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molestie

Chissà se riusciremo mai a parlare seriamente di molestie in Italia

Leggetevi Claudia Torrisi su Vice:

 

«La storiella dell’uomo cacciatore porta spesso le donne ad accettare non solo limitazioni della propria libertà, ma anche vere e proprie molestie senza darci troppo peso, ché ci sono questioni più serie nella vita e tutto sommato questo è l’ordine delle cose. Del resto, come sostiene la scrittrice femminista nigeriana Chimamanda Ngozi Adiche, parlare di genere è “un argomento che crea disagio, a volte persino irritazione,” e “pensare di cambiare lo status quo è sempre una scocciatura.”

In un’intervista sul Giorno, ad esempio, Alba Parietti ha spiegato che “le denunce contro i molestatori vanno fatte e queste persone vanno fermate. Ma andare a pescare nel torbido, se non ci sono situazioni gravi, non è giusto. Pazienza se una volta hai messo la mano sul culo. Ora gli uomini sono presi di mira.” Sulla stessa linea Sandra Milo, raccontando di essere stata “toccata mille volte,” ha detto che “è anche vero che adesso, con tutta questa campagna anti-uomini, non ci toccherà più nessuno.” Nel difendere Tornatore, infine, la managing director di una società di produzione con cui il regista ha spesso collaborato ha dichiaratoche quello che accade appartiene “alla notte dei tempi,” e “fa parte del gioco tra uomo e donna”: “Un conto è aggredire e violentare una persona, un altro è mettere in croce la gente per qualcosa che è sempre esistito.”

E in effetti, scrive Gasparrini, il patriarcato da secoli si affanna “a raccontare che gli uomini sono ‘per istinto’ cacciatori, violenti, insensibili, votati alla lotta e alla prova di forza, attratti dal potere e dal vertice delle gerarchie, economiche politiche o sociali che siano.” E lo fa per uno scopo ben preciso: “perpetuare se stesso, come storicamente ha fatto qualsiasi sistema di potere prima di essere rovesciato da un altro.”

È indubbio che qualcosa stia cambiando. Questo sollevarsi di denunce e prese di coscienza è dunque il preludio di un rovesciamento? Chi può dirlo. Di certo non esiste nessuna “caccia alle streghe” o campagna anti-uomini. Al contrario, c’è un sistema di potere e abusi che mi sembra goda di ottima salute, almeno finché in Italia si parlerà in questo modo di molestie sessuali.»

 

(è tutto qui)

Danny Lanzetta: «Perché non ho mai parlato? Perché se ripenso a quei momenti mi vergogno»

Quando avevo tredici anni, Kevin Spacey mi ha messo una mano sulla coscia.

Non è la cosa più oltraggiosa che ha fatto, lo sappiamo grazie ad Anthony Rapp. L’episodio descritto da Rapp a BuzzFedd si verificò qualche anno prima del mio e, cosa più inquietante, Rapp si trovava in una situazione stranamente isolata. Quando ho letto il suo racconto dell’accaduto, mi sono sentito sollevato. Mi sarebbe potuta andare molto peggio.

Per fortuna, non è stato così. Io e Rapp non ci siamo mai incontrati all’epoca – lui è un po’ più grande di me – ma sembra che abbiamo avuto un’infanzia simile, in un certo senso. Non credo ci sia una sorta di “fratellanza” tra gli ex attori-bambini anche se, di certo, tutti noi ne sappiamo qualcosa delle stranezze di quell’esperienza. Ancora oggi, se racconto a mia moglie di quando prendevo lezioni private sul set per tre ore al giorno o che, dopo la scuola, passavo diverse ore seduto in una macchina, diretto a New York per tre audizioni, lei scuote la testa e dice: “Hai avuto un’infanzia proprio strana”.

Sarà. Ma la adoravo. Non tanto la recitazione in sé. Una volta adulto l’abbandonai, ero molto più interessato a John Milton che ad Al Pacino. Quello che amavo davvero erano le opportunità: di viaggiare, di restare sveglio fino a tardi molto più dei miei compagni di classe, di essere trattato come un adulto. E, soprattutto, d’incontrare alcune delle persone più interessanti che io abbia mai conosciuto. Molto di ciò che penso del mondo, oggi, deriva dal privilegio di quella “strana” infanzia.

