Vai al contenuto

matteo renzi

Era colpa del Tar. E intanto hanno corretto la legge, invece.

Tanto per rimanere nel merito. E per fortuna ne scrive Possibile qui:

Ma non era solo l’ennesimo capitolo della famosa “congiura dei Tar” contro il cambiamento (tanto da spingere il sempre misurato Renzi a rimpiangerne una “riforma”… tipo: “via i Tar!”)? Non era un’interpretazione quantomeno bizzarra del Tar Lazio quella per cui al concorso per la direzione dei musei non potevano accedere gli stranieri? In effetti il dubbio poteva esserci e era stato sollevato da più parti, anche se – come spiegavamo ieri – questo non superava i motivi di illegittimità della decisione del giudice amministrativo.

Ora, però, approfittando della discussione sulla “manovrina” viene inserito un emendamento (sulla cui coerenza rispetto al testo si potrebbe ben discutere), in base al quale «l’articolo 14, comma 2-bis, del decreto legge 11 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2016 [in realtà 2014, ndr], n. 106, e successive modificaziofni, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti di accesso di cui all’art. 38 del decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni».

Verrebbe da dire: “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Infatti, questo conferma che la sentenza del Tar Lazio non è un “attacco al potere” come l’avevano descritta Franceschini e Renzi, ma semplicemente una decisione assunta in base al principio di legalità, secondo un’interpretazione della legge che l’emendamento presentato conferma che era quantomeno ben possibile. E evidentemente c’era più che qualche dubbio che il Consiglio di Stato si orientasse diversamente dal Tar Lazio, se il legislatore è intervenuto.

Rimangono insuperati, naturalmente, gli altri vizi rilevati dal Tar Lazio.

Il patto Renzi-Berlusconi è qualcosa di più di un’ipotesi

Anche se gli amici del PD insistono nel volerci convincere che l’avvicinamento Renzi-Berlusconi sia solo figlio di malelingue e limitato all’accordo sulla legge elettorale i segnali che vanno nella direzione di un “governo della responsabilità”. E allora vale la pena leggere un paio di articoli, tanto per cominciare. E capire.

La prima è una Dagonota che, anche se ironica, meriterebbe di essere presa sul serio:

Il cazzaro Renzi, la “sindrome di Craxi”, il Rosatello elettorale (annacquato) alla tedesca e uno scenario post voto che evoca il brumaio rivoluzionario del Novantadue italiano. Anche alla vigilia di Tangentopoli il leader del Psi era convinto di poter tornare a palazzo Chigi nella primavera del ’92 nonostante la sconfitta subita l’anno prima sul referendum istituzionale sulla preferenza unica indetto da Mariotto Segni.

Con Bettino, novello Garibaldi, che dall’isola di  Caprera invitava gli italiani, inascoltato, ad “andare al mare” e a disertare le urne. Fu invece il trionfo del “Sì” con grandi festeggiamenti al Nazareno allora sede dei promotori della consultazione popolare e oggi quartier generale del Pd. Qui, per la legge del contrappasso, Renzi ha bevuto il calice amaro della disfatta subita al referendum dello scorso 4 dicembre.

Già. Anche dopo la “non vittoria” del Psi alle elezioni politiche del ’92, Bettino era convinto di avere intatte le chances per bissare la sua passata esperienza alla guida del governo. Ma durante quel percorso accidentato, per sua natura (politica), commise alcuni errori.

Il primo fu di poter realizzare l’accoppiata vincente Dc-Psi: lui a palazzo Chigi e Arnaldo Forlani, segretario dello scudocrociato, al Quirinale. Il secondo di aver poi puntato per la presidenza della Repubblica su un diccì anomalo, Oscar Luigi Scalfaro (sponsorizzato da Marco Pannella), su cui confidava (anzi era sicuro) che gli avrebbe dato l’incarico di formare il nuovo governo. Non andò così.

Le analogie tra l’attuale segretario del Pd (residuale) e l’ex leader del Psi non riguardano, ovviamente, soltanto le convergenze storiche e la statura politica dei due, tutta a vantaggio di Bettino fino al giorno della sua rovinosa caduta. Nel 1976, arrivato alla guida di un partito al lumicino nelle assise del Midas (ci resterà fino al 1993), Craxi riuscì a ridare dignità ai socialisti e dopo sette anni e per consensi incrementati, andò a guidare il governo.

Il ducetto di Rignano, almeno agli occhi dei transfughi del Nazareno, dello stesso Berlusconi (non pentito neanche dopo la telefonata con Matteo), del centro destra e dei Poteri marciti, invece, ha il solo merito di aver minato nelle fondamenta (iscritti e voti) l’unico partito organizzato sopravvissuto alla bufera politico-giudiziaria di Tangentopoli. E di aver provocato, infine, l’ennesima scissione a sinistra strizzando l’occhio all’ex nemico Berlusconi.

“Qual è il profilo culturale e strategico della stagione convulsa e precipitosa che si sta aprendo”, s’interroga Ezio Mauro su la Repubblica. “E in nome di quale mandato Renzi consegna il Pd appena riconquistato all’intesa con la destra”, aggiunge l’ex direttore.

Sul Corriere, Massimo D’Alema aggiunge ironico: “Il renzismo non è stato che il revival del berlusconismo… Mi stupisco che Berlusconi non si rivolga alla Siae per avere i diritti d’autore”. Non è questo, onestamente, un risultato da medaglia al valore ideale per l’ex premier incoronato da Re Giorgio Napolitano (senza un passaggio istituzionale) e cacciato a furor di popolo nel suffragio referendario del 4 dicembre 2006.

E da quel giorno, come successe a Bettino Craxi dopo la cacciata per mano della Dc da Palazzo Chigi (aprile 1983) e fino alla sconfitta nella consultazione promossa da Mariotto Segni per l’abolizione del proporzionale (aprile 1991), il cazzaroRenzi sogna anche lui la rivincita (remuntada alla Messi) per tornare alla guida del governo.

Ecco spiegata la “sindrome di Craxi” che ha colpito Matteo sulla via del ritorno a palazzo Chigi. Con la stessa impazienza – ahimè cattiva consigliera -, di andare al voto in autunno. Prima cioè della fine anticipata della legislatura (aprile 2018). E senza nuove regole elettorali, ancora bloccate in Parlamento.

E, soprattutto, contro la volontà (ferma) del capo dello Stato. Eppure, con rare eccezioni, i giornaloni continuano ad avvalorare le confuse ed estemporanee sortite dell’omino in fregola del Nazareno. Sulle pagine dei quotidiani (e in tv) si spaccia per “modello tedesco” una nuova legge elettorale che avrebbe pure il sostegno di Silvio Berlusconi.

