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minacce

Non muoio nemmeno se mi ammazzano

Adesso mi piacerebbe vedere la faccia che faranno tutti quelli che si sono riempiti la bocca in tutti questi ultimi mesi. Mi piacerebbe anche ascoltare i soloni che hanno potuto piantare la bandiera sul mio “cambiamento” che li ha confortati nella loro opera di demolizione, mi piacerebbe guardare tutti quelli che hanno giudicato le mie vicende personali, la mia separazione, i miei amori e le mie paure senza nemmeno avere un secondo per cogliere le parole “giuste”, sempre impegnati come sono con il pennarello rosso a dimostrare che “hai visto, è vero, alla fine era tutto un bluff”.

Adesso mi piacerebbe anche guardare diritto negli occhi chi  ha sorriso dando di gomito parlando di me e “della velina”, negli aperitivi dove gli affetti degli altri sono più golosi delle pizzette e pesano meno delle briciole di una patatina. Mi piacerebbe anche sapere come ci si può sentire con il brivido di potere dimostrare e raccontare che tutte le malevolenze stavano realizzandosi senza nemmeno fare fatica, ché sembrava così bello che facessi tutto io.

Mi piacerebbe sapere anche cosa ne pensano i giornalisti, quelli che fanno antimafia come se fosse gossip, che stanno in provincia perché hanno le vertigini appena ci si alza un po’ e esibiscono l’amicizia con il maresciallo del paese come se fosse un riscatto sociale.

Mi piacerebbe sapere anche cosa ne pensano tutti quelli che mi hanno raccontato immerso nella “mondanità” tutta romana o televisiva mentre cercavo di fare quadrare le responsabilità, quelle perse e quelle trovate, quelle che ho costruito per anni mentre mi venivano affettate in pochi minuti.

Mi piacerebbe, oggi, telefonare a quelli che dicono che Giulio si è perso, che non scrive più come una volta, che si è bruciato, che è un bluff, che è un padre snaturato, un marito irresponsabile, un prodotto solo editoriale, uno incapace di fare gruppo, un minacciato per finta o uno che in questi ultimi mesi ha preferito divertirsi.

Ecco, mi piacerebbe sapere, come dovrei essere, secondo i vostri canoni idioti e superficiali come mosche, cosa dovrei scrivere in questi giorni in cui un pentito sta descrivendo punto per punto, nome per nome, incontro per incontro, il progetto che avrebbe dovuto ammazzarmi. E che si è svolto per un bel pezzo più con l’aiuto degli altri, che dei mafiosi stessi, con quelle convergenze degli utili cretini che sanno sempre cosa sarebbe giusto fare senza farsi domande.

Ditemi voi, che mi avete giudicato tutti questi ultimi mesi, cosa devo scrivere dopo avere letto la sceneggiatura della mia morte ammazzata.

Adesso ci prendiamo del tempo. Ancora. E se vi spiace io non ho tempo e voglia di dispiacermene.

Spara più la politica che la ‘ndrangheta

Provate ad immaginare un sindaco antimafia. Non ce ne sono molti. Anzi ce ne sono molti che si professano sull’antimafia pubblicitaria delle commissioni come bomboniere politiche, ce ne sono alcuni che invitano un magistrato scelto a caso nel mazzo per schierarsi sui quotidiani locali, ce ne sono altri che professano antimafia come un catechismo incontestabile per questioni di fede e poi gli antimafiosi sulla scia di Maroni che si appuntano al petto le vittorie degli altri mentre li stremano per decreto.

Ma poi ci sono anche i sindaci antimafia: quelli che  la mafia la incrociano sotto casa, si sfiorano al bar e poi si mettono sotto a disinnescare mafie in Consiglio Comunale. Non fanno molta notizia, esistono solo se minacciati giusto il tempo di stare in una colonnina bassa dei quotidiani e di prendersi gli applausi e gli insulti più o meno in uguale misura. Poi spariscono, per gli altri, rimanendo comunque dentro lo stesso gorgo sotto casa, al bar e in Consiglio Comunale.

Maria Carmela Lanzetta è stata minacciata con le minacce sul serio, quelle che ti passano davanti agli occhi tutte le facce care della tua famiglia e ti chiedi mille volte se ne vale la pena. E lei si è risposta che sì, che ne vale sempre la pena. Maria Carmela Lanzetta è sindaco di Monasterace, in provincia di Reggio Calabria, si è ‘meritata’ l’incendio della farmacia di famiglia e qualche pistolettata all’auto perché in terra così difficile ha deciso di stare dalla parte delle regole. Ha fatto notizia la sindaca minacciata: calabrese, donna, di centrosinistra e dal cuore pulito è sembrata un’ottima occasione anche a Pierluigi Bersani che ha pensato bene di portarle la vicinanza della coalizione di centrosinistra durante l’ultima campagna elettorale. Altri tempi: Bersani pensava di diventare premier e la coalizione credeva di coalizzarsi per davvero. Quando la politica si dichiara vicina ad una situazione si assume il dovere di risolverla. Nei paesi normali almeno, dico.

E invece Maria Carmela questa volta ha rinunciato al proprio mandato rassegnando le dimissioni dopo avere incassato un “no” secco dai suoi assessori alla costituzione di parte civile dell’Amministrazione nei confronti di alcune persone indagate nell’ambito di un procedimento contro il Comune. Sarebbe stata l’occasione buona per fare politica e fare cassa per recuperare i danni patrimoniali compiuti contro la Pubblica Amministrazione. Ma il coraggio non lo ottieni per mandato elettorale e la “sua” squadra ha pensato di lasciarla sola.

Maria Carmela ha dichiarato che è stata più “incompresa che intimidita” e mentre l’ha detto è crollata tutta l credibilità di stato tutta intorno. Si è consumata la foto di Bersani che la stringeva forte forte, si è smascherato il manierismo antimafia di un governo alleato con fiancheggiatori politici di mafiosi e si è spenta anche la poesia dei progressisti sempre fieri dei propri amministratori giusto il tempo della foto ricordo.

