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La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio

Adnan Siddique è stato ucciso la sera del 3 giugno nel suo appartamento, in via San Cataldo a Caltanissetta. Viveva in Pakistan, a Lahore, una cittadina di 11mila abitanti con suo padre, sua madre e i suoi 9 fratelli. Adnan era la punta di diamante su cui la sua famiglia aveva investito tutto, tutto quel poco che ha, perché trovasse fortuna. Aveva 32 anni e in Italia lavorava come manutentore di macchine tessili. Era molto conosciuto in città, tutte le mattine passava al bar Lumiere per un caffè e i gestori del locale lo raccontano come un ragazzo pieno di sogni e di preoccupazioni. Quali preoccupazioni? Avere cercato giustizia per un gruppo di connazionali che lavoravano nelle campagne da sfruttati come capita in tutta Italia, da nord e sud. Adnan si era messo in testa di liberare i suoi amici dallo sfruttamento e aveva addirittura accompagnato uno di loro a sporgere denuncia. Troppo, per qualcuno che evidentemente continua a credere che la schiavitù sia qualcosa di cui scrivere e parlare solo quando si svolge lontano da noi. Era stato minacciato più volte e non era tranquillo. Aveva anche denunciato le minacce ma evidentemente non è bastato.

Adnan è stato ucciso con cinque coltellate: due alle gambe, una alla schiena, una alla spalla e una al costato. Quella al costato, secondo la perizia sul cadavere, gli è stata fatale. Sono bastate poche ore anche per trovare l’arma, un coltello di circa 30 centimetri. Ci sono anche quattro pakistani fermati per l’omicidio, un quinto è accusato di favoreggiamento. «Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno, titolare del bar frequentato da Adnan – lo avevano picchiato». Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, racconta: «Era bravissimo, gentile, quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria». Anche suo cugino Ahmed Raheel, che vive in Pakistan e con cui Adnan Siddique si era confidato, sembra avere le idee chiare: «Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce all’Ansa – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia».

Il presidente dell’Arci di Caltanissetta Giuseppe Montemagno chiede che «si faccia piena luce sui motivi alla base dell’omicidio di Adnan Siddique e sulla diffusione dello sfruttamento dei braccianti agricoli nelle campagne tra le provincie di Caltanissetta ed Agrigento. Oltre ai responsabili materiali – chiede il presidente dell’Arci – dell’atroce delitto chiediamo agli inquirenti di accertare quali siano le proporzioni del fenomeno del caporalato nel territorio nisseno ed individuare eventuali altri responsabili». Perché la storia di Adnan, al di là di quello che accerterà l’autorità giudiziaria sta tutta nelle pieghe di un caporalato che sembra non avere paura di nessuno, che continua a cavalcare impunito interi settori dell’agroalimentare e che tratta gli stranieri in braccia. Tutti sono solo le loro braccia: le braccia per raccogliere la frutta e la verdura e le braccia da armare per punire un connazionale che ha deciso di alzare troppo la testa.

E in questi tempi in cui da lontano osserviamo gli Usa che si ribellano al razzismo forse sarebbe il caso di cominciare a osservare anche le profilazioni che avvengono qui da noi, dove l’essere pakistano ti relega al campo o sul cantiere senza il diritto di avere diritti, dove una storia di violenza che si trascina da tempo finisce per essere sottostimata dalle Forze dell’ordine e da certa stampa, dove un omicidio non merita nemmeno troppo di finire in pagina perché anche se parla un’altra lingua in fondo parla di noi. Parla tremendamente di quello che siamo.

L’articolo La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio proviene da Il Riformista.

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Il gran rifiuto

Il ministro per il Sud Peppe Provenzano ritira la sua partecipazione a un convegno sul futuro del Paese in cui i relatori sono tutti maschi. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza

“Me ne accorgo solo ora, è l’immagine non di uno squilibrio, ma di una rimozione di genere. Mi scuso con organizzatori e partecipanti, ma la parità di genere va praticata anche così: chiedo di togliere il mio nome alla lunga lista. Spero in un prossimo confronto. Non dimezzato, però”.

