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matteo renzi

L’audizione di Renzi getta nuove ombre sul caso Regeni: quando fu informato il governo italiano?

È successo qualcosa di importante nell’audizione di Matteo Renzi, nella veste di ex Presidente del Consiglio, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, ritrovato senza vita il 3 febbraio 2016 in Egitto. Secondo quanto dichiarato da Renzi la morte del ricercatore friulano gli sarebbe stata comunicata il 31 gennaio, ben 6 giorni dopo la scomparsa. Ha detto Renzi: “Noi abbiamo reagito mettendo in campo tutti gli strumenti – ha detto – Abbiamo lavorato tutti insieme a livello istituzionale come una squadra. Sì, abbiamo rimpianti. Io ho pensato ‘perché abbiamo saputo questa notizia solo il 31 gennaio?’ Se avessimo saputo prima avremmo potuto agire prima”.

Peccato che l’allora ambasciatore italiano in Egitto Maurizio Massari avesse dichiarato alla stessa Commissione che l’ambasciata italiana venne informata dal professore che Regeni avrebbe dovuto incontrare, Gennaro Gervasio, il 25 gennaio alle 23.30. E a sottolineare l’incongruenza c’è anche un comunicato del Ministero degli Esteri che “precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016”. Non è una cosa da poco: attivarsi sin dalle prime ore della sparizione di Regeni avrebbe sicuramente permesso un intervento più tempestivo, come ammette lo stesso senatore di Italia Viva, e forse avrebbe permesso un più facile accertamento della verità.

Smentito dalla Farnesina Renzi ha voluto controbattere con una nota del suo ufficio stampa: “nel corso dell’audizione di questa mattina il senatore Renzi ha espressamente richiamato la relazione del ministro Gentiloni e del Segretario Generale Belloni come parte integrante della sua esposizione. Che la Farnesina fosse informata dal 25 gennaio alle 23.30 è vero per esplicita dichiarazione lasciata a verbale dall’Ambasciatore Massari”. Quindi secondo Renzi la Farnesina sapeva ma non aveva informato il Presidente del Consiglio. Ma è possibile che il capo del Governo non sappia che un suo concittadino all’estero risulta irreperibile?

Ma i dubbi non sono finiti: il 27 e il 30 gennaio l’intelligence italiana ha incontrato gli omologhi egiziani, che avevano già avvisato l’ambasciatore italiano della scomparsa di Regeni. È possibile che in quelle due riunioni non si sia affrontato l’argomento? Ed è pensabile che i servizi italiani (che fanno riferimento al Presidente del Consiglio) non abbiano avuto occasione di aggiornare Renzi sulla scomparsa di un giovane italiano? Tutti dubbi che hanno bisogno di essere chiariti in fretta perché nella storia di Giulio Regeni (e delle responsabilità della politica egiziana) non possiamo permetterci di avere ombre anche sulle istituzioni italiane. La morte di Giulio Regeni non merita altre macchie. Davvero, no.

Leggi anche: Regeni, la procura di Roma è pronta al processo agli 007 egiziani. Ma il governo italiano teme al-Sisi

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E insomma galleggiano

I partiti e i leader dopo le elezioni regionali. E i cittadini italiani dopo il referendum costituzionale, in attesa delle riforme che sono state promesse

Primo dato, appariscente e importante: questo refrain che gli italiani non vedessero l’ora di andare a votare per prendere a calci i partiti del governo e per incoronare la destra di Salvini e di Meloni è una bufala pazzesca. Nei giorni scorsi qualcuno, Salvini in testa, sognava e sparlava di una vittoria clamorosa e invece quel turbine sovranista che latra sui social, sui giornali e in televisione è solo un ruttino. Matteo Salvini ha voluto trasformare questo voto in un voto nazionale e ha sbagliato. A proposito: la Lega stravince in Veneto ma la lista di Zaia stravince relegando la lista ufficiale del partito a percentuali per niente eclatanti. Per intendersi: ha stravinto Zaia, più della Lega e presto farà valere il suo peso politico anche sul resto del partito. Il centrodestra galleggia.

Il Partito Democratico tiene, vince in Toscana e si afferma come partito, vince in Puglia con candidato che non voleva nessuno (Emiliano) e stravince in Campania con De Luca (ma quella è una vittoria di De Luca). Zingaretti ha rischiato ma è riuscito a rimanere in piedi. C’è da dire che nessuno dei candidati è un “suo” uomo. Ora chissà se riuscirà a fare il segretario e a governare con decisionismo il partito. Si rimane in attesa, come sempre. Una notazione: Zingaretti in conferenza stampa è riuscito a proporsi come rappresentante di chi ha votato Sì e anche di chi ha votato No al referendum, come se con un po’ di retorica si potesse tenere i piedi in tutte le scarpe. Il Pd galleggia.

