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Memoria

Abolire i Decreti Sicurezza, piuttosto che inginocchiarsi?

La vicenda di come la politica italiana stia declinando qui da noi ciò che accade negli Usa è altamente indicativa di una messa in scena che sembra avere preso il sopravvento sulle responsabilità di governo. Alcuni membri del Parlamento, di quelli che al governo ci sono, hanno deciso di inginocchiarsi come segno di solidarietà per la morte di George Floyd e per i diritti di tutti gli oppressi di qualsiasi etnia. Il gesto ha un’importante valenza simbolica, soprattutto alla luce della narrazione tossica che certa destra sta facendo della rivoluzione culturale in atto negli Usa che qualcuno vorrebbe banalizzare in qualche vetrina spaccata perdendo il focus e il senso del tutto.

Bene i simboli, benissimo. Però da un governo che si dice solidale con chi sta lottando contro la discriminazione ci si aspetterebbero anche degli atti politici, mica simbolici. I decreti sicurezza di salviniana memoria, ad esempio, sono una perfetta fotografia: criticati da ogni dove quando furono applicati durante il governo Conte I divennero la bandiera del centrosinistra su ciò che non si doveva fareAll’insediamento del Conte II ci dissero che l’abolizione di quei decreti sarebbe stata una priorità. La priorità è praticamente scomparsa. E pensandoci bene è scomparso anche tutto il dibattito sullo ius soli e sullo ius culturae che nessuno da quelle parti ha nemmeno il coraggio di pronunciare.

Così noi dovremmo accontentarci di una classe politica che fa esattamente quello che possiamo fare noi semplici cittadini scendendo in piazza come se non avessero loro le leve per modificare le cose. È tutto solo manifestazione d’intenti come se fossimo in eterna campagna elettorale e non ci sia un governo regolarmente insediato. Se invece il problema sta nell’alleanza con il Movimento 5 Stelle che è contrario all’abolizione dei decreti e a un serio percorso di integrazione e di diritti allora sarebbe il caso di dirlo e di dirlo forte per chiarire il punto agli elettori disorientati.

Non si governa con i simboli. Non basta più. I dirigenti non manifestano, agiscono.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

“Vecchia schifosa, hai imparato molto bene a memoria la tua bugia”: ecco cosa scrivono a Liliana Segre

“Vecchia schifosa, hai imparato molto bene a memoria la tua bugia”. Questo è uno degli insulti ricevuti sul web dalla senatrice a vita Liliana Segre, testimone dell’Olocausto e sopravvissuta al campo di concentramento nazista di Auschwitz. Intervenendo all’Accademia dei Lincei a Roma, nella sede di Palazzo Corsini, la senatrice ha svelato di aver ricevuto insulti negazionisti e di averli denunciati alla polizia postale, anche se l’anonimato non ha permesso l’individuazione dei responsabili.

Parlando davanti a professori e accademici nell’incontro ‘Il futuro della memoria‘, la parlamentare superstite della Shoah ha affermato la necessità di “combattere ogni giorno” l’odio, rispondendo ai negazionisti: “Ora che, per motivi di calendario, carnefici e vittime di quella stagione stiamo morendo uno dopo l’altro ha detto – noi pochi sopravvissuti siamo in prima linea. Spesso siamo lodati ma veniamo anche criticati, trattati da pazzi. O anche da bugiardi“.

“Viviamo in un brutto momento – ha ammonito Segre – in cui i negazionisti, che vogliono far dimenticare e vogliono cancellare la memoria, si fanno sempre più avanti, e sempre più forti…”. La senatrice ha spiegato che non è la prima volta che viene attaccata sui social. E ha ribadito che comunque andrà avanti nella sua attività di denuncia e di contrasto all’odio e al razzismo. Come del resto sta già facendo da tempo anche in Parlamento, come dimostra la presentazione in Senato del disegno di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare di indirizzo e controllo “sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza”, il cui esame in commissione Affari costituzionali non è ancora cominciato.

Raccontando il suo approdo in Parlamento dopo la nomina a senatrice a vita da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Segre, nata a Milano da famiglia ebrea, ha ricordato: “Ho detto che a 13 anni ero stata una richiedente asilo e che quell’asilo mi venne negato sul confine svizzero, e che poi ero stata deportata, usata come operaia schiava nei campi di sterminio. Che non avevo alcun merito nell’arrivare in quell’aula: solo essere sopravvissuta all’odio, a un genocidio che colpiva persone colpevoli solo di essere nate”.