“Al momento non c’è un modello tedesco sul tavolo; c’è solo il proporzionale un po’ all’italiana nobilitata con il richiamo alla stabilità teutonica”, ha osservato Stefano Folli su la Repubblica. Ingannare i lettori (o i teleutenti) solo per essere fedeli all’ultimo capataz politico? Ah saperlo…

Il secondo, invece, viene dalle pagine dell’edizione di oggi de Il Foglio che propone un vero e proprio “manifesto possibile per il Partito della nazione:

Le stelle si sono allineate, il percorso è diventato chiaro e improvvisamente, ora, sono tutti d’accordo. D’accordo sulla modalità, sulla tempistica, sui numeri, sulle ragioni e sulla data del voto. Salvo sorprese che non ci dovrebbero essere la diciassettesima legislatura finirà entro l’ultima settimana di luglio e se tutto andrà nella modalità concordata da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi la direzione è segnata. Ieri pomeriggio Forza Italia ha presentato i quattro emendamenti che trasformeranno la legge elettorale attualmente in discussione alla Camera in commissione Affari costituzionali in una legge sul modello tedesco (soglia di sbarramento al cinque per cento sia alla camera sia al Senato). Martedì, in direzione, il segretario del Pd spiegherà perché il sistema tedesco è l’unico che può essere approvato in tempi rapidi e con numeri sicuri sia alla Camera sia al Senato. Nelle ore successive i due leader delle opposizioni (Matteo Salvini e Pier Luigi Bersani) daranno il proprio ok alla proposta. La legge dovrebbe essere votata alla Camera entro il 10 giugno. Berlusconi, intanto, ha dato al Pd la sua disponibilità a votare il testo entro il 30 giugno anche al Senato.

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha comunicato una sua non preclusione allo scioglimento anticipato delle Camere per arrivare al voto già il prossimo 24 settembre. Le massime istituzioni europee, compreso il vertice della Bce, non hanno mostrato particolare preoccupazione di fronte all’idea di allineare il voto italiano a quello tedesco mettendo la prossima legge finanziaria nelle mani di un futuro governo che anche grazie alle legge elettorale tedesca non ha speranze di essere guidato da una maggioranza grillina. Molti ministri del governo (compreso Calenda) sono stati informati da Renzi in persona della possibilità concreta di fine anticipata della legislatura. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, è pronto a seguire l’indicazione del segretario del Pd e a dimettersi da capo del governo una volta approvata la legge elettorale (il pretesto per interrompere la legislatura potrebbe essere offerto dalla legge sui voucher che, se non verrà votata dagli scissionisti del Pd né alla Camera né al Senato, permetterà al Pd di certificare la morte della maggioranza). E anche molti investitori stranieri si stanno convincendo che il voto anticipato, come hanno riconosciuto ieri in un paper gli analisti di Citigroup, sia per l’Italia la soluzione migliore per evitare che sia un governo debole ad affrontare nei prossimi mesi, attraverso una Finanziaria preelettorale, i dossier delicati con cui dovrà fare i conti il nostro paese.

Le stelle sono dunque ormai allineate e il percorso sembra essere finalmente chiaro, ma al contrario di quello che tenteranno di dimostrare Renzi e Berlusconi in campagna elettorale il loro ritorno al dialogo è destinato a essere qualcosa in più di una semplice condivisione sulla soglia di sbarramento o sul numero di collegi. È destinato a essere l’embrione di un patto di sistema che solo la vittoria del Sì al referendum costituzionale avrebbe potuto evitare. E il paradosso è che tutti coloro che soprattutto a sinistra hanno votato No al referendum per evitare la nascita di un Partito della nazione ora dovranno rassegnarsi all’idea che il Partito della nazione sta nascendo davvero e sta nascendo grazie alla vittoria del No del 4 dicembre.

Con una legge elettorale sul modello tedesco – grazie alla quale Renzi e il Cav. avranno la possibilità di replicare in piccolo il modello della rottura macroniana presentandosi di fronte agli elettori senza essere ammanettati né con una melanconica sinistra a sinistra del Pd e né con una Lega che grazie a Salvini è più vicina al modello Cinque stelle che al modello Ppe – i neo nazareni hanno già calcolato che avranno i numeri per dar vita a un governo della nazione. E basterà che Pd e Forza Italia arrivino al 42 per cento dei voti (i sondaggi di Berlusconi dicono che la somma dei due partiti oggi è intorno al 45 per cento ed è destinata a crescere ancora) per mettere insieme una grande coalizione sul modello tedesco (magari con qualche innesto dalla Lega più vicina a Maroni e dalla sinistra più vicina a Pisapia). Ma per arrivare davvero a quella percentuale, non impossibile, Pd e Forza Italia hanno la necessità di concentrarsi non solo sulle soglie di sbarramento e sulla composizione futura dei collegi ma sull’unica carta possibile in loro possesso per evitare che la nascita del nuovo Partito della nazione si trasformi in un regalo alle forze anti sistema. In campagna elettorale, quando ci sarà, non basterà costruire una diga tattica di resistenza al grillismo. Sarà necessario dimostrare che l’alternativa agli anti sistema si costruisce opponendosi a ogni cialtroneria populista con quello che Macron ha giustamente definito il “coraggio della verità”. E la verità oggi è non avere paura di dire le cose come stanno sull’economia, la concorrenza, il fisco, la produttività, la giustizia, l’Europa, il lavoro, e non aver paura di far proprie, seppur da posizioni diverse, le uniche misure che possono permettere all’Italia di tornare a crescere.

Il Foglio ha presentato qualche settimana fa un suo manifesto del buon senso – sottoscritto da Silvio Berlusconi – con molti di questi punti, e attendiamo di sapere cosa ne pensa Matteo Renzi. Ma sottoscrivere un memorandum di buon senso preelettorale non è una fissa del nostro giornale. È l’unico modo per mostrare il volto sfascista, sovranista e ridicolmente anti produttivo delle forze anti sistema e non farsi trovare impreparati se davvero si andrà a votare alla fine di settembre. La data segnata sul calendario da Renzi e Berlusconi è il 24 settembre. La successiva legge di Stabilità andrà fatta entro il 16 ottobre. E per evitare che una legge di Stabilità fatta dal nuovo governo sia più pasticciata di quella fatta da questo governo conviene che Renzi e Berlusconi, una volta portata a casa la legge elettorale, trovino un modo per mettere insieme da subito le idee giuste per governare il paese. Firmare il memorandum del Foglio sarebbe un primo passo. Mettere insieme già in questa legislatura dieci misure per garantire la solidità finanziaria del nostro paese, anticipando così con un disegno di legge la prossima legge di Stabilità (il Portogallo ha seguito una strada simile prima delle ultime elezioni), sarebbe il modo migliore per mettere in sicurezza l’Italia, rassicurare i mercati nella fase elettorale e dimostrare che le forze anti populiste si possono combattere senza aver paura di mettere in campo l’unica arma possibile per sconfiggere i campioni delle bufale: il coraggio della verità.