Spara la politica più della ‘ndrangheta in Italia, dove la solitudine per mozione è più funzionale e silenziosa di uno sparo. E vince senza colpevoli ma al massimo un paio di inopportuni ma l’inopportunità dura la parentesi di una febbre e poi va via qui nel Paese dei molti sindaci antimafiosi.

E Maria Carmela si ostinava a non crederci.

(scritto per Il Fatto Quotidiano)

O mio dio, ho la scorta

Di solito fanno una faccia mutevole di corsa: cambiano espressione e passano dal pentimento di non conoscermi attraverso la pena fino alla stima incondizionata. Il tutto in tre, quattro minuti in cui la vita davanti però se la vedono passare gli altri, mica io. Sono sette anni che vivo sotto protezione. Dal 26 aprile 2006. Come un anniversario ma con meno dolcetti, spumante e candeline. E in questi sette anni la scorta, lì fuori dove si scrive sui social o sui giornali, è diventata di tutto e di più: una condanna, un’esibizione, un privilegio, un costo, un diritto, un dovere, uno spreco fino a questi tempi ultimi in cui è scontata quasi banale.

Il primo giorno sono uscito dal cancello e ho trovato due tizi più stralunati di me che sembrava mi chiedessero i tempi del copione di questa drammaturgia inaspettata: avere la scorta a Lodi (quella provincia che esiste per essere la prima verso sud dopo il casello di Melegnano) è più o meno come girare nudo con un calzino sul pene per le vie di Roma o Milano, ti si nota, eccome.

Poi è venuta l’abitudine ma è un’abitudine inquieta. Sembra un ossimoro, effettivamente.  Ma l’abitudine ha l’occasione ciclica per essere spezzata della paura perché sì, ho avuto paura, ne ho ancora, ma è una paura che richiede anni di studio e alfabetizzazione per essere colta dal gambo in su senza fermarsi ai petali che fanno notizia ma sono solo un’escrescenza del totale.

Poi è venuta la delazione: quella subito, in contemporanea alle minacce perché in fondo hanno le stesse radici e pure la stessa natura, anche se i delatori pensano di poter essere i censori dei minacciati. Sono stati tanti e comunque simpatici: prima piccoli potentati lodigiani (sono in corsa in queste elezioni) che da sinistra sono riusciti ad essere sinistri solo per cercare di colpire me o Andrea Ferrari (un amico, in quei tempi, e si costruiva insieme) e che poi si sono sciolti anche solo per una presenza a qualche festival democratico, poi sono arrivate le delazioni dei berluscones (eppure proprio da quelle parti era arrivata l’offerta di una scorta “pagata privatamente per garantire la mia sicurezza”) e infine le delazioni peggiori, quelle dei divi antimafia che hanno il pregio di essere figli e presidenti o qualche altro membro di una qualsiasi accolita dei rancorosi.

Poi è venuta la lotta politica. Che non è mica lotta “in” politica ma sempre lotta “dalla” politica. E così ho un elenco lungo di dirigenti diligenti della sinistra che mi scrivono grosso sui manifesti delle iniziative elettorali ma poi bisbigliano più biliosi di una vecchia suocera e megera. Del tipo: Cavalli ha la nostra vicinanza perché scortato ma è un rompicoglioni. Perché gli sfugge che in un tempo così banale basta essere un rompicoglioni per avere bisogno di una tutela armata piuttosto che amabile. I delatori di sinistra sono fantastici: riescono a organizzare grandi fiaccolate per te e intanto organizzano l’ennesimo eccesso di difesa per un attacco che non ho mai sferrato. Pagherebbero per monetizzare politicamente una situazione come la mia. Rimangono basiti solo un attimo quando gli dico che vorrei indietro almeno i miei figli.

Poi ci sono i “pretini”: dicono che la scorta è una sventura. O mio Dio. Si inginocchiano e pregano, Pregano così forte che non hanno nemmeno un secondo per ascoltarti o al minimo sentirti.

Poi ci sono i democristiani della paura: ti dicono che la scorta è un dolore troppo grande per la politica. Come se Dell’Utri, Cosentino, Mangano, Mancino, Violante e Berlusconi fossero dei foruncoli che sono usciti solo per lo stress della paura. Gli dici che sei di sinistra, comunista forse, o comunque che Peppino Impastato era un “compagno” e si mettono le mani sulla faccia invocando dio (quello minuscolo funzionale alle schede elettorali) dicendo che la scorta e la paura non sono né di destra né di sinistra. Ma io no, perdio.

Poi ci sono gli indifferenti. Tanti, tantissimi e sempre eleganti. Camminano per la loro strada che di solito è un vicolo bavoso e angusto e ti insegnano che l’indifferenza è il balsamo della vita. Stanno bene. Hanno l’abito del magister e la responsabilità di un servitore gentile: ringraziano, si inginocchiano, omaggiano e poi cercano il riscatto nella pippata del sabato sera.

O mio dio (minuscolo) ho la scorta e così poca penna per raccontare tutto l’unto tutto intorno.

Quel magistrato antimafia deve morire

Mentre si scrivono fiumi di parole  su D’Alema e Renzi e sulla simpatia della capogruppo Lombardi a Palermo un altro magistrato subisce minacce:

Al palazzo di giustizia di Palermo l’allerta è al massimo livello, come non accadeva da anni. A preoccupare non è solo l’ultima lettera anonima che nei giorni scorsi ha annunciato un attentato contro il pm Nino Di Matteo. Ci sono anche due intercettazioni in carcere, effettuate dalla squadra mobile, a rendere incadescente il clima attorno ai magistrati del pool antimafia: sono dialoghi fra i boss e i loro familiari, che svelano senza mezzi termini la collera di Cosa nostra contro uno dei protagonisti dell’ultima stagione di arresti. E’ il sostituto procuratore Francesco Del Bene.
A febbraio, un capomafia della Noce, intercettato, si è sfogato con un familiare: “Quel Del Bene è troppo zelante, deve buttare il sangue, deve morire”. Un mese dopo, anche un boss dello Zen ha affidato un altro messaggio inquietante a un parente: “Quel pm è sempre presente in aula, sta rompendo…”. Così, attraverso familiari e parenti, gli sfoghi degli ultimi padrini finiti in cella sono arrivati fuori. Ecco perché al palazzo di giustizia c’è preoccupazione. Le due intercettazioni sono state oggetto di una riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza presieduta dal prefetto. E la sorveglianza attorno a Francesco Del Bene, affidata ai carabinieri, è stata intensificata.