Il Movimento 5 Stelle si sa che avrebbe deluso e infatti Di Maio corre in conferenza stampa intestandosi la vittoria del referendum e poi lascia agli altri l’incombenza di analizzare i deludenti risultati delle regionali. Ora si giocherà la battaglia interna nei prossimi Stati Generali e lì si capirà di più. Insomma il M5S galleggia.

Matteo Renzi si è tolto la soddisfazione di esistere solo per fare perdere il centrosinistra e non ci è riuscito. Incassa un risultato patetico ma non se ne renderà conto. Sono anni che non riesce a fare i conti con la realtà. E quindi galleggerà continuando a pestare i piedi.

Intanto per il taglio dei parlamentari stravince il Sì ma verrebbe da chiedersi chi rappresenti quel 30% di No. Ora tutti ci promettono che faranno le riforme. Restiamo in attesa di sapere quali siano le idee. Insomma, galleggiamo anche noi.

Buon martedì.

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Il problema non sono i furbetti dei 600 euro, ma i leader che li hanno portati in Parlamento

Guardare il dito e la luna. È una storia che comincia come una barzelletta: ci sono tre leghisti, c’è un Cinque Stelle e uno di Italia Viva, la caccia ai nomi sarà lo sport della giornata e forse anche dei prossimi giorni. Che in mezzo ai richiedenti ci siano anche presidenti di regioni (che certo non hanno stipendi inferiori ai parlamentari) sembra essere sfuggito ai più. L’importante sono i parlamentari, gli obiettivi sono i parlamentari, tutti addosso ai parlamentari. Sia chiaro: che i cinque siano l’antitesi di quella disciplina e di quell’onore che sono richiesti dalla Costituzione a chi si ritrova a governare la cosa pubblica è fuori da ogni dubbio.

Chiedere 600 euro nella comodissima posizione dell’essere parlamentare è un gesto infimo, siamo d’accordo ma una riflessione ragionata e ampia dovrebbe spingerci a porci domande e allargare la discussione. Una norma, ad esempio, che prevede un contributo a pioggia, senza limiti di reddito, a tutti è politicamente sbagliata e praticamente inutile ai fini dell’uguaglianza sociale: i parlamentari hanno sfruttato una falla nella legge (e fanno schifo anche per questo) che ha permesso a molti benestanti di usufruire di un bonus di cui non avevano bisogno. Diciamolo: dare 600 euro a tutti è stata una pessima idea, forse dettata dall’emergenza, ma una pessima idea. Il buon legislatore scrive le leggi (e i decreti) perché siano funzionali ai più bisognosi e perché sbarrino la strada ai furbi. In questo caso non è successo, diciamolo chiaramente.

Poi dell’epoca Covid sarebbe da raccontare anche quella parte di imprenditori che hanno usufruito della cassa integrazione senza avere nessuna riduzione di fatturato, sarebbe da parlare dei cassintegrati che hanno continuato a lavorare normalmente per qualche imprenditori che si ritene particolarmente furbo, sarebbe da parlare di chi in nome dell’emergenza si è addirittura arricchito usufruendo comunque degli aiuti di Stato. Facendo due conti siamo di fronte a un dissanguamento di denaro pubblico enormemente più grave di quel gruzzolo di 600 euro. Sarebbe bello che l’INPS ci parlasse anche di questo, no?

E infine un punto strettamente politico: quanto comodo fa all’antipolitica (quell’antipolitica che ci ha trascinati in questo gretto populismo) che dei parlamentari vengano sventolati come prova della fallacia di una legge che invece ha favorito una platea ben più vasta? Quanto gioca tutto questo per il prossimo referendum (populista) che ancora una volta punta sulla quantità e non sulla qualità? E soprattutto: ma chi ha scelto quei parlamentari, quelli che dovrebbero formare la classe dirigente di questo Paese, non ha nulla da dirci? Perché quei nomi li sappiamo già: Matteo Salvini, Gianroberto Casaleggio e Matteo Renzi. Loro non hanno nulla da dirci?