A posto così

  1.  La Boschi no, non ha querelato De Bortoli. No.
  2. Ghizzoni (Unicredit) non ha intenzione di dire se la Boschi davvero gli ha chiesto di intervenire in favore di Banca Etruria perché, dice lui, non può permettersi di mettere “a rischio la tenuta del governo”. Indovinate la risposta.
  3. Sono illegali le intercettazioni pubblicate di Matteo Renzi con il padre. Vero. Verissimo. Ma nell’inchiesta Consip si parla di politici al governo che avvisano dirigenti pubblici del fatto di essere intercettato. E quei dirigenti bonificano i propri uffici per tutelarsi. Segnarselo bene. E decidere, nel caso, la gravità dove sta.
  4. Leggete i giornali e saprete esattamente chi è contro la legge elettorale di qualcun altro. Vi sfido a capire quali siano le soluzioni proposte. “Essere contro Renzi” non è un gran programma di governo. No.
  5. Pisapia dice di voler andare contro Renzi ma di essere contro il renzismo. Renzi dice di non volersi alleare con Pisapia. Escono decine di editoriali che chiedono a Pisapia di federare. Renzi lo snobba. Lui insiste. Trovate il filo logico. Chiamatemi, nel caso.
  6. Salvini non vuole andare con Berlusconi. Berlusconi non vuole andare con la Lega. E poi finiranno insieme. Come negli ultimi vent’anni. Ci scommetto una pizza.
  7. Il “gigantesco scandalo” sulle ONG è finito in una bolla di sapone a forma di scoreggia. Eppure non ne parla nessuno. Tipo il watergate finito nel water.
  8. Tutti quelli che vogliono la “sinistra unita” poi scrivono dappertutto che “la sinistra non c’è più”. Così vincono in entrambi i casi. E vorrebbero essere analisti politici.
  9. Tutti i tifosi di Putin sono silenziosissimi. Putin gli è esploso in faccia ma loro usano la solita tattica: esultare per gli eventi a favore e fingere che non esistano quelli contrari. Le chiamano fake news ma in realtà è solo vigliaccheria.
  10. Ormai tutti cercano opinionisti con cui essere totalmente d’accordo su tutto. La complessità è come la Corte Costituzionale: un inutile orpello che non riesce a stare al passo dei tempi dei social, dove un rutto fa incetta di like.
  11. Gli intellettuali? Quelli che si indignano come ci indigneremmo noi. Gli vogliamo bene perché ci evitano la fatica di pensare e di scrivere e al massimo ci costano un “mi piace”. Opinioni senza apparato digerenti. Defatiganti. A posto così.
  12. Buon venerdì.

(continua su Left)

L’aspetto più inquietante che ci svela De Bortoli è un altro

Tra le rivelazioni di De Bortoli nel suo ultimo libro ce n’è una che mi fa sobbalzare ben di più della ministra Boschi che cerca di salvare il padre ed è il racconto che ci fa dell’incontro tra Matteo Renzi (che era Presidente del Consiglio, in quell’occasione) e il giornalista Marco Galluzzo del Corriere della Sera. Se Renzi non fosse stato Renzi, se un Presidente del Consiglio avesse (o avesse millantato) sventolato i servizi segreti come minaccia in faccia a un giornalista sarebbe successo il finimondo. E invece niente.

«Al telefono, Galluzzo mi spiegò di essere stato avvicinato dalla scorta del premier che gli aveva intimato di lasciare subito l’ albergo. Questo il suo racconto: “Mi avvicinai al tavolo del ristorante dove cenava, nella terrazza dell’ albergo, con la moglie e i figli. Mi fu possibile solo salutarlo e per un attimo stringergli la mano, poi cominciò a gridare, lasciando di stucco i tavoli degli altri ospiti, gruppi francesi, tedeschi e russi. E anche Agnese, che mi rivolse uno sguardo di comprensione, quasi di vergogna. Gridava talmente forte, inveendo contro il Corriere che invadeva la sua privacy, che la scorta accorse come se lui fosse in pericolo. Venni anche strattonato. Dovetti alzare la voce per dire al caposcorta di non permettersi. Lui reagì minacciandomi. Mi disse che tutta la mia giornata era stata monitorata, dal momento in cui avevo prenotato una camera nello stesso albergo, e che di me sapevano tutto, anche con sgradevoli riferimenti, millantati o meno conta poco, alla mia vita privata”. Insomma, intollerabile. Se Berlusconi avesse fatto una cosa simile saremmo tutti insorti».

Ferruccio de Bortoli, “Poteri forti (o quasi)”

Renzi e Treu che sguazzano nella palude

Dice Renzi che la legge sulla “legittima difesa” (perché la trovo sbagliata culturalmente oltre che politicamente l’ho scritto qui per il mio buongiorno sul Left) «per fortuna verrà rivista in Senato» e così, in un secondo, crolla un’ala del castello di bugie che ci propinavano quelli per cui il Senato era solo un inutile peso, Renzi in testa e volevano abolirlo con una riforma costituzionale (per fortuna) sonoramente bocciata dal referendum dello scorso 4 dicembre.

Al Cnel intanto viene nominato presidente l’ex ministro Tiziano Treu, una delle firme prestigiose dell’appello che avrebbe voluto abolire il Cnel, sempre con quella famosa pessima riforma.

Dicevano che l’eventuale vittoria del No al referendum avrebbe lasciato l’Italia nella palude. E ora nella palude ci sguazzano con il costumino da bauscia.

A che punto siamo con l’inchiesta Consip (e perche il padre di Renzi aveva paura di essere arrestato)

ANDREA ORLANDO: “CONTRO I MAGISTRATI, RENZI SI CERCHI UN ALTRO MINISTRO”

Estratto dell’intervista di Fabrizio D’Esposito per il “Fatto quotidiano”

[…] Renzi, meglio, qualche renziano pretendeva un’ attenzione maggiore (sul caso Consip).

Precisiamo: qualche renziano. Io non ho girato la testa dall’ altra parte, ho scritto al procuratore generale per eventuali anomalie nell’ attività della polizia giudiziaria: non ho azionato l’ attività ispettiva perché non emergevano profili disciplinari. Tutto questo, come sempre, l’ ho fatto senza alcun carattere intimidatorio. Se i renziani che mi hanno criticato pensavano che utilizzassi i poteri ispettivi come una clava contro l’ autonomia della magistratura hanno sbagliato persona.

I VERBALI DEL SINDACO DI RIGNANO: «”TEMO CHE MI ARRESTINO” MI CONFESSÒ BABBO RENZI»

Giacomo Amadori per “la Verità”

Anche se Matteo Renzi nei giorni scorsi, scortato dalla fanfara entusiastica dei giornali, sembrava aver già assolto suo padre Tiziano Renzi dalle accuse di traffico di influenze illecite nella vicenda Consip, gli inquirenti romani stanno preparando il secondo round. In particolare nella prossima fase i pm della Capitale potranno far conto sulle perquisizioni e sugli interrogatori svolti a marzo, prima che scoppiasse il caso dei presunti falsi del capitano del Noe, Gianpaolo Scafarto, che hanno fatto calare il sipario mediatico sull’ inchiesta.