(fonte)

Di Liliana Segre c’è un libro assolutamente da leggere pubblicato dagli amici di People: lo trovate qui.

La memoria stracciata

La memoria è delicata. Ha radici forti, piantate dentro le vittime e i sopravvissuti, ma partorisce foglie giovani che qualche belva si diverte a masticare, sputandole al contrario, facendone fertilizzante per l’odio, capovolgendo la Storia. Non so se anche voi abbiate la sensazione che questo Giorno della Memoria sia stato il peggior Giorno della Memoria, personalmente lo è, per gli anni che ho: divisivo, incarognito, sporcato, tirato come uno straccio a rubabandiera sulla spiaggia, stracciato. Senza misura.

In fondo, la memoria, come tutto ciò che ci richiede il coraggio di andare a fondo, è fuori tempo proprio per i modi: niente spremiture dentro un tweet, non ha nulla a che vedere con le parole usate come lame, ha bisogno di orecchie pulite.

E allora perché aggiungere retorica quando, a memoria, potremmo mandare la prefazione di Primo Levi al suo Se questo è un uomo che è la cosa più moderna, appuntita, vera e forte che mi sia mai capitato l’onore di leggere. Eccola qua:

Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.

Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.

Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno: in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano, ed è posteriore.

Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato.

Buon lunedì.

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La memoria stracciata

La memoria è delicata. Ha radici forti, piantate dentro le vittime e i sopravvissuti, ma partorisce foglie giovani che qualche belva si diverte a masticare, sputandole al contrario, facendone fertilizzante per l’odio, capovolgendo la Storia. Non so se anche voi abbiate la sensazione che questo Giorno della Memoria sia stato il peggior Giorno Della Memoria, personalmente lo è, per gli anni che ho: divisivo, incarognito, sporcato, tirato come uno straccio a rubabandiera sulla spiaggia, stracciato. Senza misura.

La memoria è un muscolo

Se avete la sensazione che non serva ripetere ciò che è accaduto, raccontare le vostre preoccupazioni, sottolineare le similitudini con i tempi più bui costringetevi a non cadere nell’inedia: sulle ripetizioni delle bugie e delle falsità questi hanno costruito una diga che ha bisogno di resistenza con la stessa intensità di martellate, lo stesso ritmo se non di più, con l’etica di ciò che è stato e che dobbiamo ricordarci di ricordare.

Se vi capita di ottundere o limare un vostro pensiero per non doversi sorbire il letame degli odiatori seriali o dei topi sdoganati da questo tempo non cedete. Insistete. Scrivetelo e ditelo più forte che potete. La loro forza è la stanchezza degli altri, le loro idee sono coprenti ma vuote. Il loro spessore è la nostra stanchezza, il loro volume è il silenzio tutto intorno.

Se vi capita di pensare che ormai anche quest’ultima notizia sia solo l’ennesima non cadete nel tranello dell’abitudine: perseverare significa tenere dritta la barra che separa il giusto dall’ingiusto, l’infamia dalla legge, riconoscere l’odio spacciato per diritto. C’è da separare il grano dal sale tutti i giorni, ogni ora, colpo su colpo. Abituarsi all’orrore è l’inizio della legittimazione. Il silenzio è la culla degli orrori. Solo dopo vengono i loro seguaci.

La memoria è un muscolo. E ha bisogno di esercizio, faticoso e quotidiano, per rimanere lungo e allenato. La memoria funziona se è una lente sempre accesa sul presente, mica se diventa una cerimonia del passato. Ed è tempo di memoria. Tanta, forte, appassionata. E dura. Sì, dura. Perché la memoria è un muro che non si sbriciola sotto i colpi della propaganda.

Buon martedì.

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Bruciata nel ghetto. Nel giorno della Memoria

La memoria non si commemora. non basta. La memoria si esercita: si esercita riconoscendone i tratti nel mondo che ci circonda, si esercita declinandola in altri tempi e in altri luoghi come se fosse sempre nuova, si esercita tenero levigato il rigore morale, si esercita allungando il muscolo della curiosità.

Forse con una memoria ben allenata non ci saremmo persi questo 27 gennaio, mentre commemoravamo la memoria di quello che fu, non accorgendoci che una donna bruciata nel ghetto è stata qui, da noi, proprio nella notte tra venerdì e sabato a San Ferdinando, pochi passi da Rosarno. Auschwitz nel 2018 è in provincia di Reggio Calabria. Ma l’indifferenza non fa scalpore.