Sono le parole con cui Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la coesione territoriale. ha declinato l’invito a un tavolo virtuale in cui avrebbe dovuto confrontarsi con sindaci e docenti universitari e esperti sul futuro del Paese. Uno dei tanti convegni in cui gli invitati sono tutti maschi e in cui vengono superate a spallucce le critiche di chi fa notare che spesso si attua una totale rimozione di genere dagli eventi come se fosse una cosa normale e scontata.

Il gesto del ministro Provenzano però ci insegna anche qualcos’altro, prezioso di questi tempi: per contestare pratiche che non accettiamo e per reclamare diritti che rimangono troppo nascosti si può anche decidere di rifiutarsi di partecipare. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza: l’assenza va dosata con intelligenza e con cura e contiene molti sensi.

Decidere ad esempio di non appartenere a un parterre che dell’appartenenza di genere fa il suo marchio di fabbrica è un gran rifiuto, composto e significativo, che ha molto da insegnarci. Spinge l’occhio a notare come il tuttimaschi sia una costante anche in ambienti dove esistono talenti e professionalità femminili. E le polemiche fatte sottovoce ogni tanto sono un’ottima lezione.

Buon martedì.

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Il razzismo in divisa ha ammazzato ancora: e ora, caro Trump, è il momento di provare vergogna

È successo ancora. Succederà ancora. Come quando accade un incidente, che ne so, di un treno e tutti i giornali si mettono a scovare i più piccoli disguidi dei viaggi dei treni, così negli USA si moltiplicano le segnalazioni e le notizie delle violenze della polizia sua afroamericani. Solo che in questo caso Manuel Ellis è morto, a soli 33 anni, dopo un pestaggio violento in cui la divisa è solo un elemento scenografico di un pestaggio della peggior specie, niente a che vedere con il ruolo pubblico e la responsabilità che ci si aspetterebbe da un tutore della legge. È morto perché, dicono i poliziotti, ha aggredito lui per primo, come nelle risse fuori da scuola in cui la legge del taglione o l’abuso di una difesa sia una cosuccia normale da giustificare come un incidente di percorso.

Eppure che Manuel Ellis sia stato ammazzato lo dice chiaramente il medico legale e ora altri quattro poliziotti, dopo il caso Floyd, si ritrovano sotto i riflettori per l’uso sconsiderato della forza. Se sei nero, dalle parti degli USA, rischi di essere processato per direttissima dalle suole delle scarpe di chi dovrebbe garantirti giustizia.Il video rimbalzato sulle pagine del New York Times lascia poco spazio ai dubbi e infervora ancora di più una protesta che ha assunto proporzioni più ampie del solo sdegno per una morte. Oggi negli USA si critica uno sdoganamento della violenza come mezzo per controllare l’ordine pubblico e che la violenza chiami solo violenza è uno di quegli insegnamenti che di solito vengono dati fin da bambini e che hanno chiaro quasi tutti, escluso il presidente del Paese più potente del mondo.

Ora il giochetto sarà sempre lo stesso, quello che non è solo americano: lamentarsi per lo spirito poliziottofobico dell’opinione pubblica e per il troppo spirito indagatore dei media. Di solito quando un potere non riesce a fare smettere che accada una vergogna si concentra sul non farla raccontare, come se potesse funzionare un silenzio omeopatico che vorrebbe fare sparire i fatti. Di certo Manuel Ellis è morto e anche di questo cadavere qualcuno dovrà rispondere. Tra l’altro Trump ha anche la sfortuna che l’omicidio sia avvenuto ben prima delle proteste (sarebbe stato fin troppo facile dare la colpa ai contestatori) e ora dovrà inventarsi qualcosa di nuovo, probabilmente di stupido. E l’aspetto peggiore di tutta la vicenda è che probabilmente lo farà presto e senza nemmeno troppa fatica e troppa vergogna.