Infatti, a quanto risulta alla Verità, qualche buona cartuccia contro Renzi senior è rimasta in tasca ai magistrati. In particolare viene considerata rilevante la testimonianza del sindaco di Rignano sull’ Arno, Daniele Lorenzini, ritenuto sino a quelle dichiarazioni un renziano di oro zecchino. Così renziano da difendere babbo Tiziano in ogni occasione. Ma non al punto da mentire davanti ai pm, mettendo a rischio la propria fedina penale. Venerdì 3 marzo è stato sentito in due tornate dal pm di Roma, Mario Palazzi, e da quello di Napoli, Henry John Woodcock.

Nell’ occasione ha confermato quanto già svelato dalla Verità il 6 novembre scorso sulle fughe di notizie, ma vi ha aggiunto un particolare clamoroso. Ha detto che nell’ autunno scorso «Tiziano Renzi aveva paura di essere arrestato». Il verbale è stato compilato da Palazzi e riletto a Daniele Lorenzini dallo stesso pm.

Renzi senior aveva convocato Lorenzini nel suo ufficio e lo aveva reso partecipe della sua preoccupazione per un’ inchiesta napoletana «riguardante una persona che avrò visto una volta». Il personaggio in questione era Alfredo Romeo, poi arrestato per corruzione lo scorso 1 marzo su richiesta della procura di Roma. Lorenzini ha riassunto così con la Verità il passaggio cruciale del suo verbale: «Mi parlò della Procura di Napoli senza fare il nome del pm Woodcock e mi disse con tono angosciato “mi stanno controllando” o qualcosa di simile, tanto che mi fece lasciare il telefonino in ufficio. Ci recammo a parlare nel piazzale esterno, quello che si affaccia sul fiume». Per Lorenzini quel giorno l’ amico «era preoccupatissimo». Insomma l’ inchiesta, che ora per tutti i giornali è una semplice bolla di sapone, tra settembre e ottobre scorso aveva agitato a tal punto babbo Renzi da fargli temere le manette.

Per un inquirente contattato dalla Verità questo non è un dettaglio trascurabile, visto che tradirebbe la coscienza non proprio pulita dell’ indagato. «Tiziano Renzi aveva paura che, se la notizia dell’ inchiesta fosse uscita prima del referendum, il figlio avrebbe perso la consultazione», ha aggiunto Lorenzini con i magistrati. A mettere ansia al babbo dell’ ex primo ministro erano anche le continue fughe di notizie a suo favore effettuate da investigatori infedeli. La prima sarebbe avvenuta a settembre, quando l’ apprendista faccendiere Carlo Russo, inquisito nell’ inchiesta insieme con Renzi senior, rinviò con Romeo «l’ accordo quadro» che avrebbe dovuto garantire a babbo Tiziano 30.000 euro al mese e 5.000 bimestrali allo stesso Russo per il loro lavoro di lobbing nei confronti dell’ amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.

Il 7 dicembre l’ ex autista del camper di Matteo Renzi alle primarie, Roberto «Billy» Bargilli, telefona a Russo e gli dice con tono d’ intesa: «Scusami ti telefonavo per conto di babbo mi ha detto di dirti di non chiamarlo e di non mandargli messaggi». Nell’ audio (anche se Bargilli in una conferenza stampa aveva dichiarato trattarsi di un sms) il tono di Billy è amichevole e Russo dà l’ idea di intendere al volo il senso del messaggio, annuisce e attacca. Fughe di notizie gravi quasi quanto i reati contestati che avrebbero chiaramente potuto portare a un arresto per inquinamento probatorio.

Per questo probabilmente Tiziano già a ottobre aveva esternato all’ amico e medico personale Lorenzini le sue palpitazioni. Oggi il sindaco è stato espulso dalla cerchia ristretta degli amici del Giglio magico per presunto alto tradimento, dopo che, secondo babbo Renzi, era diventato «il problema». Ma le soprese potrebbero non essere finite. Infatti nei prossimi giorni il capitano dei carabinieri del Noe, Gianpaolo Scafarto, accusato di falso dalla Procura di Roma, consegnerà la sua memoria difensiva che potrebbe ribaltare alcune sentenze già scritte dai giornali, garantisti con babbo Renzi, ma colpevolisti nei confronti del militare «nemico» della famiglia dell’ ex presidente del Consiglio.

Infatti, a quanto risulta alla Verità, l’ ufficiale spiegherà in modo circostanziato come siano stati possibili i due errori inseriti nell’ informativa finale del 9 gennaio scorso, quella in cui veniva attribuita a Romeo una frase del suo consulente, Italo Bocchino, e la presunta pista farlocca dei servizi segreti. Proprio sul ruolo degli 007 nelle possibili fughe di notizie, l’ investigatore del Noe sarebbe pronto a fare nuove rivelazioni.

Intanto Tiziano Renzi e Carlo Russo continuano a impegnarsi in politica. Quest’ ultimo è interessato alle primarie del Pd e sebbene abbia smesso di scrivere su Facebook, ha inserito tra gli eventi da non perdere proprio la consultazione del 30 aprile e il confronto tv tra Matteo e i suoi contendenti. I gruppi di cui fa parte non lasciano dubbi su chi gli faccia battere il cuore: si va da «In cammino con Matteo Renzi» al «Popolo del Sì», da «Primarie sempre e comunque» a «Informazione libera con Renzi e il Pd» a quelli intitolati a «Matteo presidente» in tutte le sue declinazioni.

Unico nemico, i grillini: «Contro Movimento 5 stelle lotta democratica» è uno dei gruppi selezionati. Anche Tiziano è indaffarato ad allestire la campagna elettorale contro l’ ex amico Lorenzini per la poltrona di sindaco di Rignano. In paese sono attesi i comizi del ministro Maurizio Martina e dello stesso Matteo Renzi. Ma se Tiziano è concentrato sulla sua vendetta, i magistrati continuano a indagare, nonostante l’ indifferenza dei media, su di lui, sui suoi vecchi collaboratori e su alcune aziende con cui è stato in affari. Nessun giornalista ha ritenuto interessante che babbo Renzi nel 2014 abbia provato a cedere l’ azienda di famiglia a una società il cui socio occulto era in quel momento un suo coindagato per bancarotta fraudolenta.

