta inattuata anche per la mancanza di sostegno da parte del Governo italiano.

Ventimila bombe da sganciare in Yemen

Rispondendo alla suddetta interrogazione, Gentiloni ha però dovuto riconoscere le “la ditta RWM Italia, facente parte di un gruppo tedesco, ha esportato in Arabia Saudita in forza di licenze rilasciate in base alla normativa vigente”. Un’assunzione, seppur indiretta, di responsabilità da parte del ministro. Il quale, nonostante i vari organismi delle Nazioni Unite e lo stesso Ban Ki-moon abbiano a più riprese condannato i bombardamenti della coalizione saudita sulle aree abitate da civili in Yemen (sono più di 10mila i morti tra i civili), ha continuato ad autorizzare le forniture belliche a Riad. E non vi è notizia che le abbia sospese, nemmeno dopo che uno specifico rapporto trasmesso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non solo ha dimostrato l’utilizzo anche delle bombe della RWM Italia sulle aree civili in Yemen, ma ha affermato che questi bombardamenti “may amount to war crimes” (“possono costituire crimini di guerra”).

Nella Relazione inviata al Parlamento spiccano le autorizzazioni all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 427 milioni di euro. Tra queste figurano “bombe, razzi, esplosivi e apparecchi per la direzione del tiro” e altro materiale bellico. La relazione non indica, invece, il paese destinatario delle autorizzazioni rilasciate alle aziende, ma l’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette di affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita: si tratta, nello specifico, dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Una conferma in questo senso è contenuta nella Relazione Finanziaria della Rheinmetall (l’azienda tedesca di cui fa parte RWM Italia) che per l’anno 2016 segnala un ordine “molto significativo” di “munizioni” per 411 milioni di euro da un “cliente della regione MENA” (Medio-Oriente e Nord Africa).

La legge n. 185/1990 vieta espressamente l’esportazione di sistemi militari “verso Paesi in conflitto armato e la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11 della Costituzione”, ma – su questo punto – nessun commento nella Relazione. E nemmeno da Renzi. Men che meno da Gentiloni. Che l’attuale capo del governo si sia dato come obiettivo quello di migliorare la performance di Renzi nell’esportare sistemi militari?

(fonte)

«Un dibattito indegno»: Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio

“Esseri umani. Bisognerebbe parlare con altri toni del tema migranti, invece di utilizzare quelli della politica politichese, ma purtroppo non è così in nessun Paese europeo”. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, è stato ministro per la cooperazione e l’integrazione nel biennio del governo Monti, 2011-2013. “Da quel momento, almeno in termini di fondi a disposizione, la cooperazione ha avuto una svolta, non lo dico per vantarmi”.
“È un’invasione”, strepita una certa politica, e adesso addirittura “aiutiamoli a casa loro”, scrive l’ex premier Matteo Renzi…
Non è un’invasione. Per altro il nostro Paese ha un deficit demografico serio. Altri Stati, come l’Ungheria che alza i muri nel 2025 saranno abitati soltanto da vecchi. Anche se siamo di fronte a un’emergenza reale, quella degli sbarchi, non bisogna neppure dimenticare che il problema percepito è più grande di quello reale. Detto questo, non commento un libro che non ho letto.

Resta quella frase: aiutiamoli a casa loro, non evoca il peggiore leghismo?
Aiutarli a casa loro: è un grande tema, vede. L’illusione è quella che si possa fermare sul bordo del Mediterraneo lo spostamento delle popolazioni. I muri o i blocchi sono scelte semplicistiche. D’altra parte il dibattito che ho sentito l’altro giorno al Senato è stato indegno.

Un mese fa Sant’Egidio ha ospitato l’accordo per il cessate il fuoco in Centrafrica e il patto per una roadmap di pacificazione. Questo è aiutarli a casa loro?
Sant’Egidio fa vivere un’importante rete di cooperazione internazionale. La pacificazione è fondamentale. Gli Stati europei investono più su muri e blocchi.

Chiudere i porti sarebbe una fesseria?
Certo tutta l’Africa non può rifugiarsi in Europa. I giovani in Guinea e Costa d’Avorio non hanno più fiducia in un futuro nel loro Paese. Chiudere i porti non serve a niente, ma l’altro aspetto del problema è che non ho mai visto un presidente africano venire a Lampedusa ad inchinarsi di fronte alla sua gente che fugge o ai suoi cadaveri in mare. Servirebbe un piano Marshall per l’Africa.