Io e Kevin Spacey eravamo nel cast di “Lost in Yonkers”, nel 1991. Andavamo molto d’accordo. Lui era un tipo alla mano, divertente, come sa chiunque lo abbia visto al “Saturday Night Live”. Bravissimo nelle imitazioni. Una persona con cui era facile parlare. Divertimento garantito. Ricordo che ero affascinato dalla sua caratteristica cicatrice sul viso, ma troppo spaventato per chiedergli di parlarmene. Però, scommetto che non gli sarebbe dispiaciuto se l’avessi fatto. E non dimenticherò mai quella volta in cui ero seduto nella hall di un albergo durante una notte gelida a Winston-Salem, North Carolina. Parlammo dello spettacolo, delle mie vicissitudini da adolescente, della sua età (per qualche motivo non riuscivo a credere che avesse appena 32 anni). Fu una notte davvero bellissima. Ero ammaliato; i miei genitori erano ammaliati. Andai a dormire contento che Kevin Spacey fosse mio amico.

Tornati a New York, lo spettacolo ottenne critiche entusiastiche e vinse un mucchio di Tony Award. Io e Kevin eravamo insieme in uno dei successi più grandi di Broadway. Diventammo buoni amici. Andavamo a cena fuori, cazzeggiavamo nel backstage, e decidemmo addirittura che mi sarei fermato nel suo appartamento nei giorni in cui avevamo la matinée. Perlopiù, ce ne stavamo nel suo camerino. Kevin aveva uno di quei camerini “di lusso” dall’altra parte del teatro. Era spazioso. C’erano un divano e una TV, e uno di quegli eccentrici specchi hollywoodiani con tutte le lampadine intorno. Passammo molte serate lì dentro prima di andare in scena, a guardare le partite di basket, soprattutto durante i playoff.

Fu proprio durante una di quelle sere, con i maledetti Celtics sullo schermo, che Kevin Spacey mi mise una mano sulla coscia.

Dire che mi ricordo le circostanze precise o fin dove arrivò la sua mano, sarebbe una bugia. Da ossessivo-compulsivo, spesso ho dubitato della mia memoria. In effetti, ho appena concluso una telefonata con mia madre e lei dice che, quel giorno, non riuscivo neanche a descrivere con certezza assoluta quello che era successo esattamente. Ma sapeva che ero spaventato. E – sapendo che suo figlio non era uno che inventava storie tanto per attirare l’attenzione – venne a prendermi, e a casa di Kevin non ci andai. Ma credo che il mio disturbo ossessivo-compulsivo abbia frenato i miei genitori. Dovevano già gestire un bambino che scriveva folli liste dei suoi sensi di colpa, che all’età di quattro anni si era spogliato nudo in un supermercato a causa di un impulso irrefrenabile, e che era fissato con il numero cinque. Magari quello era un altro aspetto di una malattia che non capivano?

Così non dicemmo niente. E non facemmo niente. A dire il vero non ho mai pensato, fino ad ora, di dire qualcosa, neanche in età adulta. Anzi, diverse volte ho usato i dettagli dell’episodio come una specie di “aneddoto da festa”, qualcosa per risvegliare l’interesse di persone mezze ubriache, assiepate in gruppetti mezzi ubriachi, accanto agli antipasti e spesso concludevo la storia con un disinvolto: “Le sanno tutti queste cose su Spacey”.

Se ripenso a quei momenti adesso, mi vergogno.

Sto cercando di capire perché ne sto parlando, perché la rivelazione di Anthony Rapp mi ha fatto venir voglia di sedermi e trovare le parole. La risposta più semplice: scrivere è la mia vita. Uso le parole per chiarirmi le idee. Non comprendo mai una cosa se prima non provo a scriverne. Quel momento con Kevin non mi hai mai colpito molto. Non so perché. Qualche anno dopo, accettai perfino un invito da parte sua alla proiezione di “Americani”. Ma c’è dell’altro, qualcosa con cui combatto dal giorno della confessione di Rapp. E tutto quello che mi viene in mente è…

Nel 1951, William Faulkner scrisse: “Il passato non muore mai. Non è neanche passato” E, in breve, questo è quanto. Non possiamo mai sfuggire al nostro passato. Io non posso, Kevin Spacey non può, e neanche Anthony Rapp. Consideravo quella situazione con Spacey alla stregua di una barzelletta, una storiella divertente da sfoderare alle feste. E adesso sono costretto a fare i conti con la serietà di una cosa che io, e i miei genitori, avremmo dovuto affrontare diversamente. Per quanto riguarda Kevin, lui è riuscito ad evitarlo per anni. Ma non adesso. Non più.