Io spero che qualcuno al governo oggi si stia rendendo conto della crescente aria di intimidazioni su Palermo e di cos’è successo in questo Paese quando Cosa Nostra ha ingrossato la voce durante “vuoti” istituzionale. Me lo auguro davvero.

 

Dove sono tutti? (Di Matteo)

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Ma c’è un altro ringraziamento che invece elaboro più col cervello ed in tanti anni di indagini di questo tipo. 
Ed è il grazie di chi sa che l’attenzione dell’opinione pubblica, della parte più informata e sensibile, costituisce per noi tutti da una parte uno scudo vero e reale e dall’altra un ulteriore sostegno per andare avanti nel nostro lavoro. È confortante vedere e sapere che una parte bella della nostra città si mobilita quando non c’è stato ancora nessun evento luttuoso. E questo probabilmente nella storia italiana era accaduto poche volte. Siete un segno di una mentalità che cambia. Siete il segno di una città, di una terra, di un Paese che vuole lottare contro la mafia e vuole anche cambiare quella mentalità mafiosa che si è insinuata troppo nell’esercizio del potere, anche del potere ufficiale.
Io credo che noi vi possiamo solo ringraziare, sopratutto perchè ci ricordate la cosa essenziale del nostro lavoro e del nostro ruolo: che non è un ruolo di potere ma di servizio nei confronti della collettività. E questo credo sia il segnale più bello che potevate darci.

Sono le parole di Nino Di Matteo al sit in di solidarietà organizzato per lui a Palermo. E sono parole importanti che forse avrebbero meritato qualche riga in più sugli organi di informazione e qualche momenti di riflessione politica. Forse. In un Paese più equilibrato nelle sue priorità.

Trattativa Stato-Mafia, il vuoto stretto intorno a Di Matteo

Scritto per Il Fatto Quotidiano

VNzEloqKahUGJXm-556x313-noPadNino Di Matteo cammina per Palermo con la scorta rafforzata che sembra un film degli anni ’80. Siamo un Paese che ultimamente ha ingoiato scorte patetiche dei signorotti o dei lacchè del re, che ha fantasticato sulle scorte “poetiche” da farci un film con un pizzico di commozione e che ha subito le sirene per un comizio in piazza di qualche Ministro. Di Matteo no: Di Matteo ha intorno il rischio a forma di paura, quello che a Palermo non si annusava dagli anni bui di una mafia che si lasciava andare con facilità alla polvere da sparo.

Forse non è un caso che Nino Di Matteo sia anche il magistrato che si occupa del delicato processo sulla trattativa Stato-Mafia, che prima è esploso in faccia ai negazionisti furibondi da talk show e oggi si è risotterrato tra le “cose che riguardano il passato”. Un processo che nell’informazione sta diventando un argomento per collezionisti e non importa se alla sbarra ci siano (alla stessa sbarra) politici e boss mafiosi che insieme disegnerebbero una foto devastante per la credibilità della democrazia italiana degli ultimi vent’anni.

Quando Salvatore Borsellino parlava di trattativa nei suoi incontri pubblici (lui e pochi altri “forsennati”) era facile relegarlo tra gli “allarmisti professionisti”. L’allarmista ha sostituito negli ultimi tempi il “professionista dell’antimafia” nel computo degli insulti istituzionali volti a delegittimare le battaglie antimafia. Allarmisti, rimestatori nel torbido, esagitati e visionari: chiunque parlasse di trattativa veniva fatto salire in fretta e furia nella “nave dei folli”.

Ora che quella perversione è diventata un processo sarebbe da tenere tra le mani con la cura di un buon padre di famiglia, sarebbe da osservare con l’attenzione di uno Stato che vuole essere garante della consapevolezza collettiva ed è, soprattutto, da proteggere.

Per questo la paura intorno a Nino Di Matteo è soprattutto la paura che si vorrebbe iniettare negli ultimi decenni politici per smussare la curiosità che ci dobbiamo e il vuoto intorno a Di Matteo sarebbe la latitanza più grave.

Per questo forse sarebbe meglio evitare gli editoriali sui pisolini in Parlamento e dedicarsi a questo vuoto istituzionale che si finge stretto intorno a Di Matteo. C’è un’aria grigia giù a Palermo. E una politica che può smettere di essere uguale a sé stessa.

(Ps per i fans delle “larghe intese con il Pdl: un’alleanza oggi con un processo del genere in corso è “concorso politico esterno”. Per dire.)

Intanto cercano di uccidere Di Matteo

pm_nino_di_matteoNon so se qualcuno tra tutto questo parlare di scontrini alla buvette, accordi e accordicchi si è accorto che il pm Nino Di Matteo è sempre più accerchiato e isolato. Le ultime minacce di morte non sono simpatici avvertimenti buoni per qualche servizio strappalacrime sulla paura ma un progetto di attentato ritenuto “assai serio”.

Non so se qualcuno si ricorda che Nino Di Matteo è il pm del prossimo processo sulla trattativa Stato-Mafia che fino a qualche anno fa ci dicevano fosse un’invenzione malata di Salvatore Borsellino e oggi invece vede alla sbarra importanti uomini politici e boss storici di Cosa Nostra.

Non so se qualcuno trova questa sera un secondo per pensare a questa Palermo che scorta un suo magistrato come nei tempi più bui mentre si scrivono editoriali sui sonnellini in Parlamento.

Noi, nel nostro piccolo, ti siamo vicini, Nino.

Se si minaccia a Magenta

Sarà che costa fatica innamorarsi delle storie più piccole, quelle che non hanno boati nei nomi e nelle cose, quelle notizie che scivolano per qualche minuto nell’indignazione del dopo pranzo e tutti guardano la foto a tavola – la conosci?- è la figlia di? – e tutte quelle altre cose lì.

C’è anche un “giornalino”: li chiamano così i fogli di provincia, con un certo sgarbo, quelli che annaspano pronti a qualsiasi coltellata per una mezza colonna sui quotidiani nazionali.