Quindi non è soltanto colpa dell’Europa?
Premesso che sono orgoglioso dell’impegno italiano nelle operazioni di salvataggio in mare, ma è sbagliato il vittimismo che mostriamo nei confrontidel l’Europa. Anche perché il problema non è Bruxelles che fa quello che può. Ma i singoli governi dei nostri Staterelli alla deriva, incapaci di trovare un’intesa per una politica comune in tema di sicurezza, difesa e integrazione.

In particolare a chi si riferisce?
Quasi a tutti, la Francia non vuole responsabilità, il blocco dell’Est con l’intesa dei tre mari stravolge l’idea stessa di Europa. Poi ci sono degli errori che ancora ci portiamo dietro, devastanti.

Ad esempio?
La follia della guerra in Libia. Ha destabilizzato l’area. Oggi serve una visione Eurafricana, investire nei fragili Paesi del Sahel, il bordo del Sahara. Ma i governi degli Stati d’Europa non sembrano interessati davvero ad impegnarsi davvero, altro che aiutiamoli a casa loro. Eppure è indispensabile, dobbiamo prepararci all’integrazione, non alzare altri muri che prima o poi crolleranno comunque.
(il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2017)

Bulli e dritti verso lo schianto

Insomma. L’altro ieri sera il Partito Democratico decide (non erano passate nemmeno 24 ore dalla batosta elettorale in cui il “nuovo” Renzi ha “non vinto” come il “vecchio” Bersani) di pubblicare una foto sui propri social. Questa:

Una foto che, nella torbida simpatia di Orfini che ha firmato il post, avrebbe dovuto farci sorridere per l’infantile trucchetto del “vecchio” come “ridicolo”. E fa niente che al simpatico tavolo perculato da Orfini ci siano anche due persone che non ci sono più (Marco Pannella e Padoa Schioppa): a Orfini diverte così tanto fare il bullo nascosto nelle mutande di Renzi che alla fine ci scrive sotto anche “Condividiamo!”. Lo vuole fare sapere a tutti. Insomma.

«A parte che Padoa Schioppa e Pannella sono morti…è un post di pessimo gusto, vista anche la figura che abbiamo fatto meno di 24h fa…» commenta Benedetta; «Ah, ma non è Matteo Renzi News…
Ma quando avete fatto questo post, vi siete resi conto che lì in mezzo, oltre ad esserci l’anima storica di questo partito, c’è anche il nostro attuale Premier?», scrive Daniel; «Ma la finiamo di fare ste cose?
Ma l’analisi sarebbe questa? Ste cose da trolloni a chi cacchio giovano? Perché se me lo spiegate magari da comunicatore capisco. Dai, basta»., scrive Samuele; «Ma è il titolista di Libero che vi fa da da social media manager? O avete affittato quello di Salvini? Vergognosi, provo imbarazzo ad aver rifatto la tessera l’anno scorso, ma adesso basta», si arrabbia David; «Il mio è un appello da semplice iscritto disperato: cambiate i toni, cambiate i modi», dice Matteo; «Da iscritto PD vi chiedo: state bene? Dentro a questa lista c’è, tra gli altri, l’attuale premier Gentiloni (che il PD mi pare sostenga)», aggiunge Stefano. E avanti così. Migliaia di commenti disgustati. Attenzione: di iscritti del PD.

Poi, ieri, anche Romano Prodi perde la pazienza (Prodi, eh) e all’ennesimo calcio di Renzi decide di rispondere: «Leggo che il segretario del Partito democratico mi invita a spostare un po’ più lontano la tenda. Lo farò senza difficoltà: la mia tenda è molto leggera. Intanto l’ho messa nello zaino», dice l’ex presidente del consiglio. Evvai.

Poche ore prima, su Repubblica Walter Veltroni aveva certificato, in modo asciutto e pacato, quella che in altri tempi si sarebbe chiamata mutazione genetica, rispetto al dna con il Pd nacque dieci anni fa al Lingotto: «Il partito non ha più identità».

Critiche che, del resto, sia Cuperlo che Orlando e Emiliano lanciano da tempo. Ma sono “nemici interni”, come li chiamano loro. Quindi lasciamoli stare. Andiamo avanti.

Imbarazzatissimo anche Graziano Delrio: «Le tende si mettono nello zainetto, ma si possono anche ritirare fuori…», prova a balbettare.