Voglio essere generoso e dire che, a un certo punto, anche Kevin è stato ferito – fottuto da una società che ti punisce per la tua onestà. La pedofilia è un disturbo psichiatrico in cui si prova attrazione per bambini in età prepuberale. Sono tantissime le persone che provano queste sensazioni e non danno loro seguito. E se a Kevin Spacey fosse stato concesso lo spazio per parlare delle sue attrazioni senza temere una sanzione culturale? Ne staremmo ancora parlando? Ma ovviamente Kevin, da attore di successo, avrà avuto più possibilità di farsi aiutare rispetto alla maggior parte delle persone. E infatti, le sue scuse non hanno giustificato per niente il suo comportamento, ed hanno contribuito a fondere la sua sessualità con i suoi intenti predatori. Mi piacerebbe perdonarlo. Mi piacerebbe credere che sia redimibile, se non altro perché mi scagionerebbe dalla leggerezza della mia reazione. Ma finché Kevin non chiarirà tutto, non si merita l’assoluzione per peccati che non riesce neanche a comprendere.

Per quanto riguarda Anthony Rapp, faccio un plauso alla sua decisione di parlare, alla sua volontà di riaprire una vecchia ferita. Ma sa bene di non essere lui la storia, qui. Come ha detto Rapp dalla sua pagina Twitter: “Ho reso pubblica la mia storia seguendo l’esempio di donne e uomini coraggiosi che hanno parlato, per gettare luce, nella speranza di fare la differenza, come loro hanno fatto per me”. Ha ragione. La verità è che questa è una storia infinita con una lista infinita di eroi e vittime. E tantissima gente nel mezzo.

Non tornai più nel camerino di Kevin. Doveva aver saputo che era successo qualcosa. E cercava di essere gentile. Io fui il primo, tra i membri del cast originale, a lasciare “Lost in Yonkers”. In realtà, Manny Azenberg, il produttore, acconsentì alla rescissione anticipata del contratto così da permettermi di arrivare in California in tempo per l’inizio delle riprese di “Brooklyn Bridge – Oltre il ponte”.

Dopo il mio ultimo spettacolo, il cast e la troupe quasi al completo andarono da McHale’s, un vecchio pub irlandese che, da allora, è stato demolito. Daisy Eagan, che quell’anno vinse un Tony Award all’età di undici anni, era lì. Avevamo recitato insieme in “Les Misérables” qualche anno prima. Kevin era in gran forma. C’è anche una foto di quella sera che ci ritrae insieme: lui che mi solleva in aria, sorridendo alla telecamera e io, che agitando braccia e gambe fingo preoccupazione. Più tardi, mi diede una console Atari Lynx portatile come regalo d’addio. La scatola non c’era e, all’interno, era stato già inserito un videogioco. Ebbi l’impressione che l’avesse comprata per sé e avesse deciso che, magari, quel dono era un buon modo per entrare nelle mie grazie. Ci giocai per ore e ore sul sedile posteriore della Toyota Previa dei miei genitori, mentre attraversavamo il paese.

Danny Lanzetta è uno scrittore, fan sfegatato dei Knicks e direttore accademico di Highbridge Voices. Potete contattarlo all’indirizzo dannylanzetta77@gmail.com

Questo articolo è stato pubblicato su HuffPost Usa ed è stato tradotto da Milena Sanfilippo

(fonte)

Gli uomini che spiegano le cose

If I were a boy, Se fossi un ragazzo, si intitola così un recente intervento di Rebecca Solnit pubblicato dal Guardian. La scrittrice, giornalista e attivista americana, scrive che era solita scherzare con la madre sul fatto che fosse un figlio perfetto. Non una figlia: perché da loro, dai maschi, ci si aspettano carriere accademiche e lavorative brillanti, successi pubblici e riconoscimenti. Se si nasce donna, invece, si dovrebbe rispondere a ben altre aspettative. E lei, Rebecca Solnit, continua ammettendo di essere ben più “capace di sistemare un tetto che di rincuorare un’anima”.

“Il successo racchiude un fallimento per le donne: ci si aspetta che il loro successo derivi dal far sentire gli uomini infallibili”, aggiunge l’autrice nell’articolo.