E poi c’è il luogo, piccolo, periferico e con un nome pure cacofonico: Magenta.

Schermata 2012-12-22 alle 13.10.58Insomma, arriva un proiettile in busta gialla alla redazione del settimanale “L’Altomilanese” (destinatari: Ersilio Mattioni, direttore del settimanale Altomilanese e Giampiero Sebri, promotore della Carovana Antimafiadell’Ovest Milanese) e qualcuno in queste ore mi vorrebbe convincere che è una questione locale, roba da quattro righe, buona per cucinarci un’indignazione à la carte passeggera come un raffreddore che ti aspettavi. E invece no. No perché in Lombardia i quotidiani locali hanno alzato la testa sul tema delle mafie molto prima che ne scattasse la moda e perché nelle realtà lontane dagli schermi e gli scranni si rischia di concimare la solitudine e l’isolamento che è il migliore regalo alle mafie.

Come scrive Il Fatto Quotidiano (così bistrattato eppure sempre così presente su questi temi):

Altomilanese dà fastidio a destra e a sinistra. Ma soprattutto alla ‘ndrangheta, ben radicata nell’hinterland e a cui ogni settimana Mattioni e la sua redazione dedicano intere pagine di approfondimento. La cronista Ester Castano, per esempio, diffidata e accusata del reato di diffamazione pluriaggravata dal sindaco Pdl e professore di religione Alfredo Celeste, intercettato mentre parlava al telefono con presunti ‘ndranghetisti, per aver condotto un’inchiesta sul territorio.Una denuncia presentata da un sindaco agli arresti domiciliari per corruzione dal 10 ottobre 2012, stesso giorno in cui a Sedriano furono arrestati marito e padre di due consigliere della giunta Celeste: il medico del pavese Silvio Marco Scalambra accusato dalla magistratura di essere il collettore di voti della ‘ndrangheta e l’imprenditore dell’oro Eugenio Costantino legato alle coscheDi Grillo-Mancuso. Da parte di Silvia Stella Fagnani e Teresa Costantino, rispettivamente moglie e figlia dei due imputati detenuti al carcere San Vittore, l’intenzione di dimettersi chiesta a gran voce dalla cittadinanza è pressoché nulla.

Un’esigenza urlata ai megafoni e portata in piazza dalla Carovana Antimafia dell’Ovest di Milano di cui Giampiero Sebri, co-intestatario dell’augurio natalizio con bossolo, è fondatore ed esponente di spicco. Mattioni e Sebri si incontrano a Sedriano, all’indomani degli arresti di Celeste, Costantino e Scalambra. Nel frattempo la situazione di Ester Castano, cui Mattioni e Sebri restano vicini, è finita anche nelle relazioni di Ossigeno per l’Informazione, l’osservatorio sui giornalisti minacciati.

Per questo, oltre alla solidarietà scontata, è il caso di alzare il tiro anche noi. Per quello che possiamo e cercando di tenere salda la “rete”. E per questo abbiamo ritenuto di scrivere al Prefetto per accendere una luce, in tutto questo buio. Ecco qui:

Magenta, 23/12/2012

 spett. PREFETTO DI MILANO

dott. Gian Valerio Lombardi

Corso Monforte, 31 – 20122 MILANO

 

RICHIESTA DI INCONTRO: sospetti tentativi di infiltrazione mafiosa nel comune di Sedriano

Spett.le sig Prefetto, i sottoscritti Rappresentanti istituzionali chiedono un incontro di carattere urgente con la S.v. al fine di poter esprimere le più vive preoccupazioni in merito alle vicende giudiziarie inerenti il Sindaco Alfredo Celeste e l’Amministrazione comunale di Sedriano (MI), della quale siamo a chiedere un intervento rapido di scioglimento.

PREMESSA

Il sindaco di Sedriano si trova agli arresti domiciliari dal 10 ottobre 2012, arresti confermati dal Tribunale del Riesame in data 6 novembre 2012, con l’accusa di corruzione.

Il reato di corruzione del quale è imputato è aggravato dal fatto che i corruttori sarebbero due esponenti dell’imprenditoria locale, Eugenio Costantino e Marco Silvio Scalambra, a loro volta imputati, sottoposti a custodia cautelare in carcere per il reato di associazione di stampo mafioso (416bis).

Gli stessi Costantino e Scalambra, secondo l’Ordinanza di custodia cautelare, avrebbero legami con cosche della ‘ndrangheta e che avrebbero compravenduto voti delle famiglie mafiose all’ex assessore regionale Domenico Zambetti.

La moglie di Scalambra, Silvia Stella Fagnani, e la figlia di Costantino, Teresa, siedono tuttora tra i banchi della maggioranza in Consiglio comunale a Sedriano.

Dalle intercettazioni si possono evincere gli interessi particolari dei due presunti boss in merito a piani urbanistici proposti dalla Giunta sedrianese e in merito ad appalti per opere e srevizi.

Sempre dalle intercettazioni si è potuto constatare il grado di confidenza e di famigliarità del sindaco Celeste con i due soggetti, ad esempio quando lo stesso sindaco chiese aiuto al Costantino al fine di fronteggiare presunte contestazioni ad una cerimonia che avrebbe visto protagonista la consigliera regionale Nicole Minetti.