«Serve calma e responsabilità per il ruolo che il Partito ha nei confronti degli elettori. Ripeto serve calma e responsabilità rispetto a esasperazioni che non servono», dice il tiepido Lorenzo Guerini, esperto di bolliture a fuoco lento, pompiere come massima inclinazione.

Poi arriva il siluro del ministro Dario Franceschini che pubblica in un tweet i deludenti dati delle amministrative e commenta: «Bastano questi numeri per capire che qualcosa non ha funzionato? Il Pd è nato per unire il campo del centrosinistra non per dividerlo».

Intanto ieri in provincia di Lecce nel PD hanno salutato 104 tra sindaci, assessori, consiglieri comunali e quadri. Tutti pronti a migrare dal Partito Democratico ad Articolo 1-Mdp.

Avanti. Bulletti. Verso il dirupo.

Buon mercoledì.

(continua su Left)

Consip: ci pensa il cda a fare quello che non è riuscito a fare Renzi

“Hanno deciso di farmi fuori. Io che in questa vicenda sono l’unico non indagato”. Luigi Marroni l’aveva capito venerdì, alla presentazione della mozione Pd che chiedeva l’azzeramento dei vertici Consip, ma forse non pensava che la questione si sarebbe risolta automaticamente nel giro di 24 ore. Si sono dimessi i consiglieri del Tesoro nel consiglio di amministrazione: il presidente Luigi Ferrara e la consigliera Marialaura Ferrigno. Di conseguenza, essendo formato da tre componenti (l’altro è appunto l’ad) decade l’intero board della società controllata dal Mef al centro dello scandalo che vede indagato, tra gli altri, il ministro dello Sport Luca Lotti. Marroni, accerchiato dai partiti e annientato dai colleghi, resta in carica con il solo compito di convocare, entro otto giorni, l’assemblea dei soci che dovrà nominare il nuovo cda. E’ dunque questa la “soluzione” al caso Consip, al centro di un fitto lavorio nelle ultime ore mentre per martedì era stata messa in calendario al Senato la discussione sulle mozioni, compresa quella del Pd che avrebbe chiesto l’azzeramento dei vertici.

La decisione dei due consiglieri, di fatto, si rivela un provvidenziale favore al Pd che si è trovato a rincorrere l’opposizione nella richiesta di rimuovere i vertici “in tempi celeri” e che a questo punto potrà evitare l’imbarazzante prova dell’aula. Il gruppo dem a Palazzo Madama ha firmato venerdì una mozione-fotocopia di quella presentata a marzo dai senatori di Idea Augello e Quagliariello cui sono arrivate ben 73 sottoscrizioni provenienti praticamente da tutti i gruppi parlamentari: Forza Italia, Lega, M5s, Gal, Ala, Alternativa Popolare, gruppo per le Autonomie, gruppo Misto. Mancava giusto il Partito Democratico che, per evitare la trappola della mozione, aveva depositato la propria al fine di neutralizzare quelle altrui. Ma la maggioranza risicata al Senato non escludeva affato il rischio di andare allo scontro parlamentare e di finire sotto, con conseguenti, prevedibili, polemiche.

Così a togliere le castagne dal fuoco al segretario del Pd Matteo Renzi– il cui padre Tiziano è indagato dallo scorso febbraio – ci hanno pensato gli altri due consiglieri chiamandosi fuori: con l’addio di due membri su tre decade l’intero consiglio di amministrazione e l’oggetto del contendere. Le dimissioni non cancellano ovviamente lo scontro politico cresciuto intorno alla società dopo l’emergere dell’inchiesta sulle pressioni intorno al maxi-appalto da 2,7 miliardi per il Facility management, vale a dire la gestione e la manutenzione, degli immobili pubblici.

In questa inchiesta Marroni è stato sentito più volte come testimone, diventando il “grande accusatore” del ministro dello Sport Luca Lotti sulla rivelazione del segreto d’ufficio. Lotti, indagato insieme al generale dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia, ha sempre respinto ogni addebito. Ad aggravare l’intreccio è intervenuto poi il caso-Scafarto, il vicecomandante del Noe che ha seguito l’inchiesta della Procura di Napoli ed è ora indagato per depistaggio con l’accusa di falsi nell’informativa sui presunti incontri tra l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo e Tiziano Renzi.

