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Michael Young

Il feticcio della meritocrazia (avvelenata)

«Voglio sgon­fiare il mito della meri­to­cra­zia come la via da seguire per tutti. E credo che in una certa misura si stia già sgon­fiando da sé: le per­sone sanno che non esi­ste più la mobi­lità sociale di un tempo. Come disse Ray­mond Wil­liams anni fa, la meri­to­cra­zia ino­cula l’idea vele­nosa della legit­ti­mità delle gerar­chie. Che sulla ’scala’ sociale pos­sano salire solo alcuni». Così Jo Lit­tler, senior lec­tu­rer in cul­tu­ral stu­dies alla City Uni­ver­sity di Lon­dra, incon­trata a Soho nei giorni scorsi. Lit­tler sta lavo­rando a un libro, titolo prov­vi­so­rio Against Meri­to­cracy, che Rou­tledge pub­bli­cherà verso la fine del 2015. Quell’against, lascia poco spa­zio alle inter­pre­ta­zioni: è un libro con­tro una meri­to­cra­zia vista come volano di dar­wi­ni­smo sociale. Basti pen­sare a certe scelte les­si­cali di Mat­teo Renzi per capire quanto la meta­fora sub spe­cie finan­zia­ria della «sca­lata» sia ormai iscritta nella dia­let­tica poli­tica delle post-sinistre euro­pee. Per que­sto è urgente esplo­rarne l’ambiguità e sma­sche­rarne l’uso ideologico.

Nel dibat­tito poli­tico con­tem­po­ra­neo la meri­to­cra­zia, infatti, imper­versa. Sban­die­ran­dola enfa­ti­ca­mente come pana­cea della disu­gua­glianza – quando in realtà può esserne altret­tanto tran­quil­la­mente anno­ve­rata tra le cause – la cul­tura d’impresa si fa spa­zio nel corpo sociale, sosti­tuendo le pro­prie logi­che di pro­fitto a quelle su cui si è retto l’assetto wel­fa­ri­sta euro­peo del secondo dopo­guerra. E poi, come si fa a sca­gliarsi con­tro il merito? Nel les­sico poli­tico da ricrea­zione sco­la­stica ora vigente, una pun­tuale accusa di «gufi» è pres­so­ché assi­cu­rata. Peg­gio che met­tere l’iPhone den­tro a un gettone.

Elite sem­pre in testa
Sì, per­ché il merito è il cavallo di Troia con il quale il neo­li­be­ri­smo ha fatto un’etica irru­zione nella cit­ta­della post-socialdemocratica della sini­stra euro­pea. In que­sto cavallo Mat­teo Renzi – un tar­divo epi­gono blai­ri­sta quando Blair in patria è ormai ple­bi­sci­ta­ria­mente un paria – non ha certo biso­gno di nascon­dersi: anzi, lo cavalca come Tex Wil­ler, strap­pando ova­zioni al gio­vane eser­cito di riserva, plu­ri­ti­to­lato e sot­toc­cu­pato, che di Renzi è entu­sia­sta soste­ni­tore. Ma il conio del ter­mine è natu­ral­mente avve­nuto nella sfera anglo­li­be­rale, ed è qui che si è avviata una discus­sione inte­res­sante sull’uso ideo­lo­gico a tap­peto che ne fanno i media anglosassoni.

«Comin­cia a dif­fon­dersi un sano scet­ti­ci­smo sulla meri­to­cra­zia, nono­stante la piog­gia media­tica che ci pro­pi­nano i talent shows – spiega ancora Lit­tler – Sto inda­gando sulle moda­lità con le quali le élite dram­ma­tiz­zano e sen­sa­zio­na­liz­zano le pro­prie vicende bio­gra­fi­che per pro­pa­gan­darle. Come cer­cano di pre­sen­tarsi in qua­lità di indi­vi­dui ordi­nari per dis­si­mu­lare il pro­prio pri­vi­le­gio e dif­fon­dere l’idea che si tro­vano lì per­ché se lo sono meri­tato. La fami­glia reale, in que­sto senso, è molto inte­res­sante: è riu­scita a ria­bi­li­tarsi come appunto ’nor­male’. Oppure basti pen­sare al suc­cesso di serie tele­vi­sive come Dawn­ton Abbey, dove le dif­fe­renze sociali sono rese gla­mour e legit­ti­mate attra­verso l’espediente nar­ra­tivo».

È ovvio che il merito abbia anche molti aspetti posi­tivi, come ad esem­pio la crea­ti­vità, che vanno senz’altro sot­to­li­neati. Per que­sto Lit­tler intende ricrearne la tra­iet­to­ria sto­rica e ideo­lo­gica. «M’interessa rico­struirne lo svi­luppo nella teo­ria sociale, nel dibat­tito poli­tico, nella cul­tura. Que­sti tre fili sono molto intrec­ciati e troppe volte uti­liz­zati in modo da sot­trarre ter­reno morale all’indignazione nei con­fronti della disu­gua­glianza». Il libro è un ten­ta­tivo di rico­struire la nascita e la cir­co­la­zione del ter­mine nei suoi rivoli seman­tici, «giac­ché tal­volta è usato in modo addi­rit­tura sprez­zante, cosa secondo me peri­co­losa. Natu­ral­mente il rischio è che mi si possa scam­biare per autocratica».