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Lombardia, la consigliera di Italia Viva che finge di fare opposizione e invece sta con Fontana

Chissà se qualcuno dalle parti di Italia Viva, il partito guidato e fondato da Matteo Renzi e dalla sua truppa, un giorno o l’altro avranno voglia di dire qualcosa sulla loro consigliera in Regione Lombardia Patrizia Baffi, che continua a collezionare posizioni a dir poco discutibili e che continua allegramente a essere il pezzo di maggioranza aggiunta che finge di stare all’opposizione.

Patrizia Baffi, tanto per dare idea di chi stiamo parlando, è quella stessa consigliera che era stata eletta alla presidenza della commissione d’inchiesta sul Covid in Lombardia con i voti della maggioranza, quella stessa maggioranza che avrebbe dovuto essere messa sotto inchiesta. E lei aveva anche insistito sul fatto che quella sua investitura fosse qualcosa che avesse a che fare con la meritocrazia piuttosto che spiegarci questo suo atteggiamento sempre così vicino al presidente Fontana e ai suoi uomini con tanto di foto di sostegno addirittura sul suo profilo Instagram. In quel caso l’onda di indignazione la costrinse a dimettersi (venne criticata anche dai dirigenti del suo partito).

Ma giusto ieri la consigliera Baffi ha deciso di salire ancora all’onore delle cronache applaudendo convintamente l’intervento del presidente Attilio Fontana (un intervento che non ha spiegato nulla di quello strano ordine di camici della società del cognato e della moglie e che non ci ha spiegato nulla sui suoi 5 milioni di euro scudati in un conto svizzero di cui nessuno conosce l’origine).

“Da parte mia – ha detto la consigliera di Italia Viva – ho deciso di non sottoscrivere la mozione di sfiducia al presidente, proposta dal Movimento 5 Stelle, perché ritengo che sia il frutto di una elencazione di fatti ancora sommari e la cui analisi non può essere completa ed esaustiva: una analisi seria e le conseguenti valutazioni politiche su un’emergenza che è tutt’ora in corso, potremo farla solo quando avremo tutti gli elementi utili”. E non contenta ci ha anche spiegato che “cambiare vertici in questo momento in cui si scongiura una possibile seconda ondata di Covid-19 in autunno, eventualità che non possiamo per ora escludere vorrebbe dire mettere regione Lombardia e le nostre comunità in una situazione di grande difficoltà e insicurezza”.

Davvero i vertici del partito ritengono normale l’atteggiamento della loro consigliera, che insiste nel giochetto di appoggiare la maggioranza fingendo di essere all’opposizione? Davvero ieri nessuno si è sentito in imbarazzo per la sua assenza alla conferenza stampa dell’opposizione? Davvero?

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Oui, il Pd c’est moi

Non è tanto Matteo Renzi che stupisce. Renzi è così, piaccia o no, prendere o lasciare, e anche se paga lo scotto di una personalità piuttosto arrembante sempre pronta a sfociare nel bullismo, Renzi nel Pd sta facendo il Renzi, niente di nuovo, il suo solito copione.

Il tema piuttosto è un altro ed è ben altro dall’ex presidente del consiglio o l’ex segretario di turno ed è tutto incentrato sulle minoranze che nel Partito democratico si sono via via succedute e che paiono tutte le volte incagliarsi sullo stesso punto: il coraggio.

La direzione del partito di ieri (che ha praticamente votato sull’intervista televisiva del suo ex segretario) dimostra ancora una volta l’incapacità di elaborare, organizzare e sostenere una visione differente dalla maggioranza riuscendola a spiegare ai propri elettori e prendendosi la briga di portarla avanti anche nei luoghi decisionali del partito.

Mi spiego: al di là di quella che può essere la mia opinione personale su ciò che dovrebbe fare il Pd con il Movimento 5 stelle (e certo spetta al Pd deciderlo più che agli agguerriti editorialisti che si sentono tutti segretari oltre che allenatori) la scena di ieri porta con sé qualcosa di sgraziato nell’esito del voto: si direbbe, leggendo il risultato, che non sia mai esistita una posizione diversa da quella maggioritaria, come se tutto il can can dei giorni scorsi fosse solo una nostra allucinazione.

E non ce ne vorrà il ministro Orlando (e il reggente Martina) se non crediamo alla soffice giustificazione di chi dice «l’importante è essere unitari»: se si avesse così a cuore la solidità percepita da fuori forse si eviterebbero certi toni da tifo. Il tema è un altro: nel Partito democratico tutti si sgolano sulle differenze di posizione ma risultano pochissimo convincenti nei successivi riallineamenti. Tutte le volte. Sempre. Con quella sensazione di fondo che si sia semplicemente rimandata la coltellata e si finga che non sia successo niente.

