Raggi ha fallito ma i 5S negano la realtà: il mistero del Pd che si immola…
Ieri un amico giornalista che lavora per una testata straniera mi chiedeva come mai il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle, che sono stati ferrei alleati nel secondo governo Conte e che ripetono in continuazione di volersi presentare come alleati alle prossime elezioni locali e nazionali, abbiano deciso di candidare due aspiranti sindaci l’uno contro l’altro proprio nella capitale d’Italia, in quella Roma che nell’immaginario collettivo è la sede della politica nazionale.
Non sono riuscito a dargli nessuna risposta convincente, l’ho buttata sulla “complessità della politica italiana” (ma lui non mi ha creduto nemmeno un po’) ma in compenso sono riuscito a trattenermi dal dirgli che in più c’è anche il fatto che entrambi i partiti hanno deliberatamente scelto di puntare su candidati probabilmente non vincenti. Perché quello che sta accadendo su Roma comunque lo si racconti è una delle scelte del Partito Democratico di cui si fatica a trovare un senso, che non si capisce da cosa derivi e soprattutto a cosa punti e c’è da augurarsi almeno che il segretario dei democratici Letta non abbia intenzione di lasciare passare tutto in cavalleria ma abbia piuttosto una spiegazione per i suoi elettori e che sia una spiegazione chiara.
Ricapitoliamo. Il Movimento 5 Stelle in caduta libera si aggrappa a Virginia Raggi disperatamente negando ciò che è sotto gli occhi di tutti: questi 5 anni di amministrazione romana sono stati un disastro dal punto di vista comunicativo, la decadenza di Roma è stata sottolineata da tutti i partiti di opposizione (tra cui ovviamente il Partito Democratico), il gradimento dei cittadini è al minimo storico e una stessa parte del Movimento 5 Stelle ha preso le distanze da Virginia Raggi. La tattica dei grillini evidentemente è insistere nella negazione della realtà, accade spesso in politica, ci sta. Il Partito Democratico avrebbe potuto, su Roma, esprimere la candidatura convincente (e potenzialmente vincente) di Nicola Zingaretti, aprendo di fatto una stagione nuova per la capitale ma è rimasto impigliato dal veto incrociato dei pentastellati in Regione che sono indispensabili per tenere in piedi la maggioranza.
In sostanza il candidato migliore di un partito in salute e che cerca di rilanciarsi viene stoppato dal partito più in difficoltà (e con una debolissima ricandidata). A gestire tutto, vale la pena sottolinearlo, c’è quel Giuseppe Conte che al momento ufficialmente non è ancora stato legittimato a essere capo politico del Movimento a causa degli strascichi legali di Casaleggio contro il Movimento. Qui arriva la domanda delle domande: in nome di cosa il Pd decide di immolarsi? Posto che è ormai passata l’era Conte (che già ora appare difficile far digerire come prossimo “punto di riferimento dei progressisti”) perché il Pd deve subire l’egemonia politica di un alleato in piena confusione? Posto che non c’è più l’esigenza di tenere in piedi il governo nazionale quali sono i punti di contatto nella visione di futuro dei due partiti? Questo continua a rimanere un mistero.
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