Non ha suscitato curiosità neppure l’ inchiesta della Procura di Cuneo su un’ altra bancarotta e su una presunta truffa ai danni dell’ Inps contestate, tra gli altri, a due stretti collaboratori di Tiziano Renzi, Mirko Provenzano ed Erika Conterno, soci e compagni di vita. La Eventi 6 della famiglia Renzi, attraverso le società della coppia, la Direkta Srl (per il cui crac procede la Procura piemontese) e la Kopy 3, veicolò ricchi prestiti a una società in dissesto finanziario, «operazione fatta risultare – scrivono i pm – come “affitto azienda” dalla Web & press edizioni Srl di Firenze», l’ azienda che aveva incamerato finanziamenti per le campagne elettorali di Matteo Renzi, compreso quello di Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita condannato a 7 anni per appropriazione indebita.

Nell’ inchiesta piemontese è coinvolta pure Miriam Mammoliti, storica organizzatrice della Leopolda renziana: la donna è sospettata per lo «sbianchettamento» dei bilanci della Direkta e della Kopy 3. Ebbene, nei giorni scorsi un sottufficiale del nucleo operativo del fruppo Firenze 2 della Guardia di finanza ha chiesto al curatore fallimentare cuneese Alberto Peluttiero le carte sugli scambi commerciali tra Direkta e Kopy 3 (le società di Provenzano e Conterno).

Che cosa c’ entrano queste due aziende piemontesi con Firenze? Forse la richiesta è legata agli affari intercorsi con la Eventi 6? Scambi così interessanti che nel procedimento della Procura di Cuneo i pm hanno depositato anche le intercettazioni tra Conterno e i genitori di Matteo Renzi, Tiziano e Laura. L’ ennesima notizia che sugli altri giornali non ha avuto nemmeno l’ onore di una breve in cronaca.

Chi smentisce Renzi? L’ISTAT

(Andrea Del Monaco per HP)

Perché non credere a Matteo Renzi? Lo dice l’Istat.
Nel 2016 abbiamo pagato 17 miliardi di tasse in più che con Monti, 50 miliardi in più che con Berlusconi.
Il rapporto Debito/PIl continua a salire: dal 129% nel 2013 al 132,6% nel 2016.
Renzi, come Monti e Letta, ha continuato la riduzione del deficit (e degli investimenti) per raggiungere il pareggio di bilancio.
La pressione fiscale sale e poi scende di poco:
41,6% nel 2010
43,6% nel 2013
43,3% nel 2015
42,9% nel 2016
I redditi da lavoro dipendente scendono da 169,6 miliardi nel 2011 a 161,9 miliardi nel 2015.

Secondo Matteo Renzi “ci sono stati premier che andavano in Europa con la giustificazione, come a scuola, premier tecnici animati da sentimento antipatriottico e antitaliano”. Secondo i dati dell’Istat anche Renzi è andato in Europa con la giustificazione: l’austerità europea impone l’aumento delle entrate.

Per Tomaso Montanari non si può credere a Matteo Renzi. Vediamo perché: con il suo Governo nel 2016, rispetto al 2014, abbiamo pagato più tasse, imposte e contributi speciali per 14,69 miliardi. 17 miliardi in più rispetto al 2013. 36 miliardi in più rispetto al 2011. Il prelievo fiscale, ovvero la somma in termini assoluti di tasse, imposte e contributi speciali, è aumentato costantemente: 667,6 miliardi nel 2010, 681 miliardi nel 2011, 700 miliardi nel 2013, 702,59 miliardi nel 2014, 713 miliardi nel 2015, 717,28 miliardi nel 2016. Che significa? Che con la sua manovra del 2015, nel 2016 Matteo Renzi ci ha fatto pagare 14 miliardi di tasse e imposte in più di Enrico Letta, 17 miliardi in più di Mario Monti, 50 miliardi in più di Berlusconi nel 2010.

L’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi dovrebbe rammentarlo quando ripete di aver abbassato le tasse. E anche quando dice: “Se non fossi stato anche segretario del Pd, non avrei vinto sulla flessibilità: è successo perché dietro avevo il consenso al 41 per cento!”. Purtroppo la flessibilità sul deficit è una briciola: poiché ci siamo impegnati con Bruxelles alla riduzione progressiva del deficit strutturale di bilancio fino al suo azzeramento nel 2019 (il pareggio di bilancio) Matteo Renzi spaccia per flessibilità una minore riduzione del deficit rispetto a quanto chiesto da Bruxelles.

L’1 marzo 2017 l’Istat ha pubblicato il Report su PIL e indebitamento. La tabella riporta i dati dal 2010 estratti da tale documento e dal Report analogo del 2 marzo 2015. Il Governo Renzi ha continuato le politiche di austerità iniziate da Berlusconi nel 2010 perché non ha cambiato il pacchetto normativo architrave dell’austerità (l’Italia nel 2011-2013 redige e poi sottoscrive con Monti il Two Pack, il Six Pack e il Fiscal Compact).

Osserviamo cosa è successo ricordando una cosa: i dati di un anno sono la conseguenza del ciclo economico dell’anno stesso e della manovra effettuata dal governo nell’anno precedente. Così i dati del 2010 sono la conseguenza del ciclo economico del 2010 e della manovra del governo Berlusconi dell’anno 2009.

1) Il Governo Renzi riduce l’indebitamento netto più dei suoi predecessori: lo deve fare perché l’Italia, dopo l’uscita dalla Procedura per disavanzi eccessivi, si è impegnata a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2019. Importante: riducendo il deficit tagliamo gli investimenti e ci avvitiamo nella crisi.
Nel 2010 il Pil sale dell’1,7% e il deficit netto è del 4,2% del Pil.
Nel 2011 il Pil sale dello 0,6% e il deficit netto scende al 3,5% del Pil.
Nel 2012, anno peggiore della crisi internazionale, il Pil crolla del 2,8% e il deficit netto si riduce al 2,9%.
Nel 2013, dopo la manovra di Monti del 2012, il Pil cala ancora dell’1,7% e il deficit netto rimane al 2,9% del Pil.
Nel 2014, dopo la manovra di Letta nel 2013, il Pil sale solo dello 0,1% e il deficit netto è al 3% del Pil.
Nel 2015, dopo la manovra di Renzi nel 2014 e grazie alla ripresa del Pil mondiale, il Pil italiano sale dello 0,8% e il deficit netto scende al 2,7%.
Nel 2016, dopo la manovra di Renzi nel 2015 e la continua ripresa del Pil mondiale, il Pil italiano sale solo dello 0,9% e il deficit netto si riduce al 2,4% del Pil.
Quindi Renzi è stato più austero di Monti sul deficit.