Vista ini­zial­mente con sospetto dalla socio­lo­gia d’ispirazione Labour, la meri­to­cra­zia è stata poi sdo­ga­nata dai think tank con­ser­va­tori bri­tan­nici che, dagli anni Ottanta in poi, sono diven­tati i labo­ra­tori – ege­mo­nici e paneu­ro­pei loro mal­grado – di poli­ti­che bipar­ti­san di riforma del wel­fare e ten­denti a una sem­pre mag­giore inva­denza del pri­vato nel pub­blico. Il ter­mine meri­to­cracy viene con­ven­zio­nal­mente fatto risa­lire al socio­logo di area Labour Michael Young (1915–2002), che nel 1958 scrisse il sag­gio sati­rico The Rise of the Meri­to­cracy, anche se era stato usato due anni prima da un altro socio­logo, Alan Fox, per poi pas­sare nel reper­to­rio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il ter­mine ha una con­no­ta­zione nega­tiva. È una visione disto­pica, che paven­tava ciò che sostan­zial­mente sta acca­dendo oggi: una cre­scente distanza e imper­mea­bi­lità tra l’élite dei meri­te­voli e la stra­grande mag­gio­ranza dei «non meri­te­voli», ai quali si tol­gono gli ammor­tiz­za­tori sociali pro­prio in quanto tali.

È uno di quei casi iro­nici della sto­ria che il figlio di Young, l’assai più noto Toby, sia un gior­na­li­sta pati­nato in forza al Daily Tele­graph. «È stato il padre di Toby a scri­vere il libro, è vero, un’ironia che viene spesso evi­den­ziata – afferma Lit­tler – Ma lo stesso Young padre pre­sen­tava delle ambi­guità. Michael era più inte­res­sato alle poli­ti­che dell’istruzione e alla stra­ti­fi­ca­zione sociale, ed è lì che il ter­mine assume una con­no­ta­zione più sfo­cata. Anche se lo usa in modo sati­rico o come per rife­rirsi sfron­ta­ta­mente alle divi­sioni sociali, in ultima ana­lisi la sua cri­tica del capi­ta­li­smo è a dire poco ambi­gua. A rileg­gere i suoi scritti, Young emerge come figura dav­vero inte­res­sante. Era uno stu­dioso inno­va­tivo, ma non privo di una certa ambi­guità: come per esem­pio quando disse di non essere del tutto a favore delle com­pre­hen­sive schools, una strana dichia­ra­zione. Se poi si con­si­de­rano gli ambienti sociali che fre­quen­tava, era vicino all’assai più libe­rale Daniel Bell».

Indi­vi­duo pri­gio­niero
Pro­prio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave nell’allineamento della sini­stra mode­rata in difesa del capi­ta­li­smo in cui sono rav­vi­sa­bili i pro­dromi dell’uso del con­cetto da parte del neo­li­be­ri­smo nella sua decli­na­zione that­che­riana. «That­cher è stata senz’altro una figura chiave nella dif­fu­sione delle idee neo­li­be­ri­ste, ma pen­sando a lei va ricor­data soprat­tutto la part­ner­ship fon­da­men­tale con Ronald Rea­gan: tanto per ricor­dare che non era sol­tanto ’una mal­va­gia donna, una strega’, come spesso l’apostrofavano i suoi detrat­tori, l’unica respon­sa­bile di un pro­cesso sto­rico com­plesso. È utile pen­sare anche a cosa abbia rap­pre­sen­tato, al modo in cui ha imma­gi­nato la poli­tica».

Eppure, dai media main­stream, That­cher è costan­te­mente addi­tata a sim­bolo di pos­si­bili con­qui­ste fem­mi­nili, quasi una forza eman­ci­pa­trice. «È inte­res­sante l’aspetto ’fem­mi­ni­sta’ attri­buito alla sua figura. Era tutt’altro che fem­mi­ni­sta ovvia­mente, e cercò di distan­ziarsi il più pos­si­bile da qual­siasi acco­sta­mento a obiet­tivi fem­mi­ni­sti: ne è riprova la demo­niz­za­zione sociale e cul­tu­rale delle madri sin­gle ope­rata dal suo governo, la cui stra­te­gia sem­bra tut­tora quella di incol­pare le vit­time di pri­va­tiz­za­zioni e disoc­cu­pa­zione per il pro­prio males­sere sociale».

È con That­cher che si sostan­zia per la prima volta il con­cetto nel senso della con­trap­po­si­zione fra l’individuo e le sue chance di rispon­dere alle sfide del mer­cato. Nel suo pre­sen­tarsi come matrona della nazione, That­cher ha fatto uso di par­ti­co­lari ele­menti del fem­mi­ni­smo e deli­be­ra­ta­mente a meno di altri. «La sua è una fem­mi­ni­lità quasi astratta, deses­sua­liz­zata: per esem­pio, non faceva mai rife­ri­menti alla pro­pria fami­glia. Ci sono molti studi che al momento affron­tano il ripo­si­zio­na­mento della fem­mi­ni­lità in una vera e pro­pria cul­tura d’impresa, dove la donna è inco­rag­giata a pen­sare a sé in quanto pro­getto indi­vi­duale, a miglio­rare il pro­prio sta­tus e mobi­lità sociale attra­verso l’autopromozione. L’individuo è inco­rag­giato a pen­sarsi come pro­getto: una sorta di ’impren­di­to­ria­liz­za­zione’ del sé».

(Il manifesto, 3 dicembre 2015)