Leggi anche: 1. “Non riesco a respirare”. L’arresto, le botte: così è morto Manuel Ellis. Ricostruzione del caso / 2.Il sindaco di Minneapolis si inginocchia e piange davanti alla tomba di George Floyd | VIDEO/3.George Floyd, il rapper Kanye West dona 2 milioni di dollari e paga l’istruzione della figlia Gianna/4. Il video postumo di George Floyd, lo straziante appello ai giovani sulla non violenza

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Bibbia in mano, mascherina abbassata: quei simboli branditi per coprire il vuoto politico

È un neo-simbolismo furioso e coprente, solo che copre il vuoto, copre il niente che c’è sotto e tutta una serie di commentatori finiscono per analizzare il cerotto dimenticandosi che sotto c’è il nulla. È un neo-simbolismo che attraversa la politica internazionale e si appiattisce sulla comunicazione veloce che è solo un vomito di spot (e no, non è colpa dei social, lancerebbero le loro tiritere anche solo nei dieci secondi montati in qualche tg nazionale, allo stesso modo) e che ha bisogno di rendersi riconoscibile. Qualcuno dice “indossate le mascherine” e loro non indossano le mascherine, qualcuno protesta dall’altra parte del mondo per un razzismo cancellato solo sulla carta e Trump risponde con i poliziotti a cavallo e la Bibbia in mano, qualcuno lamenta le morti nere in mare (che chissà perché valgono meno dei morti sotto le ginocchia) e qualcuno risponde sferragliando il rosario, alcuni dettano una regola e altri violano le regole rivendicando la violazione come eroico dissentimento.

Da Salvini con la mascherina abbassata a Bolsonaro che si assembra fino a Trump che invoca i proiettili, la politica di questi giorni è tutta una lava di gesti brevi e di metafore belliche che non rispondono a una che sia una delle questioni che sono sul tavolo. Trump risponde alla violenza invocando ancora più violenza e poi lamentandosi della violenza degli altri: rispondere a una questione complessa con uno spot di qualche parola è più da incapaci che irresponsabili. I Gilet Arancioni invocano un complotto mondiale ordito per mettere in scena una finta pandemia ma non si capisce chi ci stia guadagnato e che cosa: a domanda non rispondono, sono i soliti poteri forti. Bolsonaro in Brasile ci avvisa che tanto “moriremo tutti” prima o poi: mo’ me lo segno, grazie per l’illuminante rivelazione.

Dovunque si gratti non ci sono mai soluzioni, una che sia una. Esistono solo per contrapporsi senza nemmeno sentirsi in dovere di proporre un’alternativa. Chiedete a Trump, Salvini o Bolsonaro quale sia la via per vincere: l’eliminazione degli avversari. Solo quello, solo così, come dei ragazzini che giocano a battaglia navale sul tavolo della cucina. Vivono solo di riflesso dei loro nemici, se glieli togli balbetterebbero per ore di riforme che li mostrerebbe per quelli che sono: muri, condoni, preghiere mimate, sostegno ai più forti, calpestamento dei più deboli. Modelli economici impraticabili e culto di se stessi. Sono il niente mischiato con niente che usa i simboli per nascondere le proprie pudenda.

Leggi anche: 1. Per la Festa della Repubblica in piazza ci vanno i nemici della Repubblica (di Marco Revelli) / 2. Roma, gilet arancioni in piazza del Popolo senza protezioni. Pappalardo: “Abbracciatevi!”. Troupe di La7 aggredita in diretta 

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Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

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Non credetegli. Mai. Il mare non uccide. Le persone uccidono.

Non credetegli. Mai. Il mare non uccide. Le persone uccidono. Anche l’indifferenza uccide, sì, anche quella: i morti per indifferenza li riconosci perché quando muoiono se gli apri gli occhi, con le dita, come si aprono due lembi, dentro ci trovi la pupilla di chi l’aveva capito da tempo che sarebbe finita così. Non sono mica come i morti improvvisi, quelli con lo sguardo interrotto che non ha nemmeno fatto in tempo di stringersi per il buio che gli veniva addosso: se avessero un minuto, un minuto ancora, un minuto di quelli che un minuto prima di andarsene uno torna e dice – ah! Scusa, un’ultima cosa – se avessero avuto quel minuto lì ve l’avrebbero raccontato anche loro che il mare, il mare non uccide. Uccide trascinarsi per il deserto come una mandria zoppa in balìa di pastori a forma di soldati; uccide farsi porto a forza di pregarne uno e provare a farsi legno per non bollire di sole e sale; uccide nascere dalla parte sbagliata del mondo, come una mela che casca dalla parte del dirupo; uccide l’indifferenza. Sì, l’indifferenza uccide, eccome se uccide. Ci sono più morti di indifferenza della somma di tutte le guerre mondiali, anche delle guerre dei tempi passati. Solo che i morti di indifferenza muoiono che non se ne accorge nessuno. Si spengono come lampadine di una strada deserta in cui non passa nessuno.
Il vicolo deserto in cui non passa nessuno, trattato come un sacco dell’umido da chiudere stretto senza nemmeno guardarci dentro, per non rovinarsi l’appetito, è la Libia di cui tutti parlano e nessuno legge, la Libia che è diventata la discarica dei nostri errori e dei nostri orrori. E invece lì dentro ci sono storie che vanno prese a piene mani e portate in giro. Con pazienza, cura. Come quando si cambia una lampadina, appunto.