2) Il Governo Renzi aumenta il prelievo fiscale come tutti i suoi predecessori; aumenta la pressione fiscale rispetto a quella dell’ultimo Berlusconi e la riduce di poco rispetto a quella di Enrico Letta. Vediamo dopo la manovra di Berlusconi nel 2009 cosa è successo:
Nel 2010 la pressione fiscale è al 41,6% e abbiamo pagato complessivamente 667,6 miliardi tra tasse, imposte e contributi speciali (il prelievo fiscale).
Nel 2011, dopo la manovra di Berlusconi, la pressione fiscale rimane al 41,6% e il prelievo fiscale sale a 681,2 miliardi.
Nel 2012 la pressione fiscale è salita di due punti percentuali al 43,6%, e addirittura abbiamo versato allo Stato 703,86 miliardi: il prelievo è aumentato di 22 miliardi (ricordate l’Imu?).
Nel 2013, dopo la manovra del Governo Monti, la pressione fiscale è rimasta stabile al 43,6% e il prelievo fiscale è sceso a 700 miliardi.
Nel 2014, dopo la manovra di Enrico Letta, la pressione fiscale scende dello 0,3% al 43,3% e il prelievo fiscale sale a 702,59 miliardi.
Nel 2015, dopo la manovra del Governo Renzi, la pressione fiscale rimane la stessa del governo Letta, il 43,3%, e il prelievo fiscale balza di 10,5 miliardi arrivando a 713,1 miliardi.
Nel 2016, dopo la manovra Renzi del 2015, la pressione fiscale scende dal 43,3% al 42,9% e il prelievo fiscale sale a 717,2 miliardi.
In conclusione, da Monti (secondo Renzi antipatriottico) all’ultimo Renzi 17 miliardi di tasse e imposte in più.

3) L’aumento del prelievo fiscale colpisce maggiormente i lavoratori dipendenti il cui reddito cala. Gli ottimisti che avversano i gufi diranno: il PIL sale degli zero virgola, e, seppur di poco, la pressione fiscale dal 43,3% di Letta scende al 42,9% nel 2016. Vero! Ma la pressione fiscale scende per chi? Per Flavio Briatore? O per l’operaio? Per la segretaria d’azienda o per il professionista titolare di un grande studio? Purtroppo sia il dato della pressione fiscale sia il dato del Pil comprendono tutti contribuenti e non esiste un’analisi differenziata per classi economiche e classi sociali. Può essere interessante vedere i redditi da lavoro dipendente; essi scendono costantemente di alcuni miliardi dal 2010.
Nel 2011 erano pari a 169,6 miliardi.
Nel 2012 scendono a 166,1 miliardi, nel 2013 calano a 164,7 miliardi.
Nel 2014 scendono ancora a 163,4 miliardi.
Nel 2015 calano ancora a 161,9 miliardi.
Purtroppo non sono presenti i dati del 2010 e del 2016. Urge una banale considerazione su cosa accade dal 2011 al 2015: la pressione fiscale sale dal 41,6% al 43,3% e il prelievo fiscale da 681 a 713 miliardi; i redditi da lavoro dipendente scendono da 169,6 a 161,9 miliardi. Quindi, i lavoratori dipendenti, in cinque anni, con un reddito che scende e la pressione fiscale che sale, hanno sentito duramente il peso dell’austerità.

4) L’11 ottobre 2016 Renzi su Rai 3 nella trasmissione Politics aveva assicurato che il rapporto Debito/PIL sarebbe diminuito nel 2016. Al contrario è salito.
Vediamo i dati:
Nel 2010 il rapporto Debito/PIL era al 115,3%, nel 2011 è sale al 116,4%, nel 2012 balza al 123,3%, nel 2013 aumenta ancora al 129%, nel 2014 sale al 131,8%, nel 2015 arriva al 132% e nel 2016 aumenta ancora al 132,6%.
La previsione di Renzi era impossibile da verificarsi in quanto le regole dell’austerità sono rimaste uguali: poiché dobbiamo azzerare il deficit, tagliamo gli investimenti e il nostro Pil cresce poco trainato solo dalla crescita mondiale. E quindi quel rapporto è destinato ad aumentare. Renzi e Padoan si sarebbero dovuti ricordare Keynes: al contrario hanno perseguito il consolidamento fiscale per obbedire al mercantilismo della Merkel. In conclusione Monti e Letta hanno perseguito le politiche di austerità rivendicando l’obbedienza al Fiscal Compact. Renzi ha continuato le stesse politiche e ha dichiarato di combattere l’austerità.

istat

Renzi salva il reddito di cittadinanza. Di Brunetta.

(sembra una barzelletta, lo so, fonte)

Non serve un reddito di cittadinanza, ma un lavoro di cittadinanza. L’idea è del segretario uscente del Partito Democratico Matteo Renzi. Parla dalla California, dove ha deciso di riflettere sulla ripartenza del suo percorso politico, attraverso il Messaggero: “Garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione, che parla di lavoro, non di stipendio. Il lavoro non è solo stipendio ma anche dignità. Il reddito di cittadinanza nega il primo articolo della nostra Costituzione”. Cosa intende per “lavoro di cittadinanza” non si sa. Mentre tutti si chiedono cosa possa essere (lavori una tantum? Socialmente utili? A chiamata?), ecco che basta fare una ricerca sul web per scoprire che la proposta del lavoro di cittadinanza Renzi non l’ha scoperta in California. Bensì in Italia, leggendo la Stampa del 9 febbraio. E’ infatti un’idea lanciata dal leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, con tanto di dossier elaborato dal consigliere economico e capogruppo a Montecitorio Renato Brunetta, non proprio un amico di Renzi. D’altra parte, dicono i maligni, i due si dovranno pur preparare a governare insieme dopo le prossime elezioni politiche, che quasi sicuramente non daranno una maggioranza definita.

La proposta di Berlusconi (e quindi di Renzi)
Gli italiani in difficoltà, spiegava la Stampa con un pezzo di Ugo Magri, sfiorano i 14 milioni. E la sondaggista di fiducia di Berlusconi, Alessandra Ghisleri, aveva confermato che a questo giro il bacino di voti da conquistare sono i poveri. Quindi non più (o non solo) abbassamento delle tasse o ritocchi alle pensioni. Ma un “reddito minimo garantito”. Anzi, il vero nome è proprio quello buttato lì, in mezzo al colloquio con il Messaggero, da Renzi: lavoro di cittadinanza. Il leader del Pd non lo spiega cos’è quindi viene in soccorso proprio il pezzo della Stampa che cita la proposta di Berlusconi e Brunetta: garantire per legge un’occupazione di 3 mesi a tutti quanti ne faranno domanda e questi 3 mesi di lavoro daranno diritto a trascorrerne altrettanti con l’indennità di disoccupazione.

L’urgenza di Renzi di trovare “parole nuove”
Il dato politico dell’uscita di Renzi è che ha l’urgenza di trovare un segno per “farsi notare”, di utilizzare un nuovo linguaggio, nuove elementi di riconoscimento per far ripartire il suo percorso politico, dopo la sconfitta al referendum costituzionale, le dimissioni da capo del governo, la crisi nera in cui ha trascinato il suo partito. Renzi ha la fretta di individuare, insomma, le nuove parole d’ordine, dopo lo svuotamento di quelle che ha usato in questi tre anni. La sua campagna elettorale per le primarie del Pd avrà il via ufficiale con la presentazione della sua mozione congressuale a inizio marzo, al Lingotto di Torino, cioè lo stesso posto in cui fu fondato il Partito Democratico nel 2007. “Dobbiamo rivoluzionare il nostro welfare che negli Usa non c’è come da noi in Europa“. Quindi, “niente rassegnazione o ripiegamenti su se stessi”, perché “il futuro prima o poi torna”, aggiunge, riproponendo un concetto usato un mese fa nel primo articolo del suo nuovo blog.

