Un’intervista con IODONNA. Su tutto.
(Intervista di Raffaella Oliva, l’articolo originale è qui)
Era l’alba del 6 settembre 2006 quando Michele Landa fu ucciso a colpi di pistola e bruciato nella sua macchina. Era un metronotte di Mondragone, provincia di Caserta, un cittadino onesto cui era stato affidato il compito di piantonare un ripetitore per la telefonia mobile a pochi chilometri da casa, a Pescopagano. Gli hanno sparato durante un turno di lavoro, in quel periodo i clan della camorra avevano scoperto il redditizio furto delle apparecchiature telefoniche, forse Michele sapeva qualcosa, il suo sguardo indiscreto non era ben visto. Aveva 61 anni, il suo corpo carbonizzato sarebbe stato ritrovato in un fosso solo quattro giorni dopo: alla famiglia che aveva sporto denuncia per la sua scomparsa le forze dell’ordine avevano suggerito di non preoccuparsi, «sarà con l’amante».
Una morte quasi ignorata, la sua, giusto qualche trafiletto nella cronaca locale. Una morte ingiusta che oggi Giulio Cavalli, scrittore, giornalista, attore e autore teatrale che per il suo impegno contro la mafia vive sotto scorta dal 2007, racconta in Mio padre in una scatola da scarpe, il suo primo romanzo dopo diversi libri d’inchiesta, in uscita il 17 settembre per Rizzoli. «Quella di Michele Landa è una storia profondamente umana, non una vicenda “banalmente” di mafia, bensì la vicenda di un amore e di una famiglia molto unita che si ritrova coinvolta per caso in un dramma più grande di lei», dice il milanese Cavalli, classe 1977. «A Mondragone Landa non era un eroe dell’antimafia; era, più semplicemente, una persona che non voleva avere a che fare con la camorra perché non voleva avere a che fare con l’illegalità in generale. Eppure è stato costretto a soccombere».
Esatto, voleva solo seguire le regole con la geniale semplicità che fu dei nostri nonni. Negli anni l’antimafia ha spesso agito in modo vile, guidata da un sentimento di vendetta, io stesso dopo quello che mi è successo mi ero imbruttito, incattivito (Cavalli ha iniziato a subire minacce di stampo mafioso nel 2006, dopo la messa in scena dello spettacolo Do Ut Des, sulla vita dell’immaginario aspirante boss Totò Nessuno ndr). Ho poi capito che a meritare ammirazione sono coloro che con la semplicità di cui sopra non perdono di vista i propri valori quando capita loro l’occasione di essere giusti, come recita la frase che ho voluto mettere in copertina.
Leggendo il libro viene da chiedersi quanto di vero e quanto di romanzato ci sia nel suo racconto.
Se dicessi che è tutto vero si diffonderebbe l’idea che Giulio Cavalli abbia scritto un’inchiesta sulla camorra. Mettiamola così: il tessuto umano e la vicenda sono reali, e lo sono nel senso che quando Angela Landa, la figlia di Michele, ha letto il libro mi ha confidato di aver ritrovato e riconosciuto, tra quelle pagine, la sua famiglia.
I vari personaggi sono descritti nei loro tic, nelle loro particolarità, nei loro tratti più invisibili, ma eloquenti; a tratti sembra di leggere una sceneggiatura cinematografica.
Forse proprio perché prima di scrivere ho incontrato più volte Angela. Per esempio, il pranzo di famiglia con cui si chiude il libro è autobiografico: io c’ero, ero lì, e in quell’occasione ho avuto modo di scorgere i tic di quelli che sarebbero diventati i personaggi del romanzo. Credo c’entri anche il fatto che nasco come teatrante, ma c’è un ulteriore aspetto da non dimenticare: quando, com’è accaduto alla famiglia Landa, ti ritrovi a vivere una vicenda così assurda, che non ti saresti mai aspettato, ecco, in quei casi sono gli stessi protagonisti della storia a raccontare quest’ultima quasi fossero osservatori esterni, sono i diretti interessati a darne una visione filmica, cinematografica. È un meccanismo di difesa, serve a non cadere nella disperazione. Dietro alle parole c’è sempre un’umanità tremolante e commovente.
Commovente perché distante dalla mera cronaca?
Commovente perché sentire Angela Landa dire “hanno ucciso mio padre, che era la persona che insegnava a mio figlio cos’è un orto” è diverso dal sentir parlare di mafia in televisione, per esempio, dove gli argomenti sono le modalità di azione delle organizzazioni criminali o le relazioni della DDA (direzione distrettuale antimafia ndr).
Che tipo di realtà ha trovato, lei, a Mondragone?
Per fortuna non ho problemi con la camorra, li ho con Cosa Nostra, i siciliani e i calabresi soprattutto, ma con la camorra no. Per me Mondragone è Angela, i nostri incontri, le nostre conversazioni. M’interessava la temperatura emotiva della città, più che il posizionamento della stessa sullo scacchiere criminale. In passato ci ero già stato, ma per degli spettacoli, non avevo avuto modo di assorbire il territorio anche perché è un po’ complicato per me, data la mia condizione.
Da quasi dieci anni vive sotto scorta e come saprà sulle scorte i commenti si sprecano, c’è chi le considera un capriccio: come risponde?