(fonte)

Staino racconta la verità su l’Unità. E no, non è quella di Renzi.

Ecco cosa scrive Staino, direttore de l’Unità:

LETTERA APERTA A MATTEO RENZI

Sono rimasto profondamente colpito, sfavorevolmente, dalla risposta data da Matteo Renzi alle domanda a lui posta da Massimo Giannini sulla situazione de l’Unità. In pratica il nostro Segretario se l’è cavata spiegando che l’Unità ormai è in mano a privati e che questa scelta di consegnarla in mano a privati non è stata fatta da lui ma da segretari precedenti, per cui tanta solidarietà e comprensione umana per i dipendenti ma che si rivolgano a qualcun altro perché lui non c’entra, arrivederci e grazie. Ho riascoltato quattro volte sul sito di Repubblica questa sua tranquilla e allucinante logica per la quale la riapertura de l’Unità era stata frutto di una iniziativa totalmente privata. Naturalmente ho scritto subito un sms sia a lui che al Vicesegretario Martina chiedendo spiegazioni e proponendo per l’ennesima volta un incontro per discutere insieme delle possibilità superstiti per il salvataggio del giornale. Come ormai capita da mesi, silenzio assoluto.

In altri tempi, a questo punto, avrei sicuramente scritto una lettera ufficiale come Direttore de l’Unità al nostro Segretario, inviandola attraverso i canali istituzionali del partito. Oggi i tempi sono cambiati e di luoghi istituzionali del partito, grazie al disinteressamento continuo dello stesso Renzi, non esiste in pratica più nulla. Non mi resta quindi che affidare questa mia lettera ai canali informativi più tradizionali, non certo affascinanti come quelli del partito, ma sicuramente più efficaci.

Quel che ha risposto Renzi a Giannini è una sonora bugia o, se vogliamo usare termini più amati dal nostro Segretario, una vera e propria fake news. E’ vero che non è stato Matteo il primo Segretario che ha chiesto l’intervento privato nella società proprietaria de l’Unità ma non è vero che lui non abbia la piena responsabilità della nascita e della formazione dell’attuale società proprietaria Unità srl.

L’idea di investire su l’Unità non partì certo dai proprietari della Pessina Costruzioni che invece aderirono al progetto solo dopo le pressanti richieste dello stesso Renzi. Lui, e solo lui, Matteo Renzi, si era speso nei giorni del fallimento della NIE nell’estate del 2014, in una solenne promessa di riaprire l’Unità al più presto. Conservo un sms del 29 luglio 2014 inviatomi da Matteo nel quale, tranquillizzandomi sulla triste sorte de l’Unità, affermava: “Io la tengo aperta. Fosse anche l’ultima cosa che faccio”.

In questo caso mantenne la promessa e dopo aver rifiutato possibili finanziatori sgraditi perché in odore dalemiano e altri impossibilitati a partecipare per imbarazzanti vicende giudiziarie, scelse di puntare su Massimo Pessina e Guido Stefanelli. I due naturalmente non sapevano un bel nulla di editoria, né avevano mai pensato che in vita loro si sarebbero dovuti interessare di questo difficile e particolare settore produttivo. Matteo però li blandì con mille promesse. Loro rischiavano grosso, per cominciare una bella somma (si parla di 10 milioni di euro) come fideiussione sul fallimento della NIE che permettesse loro di utilizzare il marchio “Unità”, e altri milioni per rimettere in piedi organizzativamente la vita del giornale. Non dovevano preoccuparsi, diceva loro Matteo, tutti quei soldi sarebbero stati ben presto rimborsati dal partito; in più il partito avrebbe assicurato loro un buon guadagno, in particolare dalla capillare diffusione del giornale. Subito dai 10 000 ai 30 000 abbonamenti annui raccolti tra i dirigenti, tra gli eletti e dai tanti circoli sparsi in tutta Italia. E poi, naturalmente, iniziative, interviste, forum, qualunque cosa che potesse servire a far conoscere e diffondere il giornale. I due si sono fidati, vogliamo fargliene una colpa?