La battaglia a Orlando e (soprattutto) a Emiliano
Quindi l’operazione è stata in due mosse. Da una parte Renzi – quasi sdegnato – si è scrollato di dosso le beghe sulle primarie che hanno fatto litigare il Pd per settimane e se n’è andato in California. Dall’altra, però, vuole essere ben inserito nell’agenda del dibattito già serrato con i suoi rivali nella corsa alla segreteria del partito di maggioranza relativa. Risponde per esempio a Andrea Orlando che ieri aveva buttato lì che Renzi va in California e lui andrà a Scampia, allo Zen e a Quarto Oggiaro (nel senso che l’origine del successo del populismo va cercato nelle periferie). “Sto girando e continuerò a farlo – dice Renzi – Ora che mi sono dimesso da tutto sono un uomo libero. Sono stato a San Francisco ma anche a Scampia e lunedì andrò a Cernusco sul Naviglio“.

L’argomento reddito di cittadinanza invece sembra il campo perfetto per affrontare Michele Emiliano. La Regione Puglia, infatti, già da oltre un anno ha varato un “reddito di dignità” con 600 euro per 60mila persone. “E’ un modo di essere di sinistra in modo moderno” aveva detto il governatore. Già allora Renzi diceva che per combattere la povertà non ci vuole un reddito di cittadinanza ma un lavoro, così non sorprende che lo ripeta ancora oggi.

I redditi di cittadinanza nelle Regioni a guida Pd
Al contrario, in realtà, il Pd sperimenta già oggi in diverse Regioni d’Italia redditi di cittadinanza o simili chiamati in modi diversi e sviluppati con forme diverse. In Emilia Romagna – presidente Stefano Bonaccini, renziano – proprio quest’anno partirà una misura che distribuirà fino a 400 euro al mese in una platea di 90mila cittadini. In Friuli Venezia Giulia – presidente Debora Serracchiani, vicesegretaria del Pd, renziana – andrà avanti fino al 2018 una misura a sostegno delle famiglie, con una quota di garanzia fino a 550 euro. Provvedimento simile lo ha provato la Regione Basilicata – presidente Marcello Pittella, renziano -, dove l’assegno per circa 8mila famiglie avrebbe come base le royalty del petrolio. Ultimo caso in ordine cronologico in Regione Toscana – presidente Enrico Rossi, uscito dal Pd, proponente Leonardo Marras, capogruppo renziano – dove la proposta in discussione in consiglio propone di dividere 35 milioni di euro in favore di 54mila famiglie in difficoltà.

Il M5s: “Si è dimenticato che ha governato per 3 anni”
Nel frattempo le opposizioni al governo rispondono a Matteo Renzi. “Lavoro di cittadinanza? Ci chiediamo come mai non ci abbia pensato negli ultimi 3 anni in cui ha governato il Paese” dichiarano i parlamentari M5S delle commissioni Lavoro di Camera e Senato. “Il Jobs Act doveva creare lavoro – proseguono i Cinquestelle – ma oltre ad essersi rivelato un vero e proprio sperpero di miliardi di euro, è servito solo per rendere il mondo del lavoro più precario ed insicuro. Renzi non ha alcuna credibilità ed ha dimostrato di non aver mai avuto alcuna visione di futuro”.

Parla invece di “merce tarocca” il senatore di Forza Italia Lucio Malan. “Dopo aver messo in campo con il Jobs Act una riforma del mercato del lavoro disastrosa, i cui costi sulle tasse degli italiani sono andati in gran parte a beneficio delle aziende per assunzioni che avrebbero fatto comunque, Renzi ora lancia il vuoto slogan del lavoro di cittadinanza, cercando di pescare voti grillini con la scopiazzatura del nome. Insomma il ‘lavoro di cittadinanza’ è merce tarocca come quella che vendono abusivamente certi clandestini importati dal suo governo”.

“La proposta di Renzi sul lavoro di cittadinanza arriva fuori tempo massimo – sottolinea il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa – L’attenzione doverosa verso i soggetti più fragili doveva caratterizzare le riforme messe in campo quando Renzi era premier. Farlo ora appare un’operazione alquanto sospetta e volta a inseguire il Movimento 5 Stelle”. Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni è sarcastico: “Renzi è proprio geniale. Perché, che il lavoro è condizione di una cittadinanza degna è scritto nel primo articolo della Costituzione, quella che lui voleva demolire, e perché – sempre lui – ha fatto approvare il Jobs Act – di cui continua a cantare le lodi contro ogni ragionevole evidenza – che aveva come principale obiettivo quello di rendere più facile il licenziamento di chi un lavoro lo ha già.

Si sveglia Staino: «Renzi, mi hai profondamente deluso»

Il direttore dell’Unità, Sergio Staino, rende pubblica la mail che ha scritto venti giorni fa al segretario del Pd Matteo Renzi e da cui emerge la delusione per come il Pd sta affrontando la questione relativa alla sorte del quotidiano e di chi vi lavora. In un passaggio della mail Staino ricorda quando Renzi gli disse ‘Voglio un giornale bello, di tante pagine e non preoccuparti per i soldi… quelli ci sono!’, aggiungendo: “Dirti quindi che sono profondamente deluso, e in prima fila deluso da te, è dir poco. Pensavo che il giornale ti servisse per ravvivare quella base che nel territorio si sta disperdendo nell’astensionismo o, peggio ancora, nel grillismo”.

In un comunicato che accompagna la divulgazione del contenuto della mail, Staino scrive: “Io ti ho sempre apprezzato per quel tuo continuo ripetere ‘ci metto la faccia’, è possibile che questo non valga per l’Unità?”. Staino spiega anche che, se oggi il giornale fosse stato in edicola (non è uscito per lo sciopero dei giornalisti, ndr), il suo editoriale sarebbe stato appunto quella lettera indirizzata al segretario del Pd il 23 dicembre, lettera che “mi sembra rileggendola adesso, mantenga tutta la sua attualità. Due giorni fa – prosegue il comunicato del direttore – la situazione di agitazione al mio giornale è esplosa per una comunicazione a ciel sereno da parte dell’amministratore delegato in cui si annunciava la fine delle trattative su una revisione nei ruoli dei giornalisti e dei rispettivi emolumenti, passando di fatto a una riduzione di personale non specificando né in che numero né in che modo. Questa notizia, di per sé molto spiacevole, è stata però superata ieri 12 gennaio, dall’assemblea dei soci proprietari de l’Unità che ha di fatto rinviato al primo febbraio la dichiarazione di liquidazione della stessa società”.