Poi, però, sono gli stessi che ci dicono che «il Pd si cambia da dentro». E l’ha fatto solo Renzi, pensandoci bene.

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/04/oui-il-pd-cest-moi/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Perché poi sa, quello lì si chiama governo, ma non è un governo, sono quattro persone, ecco»: De Benedetti su Renzi & co.

«Perché poi sa, quello lì si chiama governo, ma non è un governo, sono quattro persone, ecco»: la frase che racchiude tutto il senso del renzismo negli ultimi anni è tutta qui. L’ha pronunciata De Benedetti di fronte alla Consob. Basterebbe questa. Ecco l’articolo de Il Fatto Quotidiano:

“Normalmente con Renzi facciamo breakfast insieme a Palazzo Chigi” e con Maria Elena Boschi “sono molto amico, ma non la incontro mai a Palazzo Chigi. Lei viene sovente a cena a casa nostra (..) del governo vedo sovente la Boschi, Padoan. Anche lui viene a cena a casa mia e basta”. Così parlava l’11 febbraio 2016 Carlo De Benedetti, allora ancora presidente del Gruppo Espresso che pubblica La Stampa, Repubblica e L’Espresso. Lorenzo Bagnoli dell’Irpi (Investigative reporting project Italy) e Angelo Mincuzzi del Sole 24 Ore hanno pubblicato ieri sul sito del Sole il verbale di De Benedetti davanti alla Consob dove ha potuto difendersi nell’indagine della Commissione sui movimenti sospetti intorno alle banche popolari. Nell’operazione al centro anche di una inchiesta della Procura di Roma(che ha chiesto l’archiviazione dell’unico indagato, il broker Gianluca Bolengo, ma tiene segreti gli atti), De Benedetti investe 5 milioni di euro il 16 gennaio 2015 e realizza una plusvalenza di 600.000 euro. Al telefono, nella comunicazione registrata, il broker gli dice che i titoli sarebbero saliti “se passa un decreto fatto bene”. Nessuno sapeva ancora che il governo Renzi avrebbe riformato il settore per decreto, ma De Benedetti è sicuro “passa, ho parlato con Renzi ieri, passa”. Ecco i punti salienti del verbale di De Benedetti davanti alla Consob.

MODICA QUANTITÀ. A sua difesa De Benedetti usa un argomento che poi sarà condiviso dal pm di Roma Stefano Pesci nel chiedere l’archiviazione dell’inchiesta penale: se avesse avuto informazioni privilegiate, non avrebbe investito così poco (per i suoi standard): “Allora, con le nostre controparti … avevamo fatto 620 milioni, di cui le Popolari solo 5. Tutte le altre operazioni hanno il taglio di 20, ma se io avessi saputo, avrei fatto 20 anche sulle Popolari, o di più, e ho fatto meno! Cioè è una roba che è un controsenso. Questa è la prova provata che, che io non sapevo niente della, della, dei tempi…”.

BANKITALIA. Carlo De Benedetti non è un banchiere, ma vanta eccellenti rapporti con la Banca d’Italia. E nel verbale Consob racconta la sua visita in via Nazionale il 14 gennaio dove incontra il vicedirettore generale Fabio Panetta:  “Ero andato a trovare Panetta in Banca d’Italia, come faccio abbastanza abitualmente o con lui o con Visco (Ignazio, il governatore, ndr), una volta al mese una volta ogni due mesi, non c’è una scadenza precisa ma, diciamo, una consuetudine precisa”. Dopo una discussione sulla Grecia, Panetta parla di banche popolari: “Mi ha detto, ‘guardi, l’unica cosa, sono negativissimo, sono pessimista, solo lei si illude. Guardi! L’unica cosa positiva che mi pare che finalmente il governo si sia deciso ad implementare quella roba che noi chiediamo da anni e cioè: la trasforma… la riforma delle… delle popolari’. Per dire: non mi fece altra affermazione, né date, né di… né di quando, né di che cosa, in che cosa sarebbe consistito”. Il responsabile dell’Ufficio abusi di mercato della Consob, Giovanni Portioli, chiede a De Benedetti se Panetta gli abbia anticipato che il governo avrebbe usato un decreto legge, dagli effetti immediati e rilevanti sul mercato: “No. Mi ha detto: ‘Il governo lo farà’. Il governo si è convinto”.