RITENUTO CHE

più volte i Carabinieri e la GDF hanno perquisito gli uffici comunali e requisito documentazione, anche dopo gli arresti del sindaco e l’indagine è tuttora in corso;

nella stessa inchiesta che vede imputato Celeste sono stati arrestati, con l’accusa di associazione mafiosa, diversi esponenti della ‘ndrangheta nella zona del magentino;

l’amministrazione comunale non ha alcun intenzione di dimettersi;

chiari avvertimenti e intimidazioni di stampo mafioso stanno giungendo a chi si è esposto negli ultimi mesi a denunciare il pericoloso connubio mafia-politica a Sedriano, per ultimo l’invio di una busta contenente un proiettile alla redazione del periodico locale L’Altomilanese avvenuto il 20 dicembre 2012;

CONSIDERATO CHE

fermo restando il principio di presunzione di innocenza degli imputati sino al terzo grado, è più che giustificato il sospetto che la malavita organizzata stia entrando nella vita e nelle scelte dell’Amministrazione comunale;

è fondamentale dare un segnale di fermezza e ridare dignità all’istituzione più vicina ai cittadini, i quali non possono essere più rappresentati da soggetti sopra i quali aleggiano sospetto tanto preoccupanti;

CONSAPEVOLI DEL FATTO

che i tentativi di infiltrazione mafiosa riguardano gran parte della provincia di Milano e che il fenomeno della presenza mafiosa riguardi tutto il Nord Italia, ma a Sedriano vi è l’espressione più palese di questi tentativi;

che il sig. Prefetto detiene tutti i poteri in ambito di prevenzione alle infiltrazioni mafiose e di scioglimento di consigli comunali in via preventiva e cautelativa;

SIAMO A CHIEDERE

che il sig. Prefetto ci conceda udienza il prima possibile;

che voglia intervenire in maniera urgente sciogliendo il consiglio comunale di Sedriano e la sua Giunta.

 

Ringraziando per l’attenzione

siamo ad augurarLe buone festività natalizie

firmato

GIULIO CAVALLI, Consigliere regionale Lombardia, MASSIMO GATTI, Consigliere provinciale Milano, SERGIO MAESTRONI, Sindaco di Pregnana Milanese, ALFIO COLOMBO, Vice sindaco di Arluno, IGOR BONAZZOLI, Consigliere comunale di Arluno, LUIGINA MILANESE, Consigliera comunale di Corbetta, MANUEL VULCANO, Consigliere comunale di Magenta

Il coraggio di denunciare, finalmente: Stefano Rizzo

Un articolo da incorniciare del solito Davide Milosa per una Lombardia che lancia segnali confortanti: una notizia che è il punto di partenza per immaginare davvero un’altra storia, un’altra normalità e una quotidianità di schiene diritte non spacciate per eroismo. Una buona novella domenicale.

la-mafia-non-esisteNovate Milanese la nebbia rimonta velocemente dai campi. Le 13 del 25 gennaio 2012. In via Francesco Baracca già i contorni delle case scompaiono. La strada scappa via, mentre il giallo dei lampioni rimbalza sulla calotta grigia di acqua e smog. In questo lembo di periferia, Stefano Rizzo ci arriva a bordo della sua auto. Pugliese di Trinitapoli, in riva al Naviglio sale da ragazzino. Vita dura la sua, a faticare e vivere tra le strade di Quarto Oggiaro. Rizzo, però, è un pugliese tosto. Sotto al Duomo, vuole arrivare. Arriverà. Perché in quell’inverno, quando la sua auto si ferma davanti allacarrozzeria Veneta, Rizzo è un imprenditore affermato nel campo dell’edilizia. Ha 48 anni, una moglie e due figli. La sua è una storia esemplare. Che, però, da lì a pochi minuti andrà a sbattere contro il muro della ‘ndrangheta. Sì perché in quel pomeriggio di fine gennaio, l’imprenditore ha un appuntamento con Maurizio Massè, luogotenente di Enrico Flachi, fratello di Giuseppe, boss alla milanese e volto storico delle cosche calabresi che da tempo hanno lanciato un’opa mafiosa alla politica e all’impresa lombarda. In quel periodo, però, il padrino si trova in carcere. Arrestato nella primavera del 2011 assieme a una manciata di presunti boss, picciotti e colletti bianchi. E’ l’indagine Caposaldo. Una storia di mafia, politica e violenza che da tempo va in scena alla settima sezione del tribunale di Milano, rappresentando un quadro inedito per l’ex capitale morale d’Italia:la paura e l’omertà delle vittime nel denunciare i propri estortori mafiosi. Capita così che davanti ai magistrati i commercianti raccontino una verità, dopodiché in aula, con i boss dentro al gabbione, ritrattino, inciampando in esplicite reticenze. Altra pasta per Rizzo che, incassata la minaccia della ‘ndrangheta, non ci pensa due volte, denuncia tutto e fa arrestare sia Massè che il fratello di don Pepè Flachi. Una vicenda a lieto fine. Ma coraggiosa come mai la cronaca ha registrato in questi ultimi anni in terra di Lombardia.

AMBASCIATE MAFIOSE E LA MINACCIA AI FIGLI
Ecco, allora, cosa mette a verbale l’imprenditore. “Massè mi disse che loro, inteso i Flachi, non ragionano, che avevano già fatto i sopralluoghi, sapevano dove abitavo, dove andavano a giocare i miei figli”. Perché una tale minaccia? Per capire bisogna tornare indietro di qualche settimana, quando Rizzo, parlando con un suo operaio infedele, viene a sapere che la ‘ndrangheta è entrata in prima persona nella gestione di un credito che lo stesso imprenditore vanta nei confronti diDomenico Di Lorenzo, proprietario del ristorante 1958 in via Amoretti a Milano. Tempo prima, infatti, Rizzo ha ristrutturato il locale per 300mila euro. Lavori sui quali il titolare ha avuto da ridire. La discussione finisce in tribunale. I giudici danno ragione a Rizzo. Di Lorenzo deve pagare. Lo farà, ma solo in parte. All’appello, infatti, mancano 55mila euro. E’ su questa cifra che interviene il clan. I boss inviano messaggi. E lo fanno attraverso Antonino Benfante, pregiudicato siciliano, assunto dallo stesso Rizzo.

L’ambasciata è chiara: il ristorante 1958 è diventato in parte di proprietà di don Pepè e dunque, l’imprenditore deve rinunciare a quel denaro. “Altrimenti sarebbe stato difficile continuare a lavorare con le sue società sul territorio”. Con il passare dei giorni la situazione si chiarisce ulteriormente. Ancora prima di iniziare i lavori, Di Lorenzo aveva chiesto ai Flachi un prestito da 200mila euro. Un bel tesoretto che però il ristoratore non era stato in grado di onorare. Motivo: il debito contratto con Rizzo. Annota il gip Alessandro Santangelo nelle 24 pagine di ordinanza di arresto: “Di Lorenzo di fatto aveva chiesto un loro (dei Flachi,ndr) intervento finalizzato alla risoluzione dei debiti di Rizzo”.