Nata nel 1961 in Connecticut e cresciuta in California, Rebecca Solnit ha spesso riflettuto sul rapporto tra uomini e donne anche sul sito Literary Hub, dove scrive di letteratura e attualità, senza tralasciare interventi legati alla politica americana. Accanto al suo interesse per femminismo e letteratura, la giornalista si occupa anche di antropologia e viaggi, argomenti su cui ha scritto anche alcuni saggi. Tra l’altro, scrive per la rubrica Easy Chair della rivista Harper’s Magazine.

Nel 2008, grazie a un post sul suo blog, pubblicato in seguito a un suo articolo per il Los Angeles Times, Rebecca Solnit ha dato un nome all’atteggiamento di alcuni uomini che sentono la necessità di dover spiegare qualcosa a una donna, nonostante la loro interlocutrice non ne abbia bisogno perché esperta di quel determinato argomento.

La stessa Solnit, in almeno un’occasione, si è trovata a dover ascoltare la spiegazione di un argomento che era stato tema di un suo saggio – e su cui quindi era molto preparata – da parte di un uomo che si sentiva in dovere di esporre le sue conoscenze in materia.

Da questo evento è nata una lunga riflessione che ha portato Rebecca Solnit a scrivere e raccogliere sette brevi saggi sul fenomeno del mansplaning in Gli uomini mi spiegano le cose, ora in libreria anche in Italia edito da Ponte alle Grazie nella traduzione di Sabrina Placidi.

Il sottotitolo è eloquente: riflessioni sulla sopraffazione maschile. Il bisogno di spiegare le cose, a prescindere dalla propria conoscenza, infatti, è definito da Solnit come una sorta di abuso di potere che gli uomini esercitano nei confronti delle donne.

Avallando le conoscenze delle loro interlocutrici, gli uomini che si macchiano di mansplaining ingigantiscono il loro ego minimizzando invece le conoscenze e l’attendibilità delle opinioni delle donne che si trovano di fronte. E così ritorniamo a quel fenomeno un po’ antiquato, ma ancora esistente, non neghiamolo, che Solnit ha descritto per il Guardian. Ossia che, ancora oggi, in alcuni momenti e in alcuni ambiti l’unico vero successo delle donne sia “far sentire gli uomini infallibili”.

Il mansplaining è l’arroganza tipicamente maschile che frena le donne, non solo nella vita privata, ma soprattutto nella carriera professionale, insegnando loro che forse è meglio stare in silenzio, perché nel mondo non c’è ancora spazio per loro.

Per fortuna, di donne disposte a farsi sminuire a favore dell’ego maschile sembra ce ne siano sempre meno.

Ma, come scrive Rebecca Solnit nel saggio che dà il nome alla raccolta: “La battaglia delle donne per essere trattate come esseri umani con un diritto alla vita e alla libertà e a perseguire il coinvolgimento nelle arene della cultura e della politica continua, e talvolta si tratta di una battaglia molto dura”.

(fonte)

Quelli che usano la ‘notte di Colonia’ per allungare gli orli delle gonne

gonna

Quello che è accaduto a Colonia è il segno dell’inadeguatezza delle forze di polizia e della politica che le amministra: i primi a finire in manette per le aggressioni alle donne tedesche sono ragazzi di una gang sulla quale da un anno e mezzo è aperto un fascicolo di indagine. E del resto anche i responsabili degli attentati in Francia dell’ultimo anno non erano degli immacolati cittadini sconosciuti agli inquirenti: erano tutti ben noti, segnalati e controllati. Quindi, perfavore, non venite a fare per l’ennesima volta a noi donne la paternale veteromaschilista dell’allunga l’orlo e gira a occhi bassi. Perché noi gli orli li accorciamo e allunghiamo un po’ come ci pare e gli occhi li usiamo per guardarci intorno e scoprire il mondo. Perché non è riducendo le nostre libertà che vivremo più sicure a casa nostra. È educando al rispetto e punendo chi non ce lo porta che la nostra società potrà compiere un saltello oltre la fossa in cui pare essere di nuovo crollata. È educando gli uomini (chiunque essi siano, qualunque dio preghino, qualunque lingua parlino) che si salvano le donne.

Da leggere il post di Deborah Dirani qui. Oltre alle solite chiacchiere.