(dal mio spettacolo “A casa loro”, scritto insieme a Nello Scavo, che è uno spettacolo teatrale ma forse sarebbe il caso che fosse un bigino da tenersi in tasca durante questa brutta campagna elettorale. Buon venerdì:)

«Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io»

(Se volete leggervi uno dei migliori pezzi scritti di questi tempi ecco Paul B. Preciado)

Torno nella città dove sono nato per fare compagnia a mia madre, costretta a restare qualche giorno in ospedale dopo un’operazione. Questa città della Castiglia, dove corpi umani vagano avvolti da pellicce di animali che non hanno mai vissuto in questa regione e in cui le finestre delle case sono decorate con bandiere spagnole, mi spaventa.

Mi dico che la pelle degli stranieri finisce con l’essere trasformata in cappotti, e che la pelle di quelli che sono nati qui si trasforma da un giorno all’altro in una bandiera. Passiamo i giorni e le notti nella camera 314. L’ospedale è stato ristrutturato di recente, ma mia madre ripete che questa stanza le ricorda quella in cui mi ha partorito. A me, proprio perché non mi ricorda niente, questa stanza di ospedale sembra più accogliente della mia casa natale, più sicura delle strade dello shopping, più festiva delle piazze con le chiese.

La mattina, dopo la visita di routine del dottore, esco a prendere un caffè. In questo ospedale, situato in una zona deserta, non c’è una caffetteria. Cammino lungo il fiume Arlanzón fino al bar più vicino, in un freddo luminoso che i castigliani chiamano “sole con le unghie”. Respiro un’aria gelida, pulita, come un getto di vapore compresso che punta l’angoscia che nascondo nel petto.

La sedia assegnata
Essere il figlio trans di una famiglia cattolica spagnola di destra non è facile. Il cielo castigliano è chiaro come quello di Atene, ma in Grecia è di un blu cobalto. Qui è d’acciaio. Ogni mattina esco fuori e desidero non tornare più. Disertare la famiglia come si diserta la guerra. Ma non lo faccio. Torno in ospedale a occupare la sedia da parente stretto che mi è stata assegnata. A cosa serve che la ragione avanzi se il cuore resta indietro, diceva Baltasar Gracián.

In ospedale, da mezzogiorno alle otto di sera, si alternano le visite. Questa camera si trasforma in una scena di teatro pubblico in cui io e mia madre lottiamo, non sempre con successo, per ristabilire i ruoli. Quando deve presentarmi, mia madre dice: “Lui è Paul, mio figlio”. La risposta è sempre la stessa: “Pensavo che avessi solo una figlia”. A quel punto mia madre dice, alzando gli occhi al cielo e cercando di immaginare una scappatoia a questa impasse retorica: “Sì, avevo solo una figlia e ora ho un figlio”. Uno dei visitatori deduce: “Ah, è il marito di tua figlia? Non sapevo che fosse sposata, congratulazioni…”.

Mia madre capisce di aver commesso un errore strategico e si affanna come chi cerca di riavvolgere freneticamente il filo di un aquilone volato già troppo in alto: “No, no, non è sposata, è mia figlia…”. Poi tace per un istante, durante il quale smetto di guardarla. “Mia figlia ora è mio figlio”. La sua voce disegna una cupola di Brunelleschi che si innalza per dire “figlia” e precipita per dire “figlio”.