Becky Moses aveva ventisei anni e aveva trovato rifugio nel ghetto da appena tre giorni. Avrà pensato che era una bella fortuna trovare un po’ di ristoro dal freddo, in mezzo ad altra gente, con un tetto sulla testa anche se fatto di niente. Era stata ospite di un centro d’accoglienza, aveva una casa e stava imparando un mestiere: quando è arrivata due anni fa dalla Nigeria (c’è bisogno davvero di ricordare cosa subiscano le donne, in Nigeria? No, vero?) finché qualche settimana fa quando ha ricevuto il rifiuto alla sua richiesta di asilo politico. Ha dovuto cercare un riparo. Alcuni suoi connazionali l’hanno ospitata nel ghetto. L’incendio dei giorni scorsi non le ha dato scampo.

Il ghetto di Rosarno, tra l’altro, meriterebbe anche lui una di quelle pompose giornate alla memoria che piace tanto ai sepolcri imbiancati. È stato “scoperto” dall’opinione pubblica quasi dieci anni fa per la rivolta dei braccianti sottopagati che dormono lì. Ed è sempre lì.

Il fumo dal camino nel 2018 ha l’odore della plastica che si fa cenere per un braciere acceso per scaldarsi. È ha l’odore di Becky Moses.

Buon lunedì.

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Come cambia il ricordo ai tempi dei social

Ornella Tajani ne scrive per Nazione Indiana. E vale la pena leggerlo:

Nel web, ormai, nulla si perde. Nel suo saggio Mobilitazione totale (Laterza, 2015), Maurizio Ferraris scriveva che il web è diventato uno strumento di registrazione prima che di comunicazione, provando a dimostrare come tale registrazione sia alla base della microfisica del potere attualmente dominante. Per Ferraris addirittura «molto più della crescita demografica, il tratto caratteristico degli ultimi due secoli, che ha subito una impressionante accelerazione negli ultimi decenni, è stata la crescita degli apparati di registrazione, e di conseguenza della iterabilità di fatti, oggetti, eventi, atti». La registrazione, come è ormai chiaro, è diventata propedeutica a ogni esperienza e fruizione: non ci si telefona più, ma si lascia un messaggio registrato su Whatsapp; non si guarda più il Van Gogh al Musée d’Orsay, ma se ne archivia una copia fotografica nello smartphone, e questo per limitarmi a due esempi minimi e immediati sulla larga scala disegnata da Ferraris, per il quale

 

la registrazione è il trascendentale (ossia la condizione di possibilità) dell’emersione [che è a sua volta la «linea continua che porta dal mondo naturale al mondo sociale», n.d.r.], in quanto, attraverso la sua funzione fondamentale, che è di tener traccia di una impressione, consente il crearsi di strutture articolate.

 

La registrazione conserva la traccia dell’impressione; dunque, recuperando quella traccia, io posso, in teoria, ricevere nuovamente la medesima impressione: che ne è allora della funzione mentale del ricordo? Con «Accadde oggi» Facebook prova a convincerci di aver registrato anche i nostri ricordi, che sono invece solo la traccia parziale dell’attività compiuta sul social in quel determinato giorno.

 

Di fatto, – prosegue Ferraris – la caratteristica essenziale del web non è la trasparenza ma l’asimmetria tra ciò che sa l’utente e ciò che sanno le compagnie di gestione. La registrazione assicura un sapere su tutte le operazioni compiute in rete, di qui la situazione asimmetrica: l’utente sa molto poco, l’apparato sa tantissimo.

 

L’apparato sa tantissimo, e può decidere in questo caso cosa farci ricordare. L’utente sa molto poco, e sempre di meno, perché i dati forniti sono sempre maggiori e non lasciano traccia, le memorie un tempo archiviate nel pc diventano esterne fino a trasformarsi in cloud fluttuanti nell’etere, e le registrazioni disegnano quella «iterabilità di fatti» così fitta da farsi ingestibile per il singolo. Da un certo punto di vista, sembra quasi che la registrazione si opponga al ricordo, esonerandoci dal dovere di ricordare, perché tanto in una penna usb resterà una copia di quell’esperienza che nel frattempo sparisce dalla memoria: il ricordo, in un certo senso, diventa innecessario, finendo con l’apparire una funzione mentale desueta. La memoria si fa archivio, un archivio a portata di click, consultabile senza sforzi neuronali, senza il bisogno di attivare una qualsiasi connessione cerebrale; se è vero che essa è una forma di fiction, la sua lenta trasformazione in archivio digitale consente di selezionare agevolmente le scene da montare per ricostruire il film di una vita.
(l’articolo è qui)

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)