IL CORAGGIO DELLA DENUNCIA
Per giorni, gli uomini del clan fanno la posta davanti all’impresa di Rizzo. Massè, addirittura, entra e chiede di parlare con il titolare che però non si fa trovare. L’appuntamento, però, è solo rinviato al 25 gennaio davanti alla carrozzeria Veneta di Novate Milanese. Durante quel colloquio e davanti alle esplicite minacce ai suoi bambini, Stefano Rizzo vacilla e fa capire al suo interlocutore di voler rinunciare al denaro. Il travaglio psicologico dell’imprenditore è enorme. Il giorno dopo, su insistenza di Massè, l’incontro con Enrico Flachi. L’appuntamento è fissato ai tavolini dell’Officina della Birra di Bresso, storico luogo di ritrovo della ‘ndrangheta, i cui titolari, però, non sono mai stati coinvolti nelle indagini. Racconta Rizzo: “Dopo circa 15 minuti è arrivato Enrico Flachi a cui ho raccontato la genesi e lo sviluppo del mio credito a Di Lorenzo (…) Mi ha anche detto che apprezzava molto il fatto che io avessi promesso di rinunciare ai 55mila euro (…) e che qualsiasi cosa di cui avessi avuto bisogno avrei potuto rivolgermi a loro”.

“L’ESTORSIONE E’ TUTTA DA PROVARE”
Rizzo, però, ci ripensa. In fondo, la mentalità di quei personaggi ha imparato a conoscerla vivendo a Quarto Oggiaro. Sa che dopo quei 55mila euro sarebbero arrivate altre richieste. Decide e forse compie un azzardo. In un altro incontro con Massè rivela (mentendo) di essere stato chiamato da magistrati e carabinieri per chiarire i motivi delle visite di Flachi e dei suoi uomini. L’altro ci casca e diventa remissivo. “Dice che il suo intervento e quello dei suoi amici era solo funzionale a ristabilire buoni rapporti tra Rizzo e Di lorenzo”. Dopodiché, però, mostra tutta l’essenza di quella trattativa. Racconta Rizzo: “Subito dopo mi ha detto: tanto devono provarla l’estorsione e mi devono portare davanti chi l’ha detto, io non ho fatto niente”. Tanto basta. Il pm della Dda di Milano Paolo Storari chiede al giudice l’arresto di Massè e Flachi. Per i due le manette scattano il 23 novembre 2012. L’accusa: estorsione aggravata dal metodo mafioso.

UN’OCCASIONE PER LE ISTITUZIONI MILANESI
L’operazione coordinata dal Gico di Milano, però, resta tra le pieghe della cronaca. Il giorno dopo, infatti, i quotidiani e sono impegnat a raccontare il tentativo (riuscito in pieno) della cosca Belloccodi conquistare l’ennesima impresa lombarda: la Blue call di Cinisello Balsamo. Eppure, la storia di Stefano Rizzo vale più di tanti arresti. Prima di tutto perché soddisfa, finalmente, quella sete di denuncia sempre sbandierata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini (“Davanti al mio ufficio non c’è certo la fila di imprenditori che vuole denunciare”). E soprattutto apre uno squarcio nel velo di omertà che recentemente ha costretto il giudice Aurelio Barazzetta a ricorrere alla cosiddettalegge anti-omertà per aggirare le reticenze in aula. Capita, guarda caso, per il processo alla cosca Flachi. Qui, davanti a quattro commercianti che ritrattano, il tribunale ha deciso di utilizzare il quarto comma della legge 500 del codice di procedura penale. La norma prevede di fare entrare nel processo le prime dichiarazioni delle vittime al pubblico ministero. Un escamatoge, per nulla abusato, che permette di aggirare il timore provocato dalla presenza dei boss nel gabbione. La stessa legge è stata invocata dalla Corte di Cassazione che l’agosto scorso ha bocciato (con rinvio) la sentenza d’Appello del processo Cerberus sulle infiltrazioni mafiose della cosca Papalia a Buccinasco. Anche in quel processo (concluso nel maggio 2011), imprenditori e commercianti in aula hanno negato, ritrattato o addirittura stravolto i contenuti dei primi verbali. Anche in quel processo, come per Caposaldo, il giudice era Barazzetta che minacciò le presunte vittime di indagarle per falsa testimonianza. La storia di Stefano Rizzo doveva ancora essere raccontata. Ma oggi, che la denuncia sta scritto nero su bianco, ci si aspetta che le istituzioni milanesi (prime a dover essere imputate di omertà nei confronti della ‘ndrangheta lombarda) escano dal loro torpore per dare lustro e visibilità a questo imprenditore coraggioso.

‘Ndrangheta in Lombardia: operazione “Ulisse”. Facciamo il punto.