Non è facile essere la madre di un trans in una città dove avere un figlio queer è peggio che avere un figlio morto. Allora, gli occhi del visitatore schizzano in tutte le direzioni, prima di rispondere con un piccolo sospiro.

Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei

A volte sorrido: mi sento come un Louis de Funès in un film di fantascienza. Altre volte sono sopraffatto dallo stupore. Non si parla più della malattia di mia madre, perché la malattia sono io. Non è facile essere il figlio di una famiglia cattolica convinta che Dio non sbaglia mai.

Azioni e pensieri rasserenanti
Decidere di cambiare qualcosa significa contraddire Dio. Mia madre ha rinnegato la dottrina della chiesa. Dice che una madre è più importante di Dio. Continua ad andare a messa la domenica, ma ci va per fare i conti con l’aldilà, e la chiesa non deve immischiarsi. Lo dice a bassa voce, sa di essere blasfema. Non è facile essere la madre di un trans vivendo in una comunità di sostenitori dell’Opus Dei. Mi sento in debito verso mia madre perché non sono e non posso essere un buon figlio per lei.

Quando le sollevo le gambe per favorire la circolazione del sangue mi dico che sono più bravo come badante che come figlio. Quando aggiorno le app del suo telefono, riorganizzo lo schermo e installo nuove suonerie mi dico che sono meglio come tecnico informatico che come figlio. Mentre le acconcio in capelli in uno chignon e aumento il volume della pettinatura sopra la fronte mi dico che sono meglio come parrucchiere che come figlio. Quando scatto qualche foto per inviarla ai suoi amici che hanno superato gli ottant’anni e non possono venire a farle visita mi dico che sono meglio come fotografo che come figlio.

Sono meglio come garzone che come figlio. Sono meglio come compilatore dei suoi video preferiti di Rocío Jurado su YouTube che come figlio. Sono meglio come lettore del giornale locale che come figlio. Sono meglio come piegatore di vestiti che come figlio. Sono meglio come pulitore del bagno che come figlio. Sono meglio come infermiere notturno che come figlio. Sono meglio come aeratore della stanza che come figlio. Sono meglio come cercatore di chiavi perse in fondo alla borsa che come figlio. Sono meglio come distributore di pillole che come figlio. Sono meglio come fotocopiatore di documenti per la previdenza sociale che come figlio.

E tutte queste cose – curare, acconciare i capelli, riparare computer e telefoni, scaricare video, trovare chiavi, fare fotocopie – mi calmano i pensieri e mi rasserenano.

(Traduzione di Andrea Sparacino, fonte Internazionale)

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)

Faccio il lavoro più bello del mondo. E non sopporto lo sventolio della scorta.

Anche stasera. A San Didero, che è un comune a forma di gioiello pendente appeso al collo della Val di Susa. Qui dove la montagna è una religione laica da indossare con un certa fierezza. Essere montanari significa avere a cuore la propria terra, qui. La questione TAV non è una disquisizione tra tifosi, qui ti mangia il giardino e, se ti va male, la casa, anche.

Siamo andati in scena con Mafie Maschere e Cornuti davanti a un pubblico che non si aspettava mica uno spettacolo che schiaffasse in faccia quello che non vediamo per stare tranquilli. Qui, anche qui, si aspettavano di vedere “l’animale minacciato”, un tipico esemplare di personaggio televisivo che facesse il triste. E invece no.

In fondo, ci pensavo adesso che sto andando a dormire, faccio il lavoro più bello del mondo: racconto storie e mi diverto nell’appoggiarle in modo inaspettato. Dall’inaspettato, se siamo bravi, si accende la sorpresa e poi la sorpresa partorisce la meraviglia.

Non so dire bene quando mi sono messo intesta di smetterla di fare “l’uomo lupo”, prodotto circense da portare in tournée per sfruttare il filone degli scortati.

Io sono io. Non sono le mie minacce (ho provato a raccontarlo in Santamamma). E ogni volta che qualcuno, sorpreso, mi dice che lo spettacolo è stato un bello spettacolo e che lo spettacolo non ero io mentre lo recitavo mi convinco di avere reso onore al privilegio che mi è capitato: raccontare storie.

E niente. Ve ne sono grato. Ecco. E fanculo le minacce e la scorta. Tutto qui.