Come garanzia di tutto questo il PD entrava nella nuova società con il 20% delle quote (quote che ancora conserva) e con una “golden share” che permetteva al Segretario di scegliere gli organi dirigenti del giornale e l’ingresso di nuovi soci. Grazie a questi accordi Matto Renzi in prima persona ha scelto i vari direttori del giornale, da Cuperlo che non volle accettare, a D’Angelis, fino al sottoscritto. Ma per il resto, per tutti gli impegni presi come aiuto oggettivo e soggettivo alla crescita del giornale, niente è stato realizzato. Dei 30 000 abbonamenti promessi, al mio arrivo al giornale ne ho trovati solo 400 (non mila, proprio quattrocento). Non parliamo poi del resto: mai un’intervista al giornale, mai un incontro politico di discussione, mai un forum e perfino messi fuori i diffusori del giornale dalle riunioni della Leopolda.

E ancora oggi la situazione è la stessa: la società proprietaria divisa fra l’80% a Pessina e Stefanelli e il 20% alla società EYU, diretta emanazione del PD e quindi di Renzi; sito de l’Unità totalmente in mano al PD e non controllato dal direttore de l’Unità. Si può quindi parlare di estraneità del PD e del suo Segretario dalle vicende politiche, culturali e finanziarie del nostro giornale? Certamente no.

So benissimo che le difficoltà attuali del giornale vengono da lontano e che dipendono in larga misura anche dalla gestione che è stata fatta di questo nostro foglio negli ultimi 20 o 30 anni, ma questa eredità del passato non può servire assolutamente a giustificare la superficialità con cui sono state trattate la riapertura e la gestione attuale del giornale. Di tutto questo disagio, proprio per il suo ruolo, Matteo Renzi è il primo dei responsabili.

Lui ovviamente non vuole ammettere questo e ricorre alla più misera delle opzioni umane: la bugia. Di fronte a questo ho un tal senso di disgusto che devo stare molto attento a come continuare questa lettera. Dirò quindi solo una cosa, dirò che negli Stati Uniti, democrazia che il nostro Renzi ama molto, presidenti eletti a furor di popolo, per una bugia sono stati costretti a dimettersi.

Sergio Staino, Direttore de l’Unità

Venghino! Come andrà in scena il prossimo renzismo

Alessandro Robecchi da leggere:

La parrucca canuta e la barba finta sono già state consegnate a Ringnano sull’Arno, pronte per l’uso. Nel caso clamoroso che Jeremy Corbyn riesca nell’impresa di vincere le elezioni inglesi, Matteo Renzi è pronto a trasformarsi nel Corbyn italiano, dopo essere stato il Valls italiano, l’Obama italiano, il Marcon italiano e altro ancora. Già si affacciano timidamente su twitter i primi segnali della nuova trasformazione, per ora soltanto sottoforma di esternazioni “simpatiche” di portavoce ed esperti di comunicazione (!). Non che stupisca la coerenza ad assetto variabile: sono passati solo due anni (elezioni inglesi del 2015) da quando gli stessi strateghi renzisti spiegavano la sconfitta del timidissimo e conservatorissimo candidato Labour Miliband con un esilarante: “ha perso perché troppo di sinistra”. Ora che Corbyn (che è di sinistra davvero) rischia di vincere, o comunque di prendere più voti del suo predecessore, ecco in rampa di lancio il nuovo travestimento. Il vocabolario politico andrebbe aggiornato: più che trasformismo, qui si tratta di applicare la dottrina Fregoli: più cambi d’abito in pochi minuti.

Dai vapori delle strategie elettorali che scaldano i motori comincia a distinguersi un vecchio, caro ritornello, una cosa che si è conficcata nelle orecchie degli italiani come quelle canzoncine pop che ci allietano l’estate e che fischiettiamo anche se ci sembra di non averle mai ascoltate davvero. Insomma, ecco che s’avanza la solita tiritera del “voto utile”, dove “utile” si può tradurre che bisogna darlo al Pd.

Più la pattuglia alla sinistra di Renzi (non che sia difficile stare alla sinistra di Renzi, eh!) si avvicinerà minacciosa alla soglia del 5 per cento, più i toni si faranno suadenti, disponibili, accomodanti. In pratica, se il Pd renzizzato si renderà conto che può avere un’emorragia di voti a sinistra, più il blogger di Rignano dovrà organizzare uno dei suoi travestimenti più arditi: fingersi di sinistra pure lui, addirittura lui. Non so se TiketOne vende già i biglietti, ma ne voglio un paio di prima fila, perché lo spettacolo sarà imperdibile.