Rispondo che nella stragrande maggioranza dei casi è effettivamente così, viviamo in un Paese in cui si dà la scorta a un attore mentre si dice alla moglie di Michele Landa “non preoccuparti, tuo marito sarà fuori a ubriacarsi con qualche prostituta”. Ciò detto, trovo l’argomento “scorta o non scorta” poco interessante, mi preme di più parlare di quell’eccesso di difesa che in passato mi ha portato ad accettare un abbruttimento, un incattivimento cui credevo di avere diritto e che, invece, mi ha fatto solo perdere tempo.
Ha superato l’abbruttimento, ma la paura, quella si supera?
Dopo un po’ scompare, ci si abitua. Io non ho paura di certe famiglie calabresi, la mia paura è di vivere in un Paese che non dà risposte, ho paura della possibilità di delegittimazione, noncuranza e dimenticanza che è un po’ il senso di questo libro.
È per questo che nel 2010 è entrato in politica, diventando consigliere regionale della Lombardia prima con l’Idv, poi con Sel?
Sono entrato in politica perché sono convinto che i mandanti di certi crimini siano politici e penso che la politica sia un passaggio necessario per portare avanti la lotta alla mafia. Le famiglie appartenenti alla criminalità organizzata sono politicissime, conoscono a memoria leggi, emendamenti, piani di governo del territorio, molto meglio di tanti altri cittadini che magari si ritengono informati. Questo significa ch
e l’antipolitica è un favore che si fa a loro. Credevo di poter essere utile.
Poi cos’è successo?
È successo che quella parentesi politica mi è costata tanto dal punto di vista professionale, il sospetto era sempre quello che qualunque cosa facessi fuori dall’ambito politico nascondesse un interesse partitico. Per non parlare della legislatura pittoresca in cui mi sono ritrovato: il figlio di Bossi, la Minetti… Ce l’ho messa tutta, ma era troppo per me, l’ecologia intellettuale ha dei limiti.
La cosa che più l’ha stupita?
La giustificazione quotidiana di bassezze umane come elemento indispensabile per ottenere un buon risultato. Giustificazione vissuta come un aspetto positivo. E lì ho capito alcune cose: l’Italia non è un Paese che non si è accorto di Andreotti, è un Paese di aspiranti Andreotti. Poi, ovvio, anche in politica ci sono persone con una bella umanità, penso a Pippo Civati, a Maurizio Martina…
Alla fine, però, ha lasciato ed eccoci al suo primo romanzo.
È questo il mio lavoro: raccontare storie. Non raccontare storie per legittima difesa, non fare l’attore civile, non fare il minacciato o lo scortato, solo raccontare
storie. Purtroppo in passato ho sentito il bisogno di difendermi, ho dovuto spesso giustificare gli stereotipi che mi venivano appiccicati addosso, per cui da giovanissimo ero il nuovo Paolini. Poi, dato che ci avevo messo il sorriso, sono diventato il nuovo Dario Fo: insomma, sono stato sempre il modello sostitutivo di qualcosa che c’era già. Ora basta, questo è un libro libero, descrive ciò che sono ora.
Nel libro racconta l’omertà in modo estremamente schietto, come qualcosa di non riconducibile soltanto alla paura.
Certo, è anche un fattore culturale: per i nostri nonni l’omertà era sinonimo di tranquillità e quest’ultima era vissuta come un dovere da buon padre. Per loro assicurare tranquillità ai figli e non creare nevrosi in famiglia era fondamentale. Ora, partendo da questa consapevolezza, sta a noi non diventare vendicativi: non penso che si possa sconfiggere una prepotenza con una prepotenza organizzata più forte, è necessario un lavoro culturale. Ci ritroviamo di frequente a tuonare contro i collusi, quel che mi chiedo è: e se dentro questa forma di collusione ci fosse una struttura culturale che non abbiamo curato abbastanza bene? È questa la domanda che il libro vorrebbe mettere sul tavolo: il nonno di Michele, che gli dice di tacere e di farsi i fatti suoi, è un vigliacco? No, bisogna andare oltre, comprendere, sfruttare la memoria di quei nonni per curare. Non credo più nei paladini antimafia che si scagliano contro tutto e contro tutti.
Descrive bene anche il ruolo complice di certe donne disposte a sposare degli uomini di mafia pur di essere mantenute e fare “la bella vita”.
Attenzione, però, a Milano accade lo stesso quando una donna si sposa con un funzionario corrotto. E anche di quelle donne va compresa una fragilità: mi fa paura il giustizialismo culturale in cui ogni tanto anch’io mi sono ritrovato imprigionato in passato. Amo le persone che non hanno bisogno di avere un nemico per restare salde sui propri obiettivi e sto imparando a essere anch’io così.
Si tratta di comprendere per combattere?
Si tratta di fare antimafia non usando la penna come spada ma, per esempio, raccontando una storia d’amore come ho fatto con questo romanzo. Dobbiamo ricominciare a innamorarci della legalità e ancor prima dei fragili e delle fragilità: la nostra attenzione dovrebbe essere rivolta verso chi ha paura, non verso chi ha le condizioni o la fortuna di poter non avere paura. La vera rivoluzione culturale e sociale avverrà quando comprenderemo che ognuno ha la propria battaglia personale da combattere, quindi va rispettato e trattato con gentilezza, come diceva Carlo Mazzacurati. Mio padre in una scatola da scarpe è un romanzo civile perché in un’epoca dominata dal cattivismo come quella attuale rilancia il buonismo non come debolezza, ma come senso di responsabilità sociale.