L’omertà

Il dato sconfortante che emerge dallo sviluppo delle inchieste Infinito e Crimine, e che ha portato oggi all’esecuzione di 37 ordinanze di custodia cautelare volte a smantellare le cosche di ‘ndrangheta radicate tra Milano e Monza, è sempre lo stesso: l’omertà degli imprenditori vittime di estorsione e usura. Piuttosto a dare un contributo fondamentale alle indagini, da quanto trapela da ambienti investigativi, è arrivato da un nuovo pentito. Si tratta di Michael Panaija, 37enne arrestato l’11 aprile 2011 perché ritenuto uno dei responsabili dell’omicidio di Carmelo Novella, il capo della “Provincia” lombarda (l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta in Lombardia) ucciso il 14 luglio 2008 a San Vittore Olona perché voleva la scissione dalle cosche calabresi. A farne il nome come uno dei presunti esecutori era stato il collaboratore di giustizia Antonino Belnome. Era stato lui a snocciolare il suo e i nomi di altre 18 persone arrestate nel 2011 perché avrebbero avuto un ruolo – come mandanti, come esecutori, come fiancheggiatori, o come basisti – nell’omicidio Novella e in altri tre omicidi commessi nell’ambito delle guerre interne alla ‘ndrangheta per il predominio sul territorio e come ritorsione per i fatti di sangue. Si tratta dell’omicidio di Rocco Cristello, avvenuto il 27 marzo 2008 a Verano Brianza; di quello di Antonio Tedesco, ucciso il 27 aprile 2009 a Bregano, il cui corpo è stato trovato mummificato sotto due metri di calce e terra in un maneggio (è stato riconosciuto da una catena d’oro) ; e di quello di Rocco Stagno, fratello del più potente Antonio Stagno, avvenuto il 29 marzo 2010 in un cascinale a Bernate Ticino, il cui cadavere invece non è ancora stato trovato. Ora Panaija risulta aver svelato dettagli sulla reazione delle cosche lombarde dopo il maxi blitz che a Milano, nel luglio 2010, aveva portato all’arresto di oltre 170 persone, 110 delle quali già condannate con rito abbreviato. Le cosche di Giussano e Seregno avrebbero proseguito sia i traffici di droga, sia le estorsioni e lo strozzinaggio di piccoli imprenditori locali, soprattutto di origine calabrese. Oggi in manette sono finiti Ulisse Panetta, il presunto boss proprio della locale di Giussano, e alcuni appartenenti alle famiglie Cristello e Corigliano. L’inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai pm Alessandra Dolci e Cecilia Vassena. Le ordinanze sono firmate dal gip Andrea Ghinetti.

Le estorsioni e i nomi

Le accuse per i 37 indagati arrestati stamani dai carabinieri del Ros a Milano e provincia sono di associazione mafiosa, porto e detenzione illegale di armi (Kalashnikov, mitragliette Uzi, bombe a mano), usura ed estorsione, aggravati dalle finalita’ mafiose. I provvedimenti di custodia cautelare scaturiscono da diversi filoni investigativi avviati dal Ros a seguito dell’indagine ‘Crimine’ che ha portato nell’aprile 2011 all’arresto di 11 affiliati alle ‘ndrine di Seregno e Giussano. Tra questi c’erano anche gli autori dell’omicidio di Rocco Cristello, Carmelo Novella, Antonio Tedesco e Rocco Stagno, tutti commessi in Lombardia tra il 2008 e il 2010 nell’ambito delle faide tra le cosche Gallace e Novella di Guardavalle (Catanzaro). Le indagini hanno svelato le attivita’ delle cosche al Nord: traffico di droga, usura ed estorsioni. Numerosi gli episodi di questo tipo raccolti dai militari. A partire dal 2007, quando le vittime dell’estorsione furono i titolari della concessionaria di auto ‘Selagip 2000′ di Giussano, a cui venne chiesto il pagamento di 500mila euro dopo minacce, telefonate minatorie, attentati incendiari, e l’esplosione di colpi di pistola contro le vetrine. E’ del 2010, invece, quella nei confronti di Domenicantonio Fratea, imprenditore nel settore immobiliare e titolare di una bar a Giussano. A lui vennero chiesti 80mila euro con la medesima modalita’ intimidatoria. La lista prosegue con Roberto Gioffre’, titolare di una sala giochi che alla fine del 2010 fu costretto a rinunciare a un credito di 70mila euro, che vantava nei confronti di alcuni affiliati, dopo numerose minacce. Infine, Stefano Sironi, imprenditore edile di Giussano, costretto a riconoscere interessi esorbitanti sulle somme prestate dalla cosca.

Il ruolo di Ulisse Panetta a Giussano

Dall’agosto 2010, in seguito al maxi blitz delle operazioni Infinito e Crimine che il mese prima avevano portato all’arresto di circa 300 persone in Lombardia e in Calabria, è Ulisse Panetta ad assumere il comando dell’associazione mafiosa facente capo alla locale di Giussano in qualità di vice di Michael Panaija, arrestato l’11 aprile 2011. Lo scrive il gip Andrea Ghinetti nell’ordinanza di arresto che oggi ha colpito lo stesso Panetta e altre 36 persone. Dall’agosto 2010, si riassume nel capo di imputazione, Panetta fa carriera. Già “in possesso della dote del vangelo, dapprima ‘contabile’ e ‘mastro di giornata’, quindi, dopo l’arresto di Belnome, ‘capo società’, diventa il “capo e organizzatore” della locale di Giussano. Di conseguenza, “sovrintende alla gestione dell’armamento in dotazione della locale, comprensivo di armi corte, lunghe, esplosivo e munizionamento, parte del quale è stato a lui sequestrato nel febbraio 2012, alla scelta del luogo di occultamento ed alla individuazione delle persone deputate di volta in volta a servirsene. Mantiene i contatti con gli esponenti delle famiglie di riferimento in Calabria, mandando e ricevendo ‘ambasciate’. Provvede a mantenere i contatti con le famiglie degli arrestati della locale sia a seguito degli arresti del luglio 2010, sia di quelli dell’aprile 2011. Partecipa ai summit sopra indicati nel corso dei quali vengono conferiti a lui stesso e ad altri doti e cariche. Partecipa alla pianificazione delle attività criminali della locale percependone anche parte dei proventi”. Antonino Belnome è il pentito che per primo ha fatto luce sull’omicidio di Carmelo Novella, ex capo della “Lombardia”, l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta nella regione.

Il bunker

Una botola nascosta nel pavimento della cucina, con un perfetto meccanismo di apertura telecomandata. Un bunker in piena regola per scappare ai blitz della forze dell’ordine, identico a quelli di ‘ndranghetisti latitanti dell’Aspromonte. La novita’ e’ che il nascondiglio si trovava nel profondo Nord, a Giussano, piccolo comune della Brianza. Per la precisione in via Boito 23, dove il boss Antonio Stagno, di 44 anni, originario di Giussano e attualmente detenuto nel carcere di Opera per altri motivi, aveva la sua residenza. Si tratta di un vero e proprio bunker con una parete mobile che si aziona con un telecomando – ha spiegato il pm della Dda di Milano, Alessandra Dolci – come quelli che siamo soliti trovare in realta’ come San Luca o Plati’. Per gli investigatori e’ un dato molto importante perche’ dimostra l’ulteriore passo in avanti della ‘ndrangheta al Nord, ormai cosi’ a proprio agio da esportare tecniche ritenute esclusiva delle zone d’origine. Il procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, Ilda Boccassini, ha aggiunto che questo e’ momento di cambiamento per le ‘ndrine, con i giovani che stanno prendendo il posto degli ”anziani”. Nonostante cio’, pero’, resistono le tradizioni come quella dei bunker, di cui i calabresi sono considerati esperti costruttori.