Fin’ora la strategia semantica della cordata che ha conquistato il Pd è stata abbastanza semplice: vendere come “di sinistra” provvedimenti ultraliberisti e cancellazione di diritti. Un gioco di prestigio che ha funzionato soltanto per qualche mese e poi si è sciolto come un gelato nell’altoforno: prima qualche elettore, poi molti, poi un paio di milioni, si sono accorti che scrivere la legge sul lavoro insieme a Confindustria e andare in giro a dire che si tratta di una legge di sinistra era una discreta presa per il culo. Che abbracciare il “modello Marchionne” non era proprio una cosa geniale. Che farsi periodicamente salvare da Verdini non era esattamente nel dettato teorico gramsciano. Che cancellare la tassa sulla prima casa anche ai cumenda con villa di diversi ettari non era precisamente una lotta alle diseguaglianze.

Ora si apre un periodo, assai divertente, di bastone e carota. La linea è già tracciata: da un lato screditare l’avversario (definire “sinistra radicale” una formazione che ha come riferimento Pisapia è semplicemente ridicolo), dall’altra gettare brioches al popolo, fingersi dialoganti, archiviare il vecchio arrogantissimo (e scemo) “ciaone” per sfoderare un grottesco “compagni, parliamone”. Insomma, quello che da anni si allea con Berlusconi, che concorda con lui fallimentari riforme, che inventa con lui leggi elettorali incostituzionali, verrà a spiegarci che è colpa della sinistra se alla fine farà un governo con Berlusconi. Per cui consiglio di preparare i fazzoletti: il “Renzi-torna-di-sinistra-show” sarà uno spettacolo circense di grande presa, più dell’uomo cannone, più della donna barbuta, più delle magliette gialle al terremoto. Venghino, venghino, portate i pop-corn.

La vacuità del renzismo spiegata con le figure (2)

La prima. Il direttore de l’Unità Sergio Staino disegna una vignetta (su un giornale che non esce ma che i lavoratori non pagati confezionano comunque ogni giorno) in cui i due editori hanno un copia de l’Unita infilata nel culo mentre Renzi fischietta con Il Foglio sottobraccio:

La seconda. Alessio De Giorgi, social media manager e collaboratore di Renzi, amministratore della pessima pagina Facebook che paragona Renzi a Totti e altre cazzate del genere, nel tentativo di smentire di essere l’amministratore della pagina dimentica di sloggarsi e risponde con il nome della pagina:

Vedere per credere. Poi possibilmente prenderne coscienza. Anche.

Basta con questa sindrome quattrodicembrista. Davvero.

Impossibile non essere d’accordo con quanto scrive Pietro Spataro:

Non si può attribuire, con malcelata irritazione, la responsabilità di tutti i guai che combinate a quelli che il 4 dicembre – e in prima fila ovviamente c’è sempre Massimo D’Alema, seguito da Bersani, Speranza e aggiungete voi chi volete – hanno fermato il Radioso Futuro che Matteo Renzi aveva in serbo per noi. Lo state facendo con la legge elettorale ora proporzionale e non più magnificamente maggioritaria come era l’Italicum per colpa, ripetete in coro, di chi ha votato no; lo fate ogni giorno sulla riforma costituzionale che, secondo gli effetti nefasti della sindrome suddetta, dovrebbe essere presentata in forma nuova in Parlamento da chi non è nemmeno eletto e per di più non è membro del partito di maggioranza; lo fate per giustificare una molto probabile alleanza con Berlusconi dopo il prossimo voto; qualcuno addirittura ha attribuito al “quattrodicembrismo” persino la responsabilità di una sentenza del Tar che ha bloccato la nomina di alcuni direttori di museo. Sono solo alcuni esempi, molti altri se ne potrebbero fare: basterebbe farsi un giro sui profili social di molti dirigenti Pd per vedere come ad ogni inciampo si risponde con la cantilena “ma il quattro dicembre”.


Questi comportamenti sono il sintomo di una malattia: la derealizzazione. Che in politica è assai grave, come si può facilmente immaginare. In questo modo la sconfitta del 4 dicembre – sulla quale peraltro il Pd non ha minimamente fatto una riflessione seria – sembra l’effetto di un Contropotere Malvagio guidato dal Nemico Interplanetario Massimo D’Alema piuttosto che, come realmente è, il risultato di una serie di clamorosi errori politici che hanno spinto il popolo (lo stesso popolo a cui fate spesso riferimento) a dire no, grazie.