COLAZIONE DA RENZI. La mattina dopo, è il 15 gennaio, De Benedetti vede Renzi alle 7 del mattino a Palazzo Chigi. E si ripete la scena di via Nazionale: “Anche lui – e sembra una condanna – accompagnandomi all’ascensore di Palazzo Chigi mi ha detto: ‘Ah! Sai, quella roba di cui ti avevo parlato a Firenze, e cioè delle Popolari, la facciamo’. (…) ero già con un piede sull’ascensore; non mi ha detto se le faceva con un decreto, con disegno, quando”. Il giorno dopo, tra le 9.02 e le 9.10, De Benedetti chiama il suo broker Bolengo, alla Romed di cui l’Ingegnere è presidente, per comprare 5 milioni di azioni di banche popolari.

L’AFFARE. De Benedetti, che a sua difesa dice di non aver avuto informazioni privilegiate da Renzi, dice però anche che semmai le avesse avute ne avrebbe comunque approfittato, investendo ben più di 5 milioni: “Se io avessi saputo, avrei fatto 20 anche sulle Popolari, o di più, e ho fatto meno!… ma perché l’avrei fatta così piccola? Se avessi saputo?”. Quella sulle Popolari, per gli standard della Romed, era “una mini-operazione per il nostro standard”. Altro argomento difensivo: l’operazione è stata “hedgeata”, cioè bilanciata da una uguale ma di segno contrario, per limitare il rischio, segno, sostiene l’Ingegnere, che non c’era alcuna certezza sull’arrivo di un decreto a breve (la prima notizia arriva sull’Ansa la sera stessa dell’operazione): “Ma se fosse stata un’operazione a tre giorni o quattro giorni o una settimana, che cacchio vai a hedgeare? (…) Quindi non c’è logica a pensare che uno sapesse che salivano e allora perché la hedgei? (…) per spendere dei soldi inutili”.

Il consigliere. De Benedetti ci tiene a spiegare ai dirigenti Consob che non c’era nulla di straordinario in quell’incontro con l’allora premier: “Io normalmente con Renzi faccio, facciamo breakfast insieme a Palazzo Chigi (…) quando lui ha chiesto di conoscermi, che era ancora sindaco di Firenze, e io… mi ha detto: ‘Senta – ci davamo del lei all’epoca – mi ha detto: ‘Senta, io avrei il piacere di poter ricorrere a Lei per chiederle pareri, consigli quando sento il bisogno’. Gli ho detto: ‘Guardi! va benissimo. Non faccio, non stacco parcelle, però sia chiara una roba: che se lei fa una cazzata, io le dico: caro amico, è una cazzata’”.

Il padre del Jobs act. De Benedetti rivendica anche di aver suggerito a Renzi una delle misure più contestate (talvolta anche da Repubblica), cioè il Jobs Act: “Io gli dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il job act è stato – qui lo dico senza… senza vanto, anche perché non mi date una medaglia, ma il job act gliel’ho… gliel’ho suggerito io all’epoca come una cosa che poteva, secondo me, essere utile e che poi, di fatto, lui poi è stato sempre molto grato perché è l’unica cosa che gli è stata poi riconosciuta”.

Boschi & C. De Benedetti non ha rapporti solo con Renzi: “Guardi io sono molto amico di Elena Boschi, ma non la incontro mai a Palazzo Chigi. Lei viene sovente a cena a casa nostra ma non… diciamo io, del governo vedo sovente la Boschi, Padoan. Anche lui viene a cena a casa mia e basta. Perché poi sa, quello lì si chiama governo, ma non è un governo, sono quattro persone, ecco”. E ovviamente c’è il governatore Ignazio Visco, “ho un buon rapporto con Visco da quando lui era all’Ocse per cui ci vediamo anche così per fare quattro chiacchiere… Visco non parla tanto volentieri dell’Italia; gli piace di più parlare del mondo, ecco”.

Renzi trova coraggio su Regeni. E sbaglia verso.

Dunque Matteo Renzi, il Matteo Renzi che è stato sempre così docile con Al Sisi e l’Egitto ha trovato il coraggio. Sarà la campagna elettorale.

Ma non conta solo l’inglese maccheronico con cui scrive il tweet («For Giulio Regeni we demand only the truth. Are the Prof of Cambridge hiding something? ») ma conta soprattutto il fatto che trova contro Cambridge il coraggio che non ha avuto con Al Sisi.

Uno scempio. Uno scempio di paraculaggine.

Perché, di certo, non è stata Cambridge a torturare Giulio. Sicuro.