Le minacce: i coltelli al ristorante

Rocco mi punto’ contro anche un coltello, il coltello da tavola del ristorante”. Cosi’ una delle ‘vittime’ delle estorsioni messe in atto dalle cosche della ‘ndrangheta di Giussano e Seregno, in Brianza, smantellate oggi con l’operazione ‘Ulisse’ condotta dai carabinieri del Ros, ha raccontato agli inquirenti della Dda di Milano l’ ‘umiliazione’ che subi’ quando nella sala di un locale venne preso anche a ”pugni e schiaffi al volto da parte di quasi tutti i commensali”, tra cui il presunto boss del clan di Seregno, Rocco Cristello, uno dei 37 arrestati. Nelle oltre 230 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, viene riportato anche il ‘capitolo’ della ”estorsione nei confronti di Gioffre’ Roberto”, ovvero le ”modalita’ estorsive attraverso le quali i due maggiori esponenti della locale di Seregno, ovvero Cristello Rocco e Formica Claudio (rispettivamente capo locale e capo societa’) si ‘appropriarono’ del locale chiamato ‘Casino’ Royale’ di Paina di Giussano, piu’ volte emerso nell’indagine ‘Infinito’ come luogo abituale di appuntamento degli affiliati”. La ‘vittima’ dell’estorsione, l’imprenditore Roberto Gioffre’, ha spiegato nella sua denuncia e nelle sommarie informazioni ai pm di aver dovuto incontrare nel 2009 in un ristorante di Seregno i presunti boss per cercare di ‘resistere’ alle vessazioni. ”Gioffre’ – scrive il gip Andrea Ghinetti – si reco’ all’appuntamento accompagnato dal fratello Francesco, consigliere comunale a Seregno”.

Appena entrati nel locale, Gioffre’ venne aggredito da Rocco Cristello che gli grido’: ”tu sei un pezzo di m…”. L’imprenditore disse agli uomini del clan che non avrebbe consegnato i ”50 mila euro” richiesti e per tutta risposta venne preso a ”pugni e schiaffi” al tavolo del ristorante. Poi il coltello puntato contro che fece reagire il fratello di Gioffre’, consigliere comunale. Cristello Rocco a quel punto, ha raccontato Gioffre’, ”lancio’ un’occhiata eloquente a mio fratello dicendogli ‘Franco, fatti i cazzi tuoi’, frase che fece desistere mio fratello”. L’importo totale ”di denaro” estorto a Gioffre’, sintetizza il gip, ”ammonta a 70 mila euro”. E’ questo l’unico dei 4 episodi di usura ed estorsione riportati nell’ordinanza nel quale la ‘vittima’ ha denunciato le vessazioni subite dai clan della ‘ndrangheta. Negli altri casi, invece, come si legge nell’ordinanza, gli imprenditori si limitavano al massimo a pronunciare al telefono, intercettati, frasi come ”mi hanno condannato a morte mi hanno detto (…) sono un morto che cammina”. Uno dei pentiti ‘chiave’ delle indagini di ‘ndrangheta degli ultimi mesi in Lombardia, Antonino Belnome, ha spiegato a verbale ai pm della Dda di Milano che ”la scelta delle persone da sottoporre ad estorsione nel territorio lombardo ricadeva quasi sempre (…) su imprenditori di origine calabrese in quanto maggiormente inclini per mentalita’ a sottostare alle richieste estorsive senza coinvolgere le forze dell’ordine”. Non solo, spiega ancora il gip riportando le parole di Belnome, ”le vittime, di solito e per risalente consuetudine, si rivolgono ad esponenti della criminalita’ organizzata del paese d’origine perche’ svolgano un ruolo di mediazione (e non gratis, ovviamente)”.

Il politico che nega

Francesco Gioffre’, consigliere comunale di Seregno (Milano), con un atteggiamento ”vicino alla connivenza”, tento’ ”di minimizzare” con le sue dichiarazioni agli inquirenti le minacce subite dal fratello Roberto, vittima di estorsione da parte della cosca della ‘ndrangheta dei Cristello. Lo scrive il gip di Milano, Andrea Ghinetti, nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di 37 persone, eseguita oggi da carabinieri del Ros e del comando provinciale. ”Un discorso a parte – scrive il gip – meritano le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, opaco fratello della vittima ed unica ‘voce fuori dal coro’ il quale, sentito a s. i.t. (sommarie informazioni testimoniali, ndr) il 26 aprile 2011, pur ammettendo di conoscere i fratelli Rocco e Francesco Cristello (che sostiene di avere aiutato per una pratica presso il comune nel quale egli stesso e’ consigliere comunale), ha tentato in ogni modo di minimizzare la portata dei fatti giungendo quasi a prendere le difese dei Cristello, sino al punto di dirsi estremamente stupito nell’apprendere la notizia del loro arresto del luglio del 2010”, nell’ambito del maxi-blitz ‘Infinito’. ”E’ di tutta evidenza – si legge ancora nell’ordinanza – alla luce delle risultanze investigative sopra esposte, che le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, nella parte in cui contrastano con quelle del fratello Roberto, non possono ritenersi credibili ma debbono al contrario essere inquadrate nel medesimo clima di intimidazione del quale e’ stato vittima anche Roberto Gioffre’, che ha evidentemente portato i due fratelli a reagire in modo diametralmente opposto”. Mentre uno dei due fratelli Roberto ”ha scelto di denunciare i fatti con rischio personale che lo ha portato a temere talmente tanto per se’ e per i suoi familiari da decidere di lasciare il Paese per trasferirsi all’estero, il politico locale Gioffre’ Francesco ha fatto una scelta diversa, vicino alla connivenza, piu’ in linea con quella gia’ riscontrata in altri casi oggetto della presente misura cautelare”