In particolare – prosegue Staino – il socio di minoranza, cioè il PD, ha proposto una ricapitalizzazione dell’azienda di 5 milioni di euro, 1 milione il PD e 4 milioni la Pessina, socio di maggioranza. Quest’ultimo “ha dichiarato la propria disponibilità a ricapitalizzare a patto che il PD cedesse la golden share de l’Unità che appartiene totalmente al socio di minoranza alla stessa Pessina. Tutto questo perché la Pessina imputa al PD una gestione deleteria dello stesso giornale causata soprattutto da uno straordinario assenteismo nei confronti della presenza del giornale nel partito, nella società e nel territorio. In effetti, come ben sappiamo, anche se storicamente il padrone è sempre e comunque una carogna e quindi anche in questo caso la Pessina non può dichiarare la sua totale innocenza nella crisi gestionale ed economica de l’Unità, è ben vero che il problema principale rimane un problema politico. La lettera che qui riproduco evidenzia in modo molto chiaro quali sono le problematiche più gravi di questa gestione”.

E a Renzi il direttore dell’Unità aveva scritto “perchè credo di essere ormai giunto alla fine delle mie forze. Dopo tre mesi di esperienza alla direzione de l’Unità puoi bene immaginare dove sia finito tutto l’entusiasmo che avevo messo nel fare questo lavoro. Ero abbastanza impaurito perchè immaginavo la quantità di problemi in cui mi sarei ritrovato anche se, devo dirti con sincerità, che mai immaginavo che la quantità fosse così enorme e pesante”.

E quindi l’elenco delle difficoltà. A cominciare da quelle umane:

“Parlare e trattare con il tesoriere del PD Bonifazi e con l’amministratore delegato Stefanelli, ti assicuro è esperienza che non augurerei a peggior nemico. Meglio assai con Massimo Pessina e Chicco Testa che sono persone se non altro trasparenti e razionali. Non parliamo dell’aspetto economico che mi immaginavo grave ma non tale da bloccare ogni pur minima iniziativa di rilancio del giornale. E poi il personale umano e l’isolamento del giornale. Questo è l’aspetto che mi addolora di più: mi sono reso conto – scriveva Staino a Renzi – che non c’è nessuno nel partito che sia interessato a questo foglio. Ho un bel rapporto con i compagni di base più vecchi, ho un buon rapporto con un pò di giovani che si sono avvicinati, ho un buon rapporto con quel che resta dei ‘Giovani Turchi’ e ho un buon rapporto di confronto con alcuni compagni a te non troppo vicini, da Macaluso a Reichlin, a Cancrini, a Cuperlo, Veltroni, Fassino e tanti altri, che lo seguono, lo commentano, mi aiutano. Ma tu e i tuoi? Zero”.

Quindi aggiungeva: “Credo che anche tu sia fra quelli che neanche scorre la prima pagina del giornale”. E ancora: “Pensavo ti servisse uno strumento per ricucire queste forze, per rimetterle in circolo, per far sì che dalla base ti arrivasse quell’ondata di rinnovamento che caratterizzò la tua prima uscita, quella del rottamatore, e che ti avrebbe aiutato a riporre il partito alla centralità del nostro lavoro politico. Per questo ero pronto a fare molti sacrifici, ero pronto a fare un bellissimo giornale mantenendo il livello di spesa dell’attuale o addirittura riducendolo, riducendo il personale (che è un sacrificio politico terribile), riducendo il formato e puntando su un giornale piccolo, brutto e cattivo ma pieno di grande intelligenza e di cose che non si trovano negli altri giornali. Di cose che sono strumenti, conoscenza, elementi di lavoro per chi giorno per giorno nei territori e nelle amministrazioni e nelle aggregazioni culturali e sociali porta avanti il lavoro del partito. Purtroppo non è così. In nessun momento il partito ha dato un segnale nei confronti miei e del giornale”.

Staino scriveva inoltre “speravo che tu mi avresti fatto parlare in piazza del Popolo, almeno due minuti per presentare il rilancio del giornale e dire che il giornale era al tuo fianco ed era lì in piazza a testimoniare la voglia di rinascita. Speravo che tu mi avresti presentato alla Leopolda come nuovo direttore da ascoltare e soprattutto aiutare in questo grosso lavoro. Al contrario, ai diffusori del nostro giornale non è stata neanche data l’autorizzazione per entrare alla Leopolda (nonostante fuori piovesse a diluvio). All’ultima assemblea nessuno ha accennato alla presenza del giornale e a un suo possibile ruolo nel rilancio del partito, al contrario, l’unica volta che è stata nominata l’Unità è stato perché un rappresentante della minoranza ci ha accusati di averli riempiti di vituperi ed offese. E poi adesso. La necessità di un incontro per sapere dove andiamo a finire rinviata di settimana in settimana, sempre cose più importanti de l’Unità, sempre cose più urgenti. È naturale che mi venga una gran voglia di togliere il disturbo”. L’occasione – annunciava Staino – proprio il Cda fissato per oggi (e che c’è stato, ndr) “in cui si sanzionerà l’ennesimo fallimento e l’ennesima chiusura. Cosa ne guadagni questo lo sa solo Dio. Cosa ne guadagni tu, cosa ne guadagna il partito, cosa ne guadagna la sinistra e l’intera società”.

(fonte)

Pazza idea: evitare il referendum sul Jobs Act

Ne scrive Luca Sappino su Left qui:

La bomba l’ha sganciata Poletti, svelando ciò che Left aveva tristemente subodorato – tant’è che sul prossimo numero in edicola, Tiziana Barillà chiede direttamente a Maurizio Landini cosa farà se il Pd dovesse spingere per far finire la legislatura anticipatamente, con una tempistica utile a far slittare il referendum sul jobs act, quello sui voucher e gli altri quesiti “sociali” su cui la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Perché questa, dice Poletti, è l’idea dei più. «Mi sembra», ha detto il ministro ai cronisti, «che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto. E se si dovesse andare ad elezioni anticipate diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul jobs act sarebbe rinviato».

[…]

La legislatura, insomma, dovrebbe finire prima di aprile. O prima della data che si assegnerà alla consultazione. Questo perché la legge 352 del 1970 stabilisce che «ricevuta comunicazione della sentenza della Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri», indica con decreto il referendum, fissando la data di convocazione «in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno». E però, «nel caso di anticipato scioglimento delle Camere», continua la legge, ben chiara nella testa di Poletti, «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso», destinato a slittare ben un anno dopo, almeno, le elezioni. Renzi, così, non rischierebbe di veder demolita, dopo la riforma costituzionale, un’altra sua legge-manifesto.

(l’articolo completo è qui)