“Gli avevamo offerto un seggio”

Risponde così Zanda, capogruppo PD al Senato, alla domanda di Repubblica sull’uscita di Pietro Grasso dal gruppo del Partito Democratico.

Gli avevano offerto un seggio e lui – pensa te che maleducato – invece ha deciso di incaponirsi sulla linea del partito. E dentro questa risposta c’è tutto: la distanza dal Paese reale, il disfacimento dei valori che dovrebbero valere meno di una ricandidatura e la beata innocenza con cui continuano a infilare una serie di cazzate. Una dopo l’altra.

È che lui, in fondo, sognava di fare il Papa, mica il Presidente del Consiglio

Il Papa non ha voti di fiducia, gli basta la fede che non è sottoposta a verifiche.

Il Papa non ha maggioranze con cui confrontarsi, niente: si confronta da solo nella sua stanza e non può essere intercettato da nessuno, nemmeno con il satellite.

Il Papa ha sempre ragione.

Il Papa non si sottopone a elezioni: una è per sempre.

Il Papa non deve rendicontare soldi pubblici.

Il Papa non ha padri ingombranti. Ha un parente ingombrantissimo ma gli altri non li calcola nessuno.

E poi ci si stupisce se Renzi in scioltezza tiene un comizio in Chiesa? Davvero?

Il piccolo libro di un piccolo leader inadeguato

Leggetevi cosa scrive Francesco Luna sul libro di Matteo Renzi:

Mente ai lettori Renzi? In realtà, Renzi sembra mentire soprattutto a se stesso. La sua infinita autostima, evidentemente, non gli consente di riconoscere i tanti, tantissimi errori che ha compiuto e che hanno gettato l’Italia, per tre anni, in una campagna elettorale continua, distrutto il Partito Democratico e innescato una conflittualità nel Paese che impiegheremo decenni a far rientrare. La sua versione dei fatti è una goffa celebrazione di un ego ipertrofico alle prese con una maldestra operazione di attribuzione ad altri di responsabilità che un uomo di Stato adulto non potrebbe che riconoscere. Uno scaricabarile a 360 gradi, che alla fine dovrebbe consegnarci un leader mondato da tutti i peccati, e quindi in grado di ritrovare lo slancio perduto, e che invece ci consegna un politico svuotato dalle sconfitte, privo di idee, terrorizzato dai propri fallimenti, incapace di indicare il futuro e prigioniero di un passato che preferisce cambiare con lo storytelling, se non proprio negare.

I migranti? Colpa dei governi Berlusconi e Letta che sottoscrissero i patti di Dublino. E invece no, come ha ricordato Emma Bonino, la colpa fu del governo Renzi, che sottoscrisse Triton e ci costringe oggi ad accoglierli tutti nei nostri porti. La caduta di Letta? Colpa della minoranza Pd che gli chiese di sostituirlo. Come se non ricordassimo il logoramento al quale Renzi sottopose Letta sin dal giorno della sua elezione a segretario, con il chiaro obiettivo di indebolirlo per poterlo far fuori. Le banche? Tutta colpa di Bankitalia, di cui Renzi, ingenuo, si era fidato. La promessa mancata di lasciare la politica? Colpa dei suoi sostenitori, che lo hanno supplicato di restare.

Il resto sono piccole scorrettezze e insolenze, come quelle davvero spregevoli a Enrico Letta, accusato addirittura di aver costruito la propria carriera politica sul vittimismo. Lui, che una volta lasciato palazzo Chigi si dimise da parlamentare e si trasferì a Parigi, lasciando davvero, non per finta come Renzi, la politica. E che dire del graffio velenoso a Giuliano Pisapia, accusato di essere stato fra coloro che votarono contro Prodi nel 1998, mentre si sa che Pisapia abbandonò Bertinotti e votò per la fiducia? Una bugia plateale, smascherata dalla Stampa, della quale Renzi non si è ovviamente neppure scusato.

Insomma, un condensato di fiele, che non aiuta nessuno. Un testo costellato di piccole provocazioni, che si chiama “Avanti”, ma che è rivolto all’indietro. Una continua ricerca di rissa, anche con chi da tempo si è stancato di seguirlo in questo modo puerile di fare politica. Nessuna assunzione di responsabilità, nessuna ammissione di un qualsivoglia errore, solo una colossale arrampicata sugli specchi per evitare di rispondere a viso aperto delle proprie azioni. Un’ennesima prova di immaturità, che alimenta i dubbi crescenti in settori sempre più ampi del Paese e delle cancellerie internazionali sulla sua adeguatezza.

(la recensione completa è qui)