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Se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa

Invece di rispondere in conferenza stampa sui suoi rapporti con l’Arabia Saudita (come aveva promesso), Matteo Renzi si è inventato l’autointervista. E che fa? Mischia le carte e naturalmente si dimentica di farsi domande importanti

«È così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto». Rubo le parole che Longanesi dedicò a Malaparte per provare a raccontare come Matteo Renzi abbia pensato di risolvere la questione dei suoi rapporti a pagamento con il principe ereditario Mohammed bin Salman.

Ricapitoliamo. Nel pieno della crisi di governo (da lui provocata) Matteo Renzi conduce un’intervista con il principe saudita in cui magnifica il regime, magnifica il principe (lo chiama più volte “amico mio” e “grande” principe), basta guardarsi il video dell’intervista, parla di un «nuovo Rinascimento» e addirittura ammette di invidiare “il costo della lavoro” dei sauditi. Tutto questo alla modica cifra di 80mila euro (o dollari, Renzi non ricorda esattamente) all’anno.

Quando esce la notizia del suo essere al soldo del principe saudita lui si difende, piuttosto goffamente, dicendo che rientra tutto nella sua normale attività di “conferenziere”: falso. Conferenziere non significa essere pagato per contribuire alla ricostruzione di una credibilità che i sauditi faticano a mantenere: molti grandi gruppi dei media – come New York Times e Cnn – dopo l’omicidio di Khashoggi, editorialista del Washington Post, hanno boicottato la Future Investment Initiative del principe bin Salman. L’ingaggio di Renzi evidentemente è tornato molto utile per coprire un buco che altri non erano disposti a coprire. È legale? Sì, purtroppo, perché in Italia (e solo in pochi altri Paesi) c’è un evidente buco legislativo. È legittimo? Ognuno ha la sua idea.

Poi accade che Renzi, incalzato, affermi letteralmente: «Prendo l’impegno di discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia saudita, di tutto; ma lo facciamo la settimana dopo la fine della crisi di governo».

La crisi di governo si è risolta e intanto Biden ha reso pubblico il rapporto dell’intelligence Usa che conferma la diretta responsabilità del principe saudita nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Una brutta botta per il leader di Italia Viva.

Arriviamo finalmente a questi ultimi giorni, Renzi risponde, bene, e come risponde? Intervistandosi da solo. Badate bene: aveva parlato di «discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa» ma furbescamente si inventa l’autointervista per avere a che fare con l’unica persona di cui è interessato e che stima davvero: se stesso. E che fa? Mischia le carte, come molti dei suoi fan sui social in queste ore, confondendo attività politica e attività professionale personale. Il trucco è quello di equiparare l’attività politica di rappresentanti politici in carica (su cui poi ci sarebbe parecchio da scrivere) con il suo lavorare per la propaganda di regime di un Paese straniero mentre è senatore pagato dai cittadini italiani. Peccato che su questo punto il Renzi giornalista non abbia avuto la prontezza di interrogare il Renzi intervistato. Scrive Renzi che è «giusto e anche necessario» avere rapporti con l’Arabia Saudita, Paese «baluardo contro l’estremismo islamico e uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni» confondendo il lavoro diplomatico con l’attività di un privato cittadino. Insomma, il solito Renzi.

Nella sua risposta ovviamente non cita mai il principe (non sia mai, che non si irriti “amico mio”), spende ancora parole d’elogio per la famiglia reale saudita ma si dimentica di farsi la domanda sugli interessi economici dei sauditi in Italia e in Europa. Che distratto. Sarebbe stata una bella domanda. In compenso si fregia di pagare le tasse, come se fosse una cosa straordinaria. Grandioso.

E infine, come sempre, la butta sul vittimismo politico: questo però è sempre un classico. Renzi infine rivendica di essere sempre pronto a parlare di diritti umani ovunque sia necessario: benissimo, ma ci faccia sapere su mandato di chi e se poi emette fattura. Così ci viene più facile.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Kamala Harris e la Palestina

Ci sono, tra le dichiarazioni della vicepresidente degli Usa, frasi che fanno accapponare la pelle a chi come noi ha a cuore i diritti dei palestinesi

Sì, certo, ci sono anche le ombre. Due giorni fa nel mio #Buongiorno mi permettevo di sottolineare come fosse un vento buono quello che ha portato alla vicepresidenza degli Usa una donna che ha una visione dei diritti completamente lontana da quella dei diritti negati secondo Donald Trump. E il dibattito si è infiammato: qualcuno giustamente fa notare a noi di Left che Kamala Harris è troppo poco progressista poiché molto vicina, anzi vicinissima a Hillary Clinton (come se una vittoria, ai tempi, di Hillary Clinton su Donald Trump non sarebbe stata comunque una buona notizia rispetto a quello che abbiamo vissuto), qualcuno sottolinea i diversi errori (e qualche omissione) di Kamala Harris nel suo ruolo di procuratrice (i 1.500 arrestati per reati legati al fumo di marjuana, ad esempio, oppure la proposta di mettere in prigione i genitori di bambini che registravano un elevato tasso di assenze scolastiche). Ed è tutto vero, verissimo. Vero anche che Kamala Harris sia parte integrante dell’establishment democratico. Mi permetto di credere però che se esponenti molto progressiste femministe vedono nella sua elezione un ulteriore passo in avanti verso la caduta del tetto di cristallo ci saranno delle buone ragioni.

È estremamente preoccupante anche la posizione di Kamala Harris sulla questione palestinese, con la Palestina che ancora una volta non vede una gran luce dalle elezioni americane (Israele è corso subito alla corte di Biden). Ci sono, tra le dichiarazioni di Kamala Harris, frasi che fanno accapponare la pelle a chi come noi ha a cuore i diritti dei palestinesi.

«L’ultima raffica di attacchi missilistici da Gaza contro israeliani innocenti non può essere tollerata: Israele ha il diritto di difendersi da questi orribili attacchi. Mi unisco agli altri nell’esortare contro un’ulteriore escalation», ha detto a JewishInsider il 15 novembre 2019. Sul fatto che Israele soddisfi o meno gli standard dei diritti umani: «Nel complesso, sì» ha detto al New York Times, 19 giugno 2019. E poi: «Per questo motivo sostengo fortemente l’assistenza alla sicurezza dell’America a Israele e mi impegno a rafforzare il rapporto americano di sicurezza e difesa israeliana… Credo che quando una qualsiasi organizzazione delegittima Israele, dobbiamo alzarci in piedi e parlare apertamente contro di essa. Israele deve essere trattato allo stesso modo, ed è per questo che la prima risoluzione che ho co-sponsorizzato come senatore degli Stati Uniti è stata quella di combattere i pregiudizi anti-israeliani alle Nazioni Unite e di affermare e riaffermare che gli Stati Uniti cercano una soluzione giusta, sicura e sostenibile per due Stati» (intervento al Comitato ebraico americano, 3 giugno 2019).

Le debolissime politiche di Biden sui diritti dei palestinesi sembrano avere trovato un ottimo appiglio in Kamala Harris. Purtroppo per noi e purtroppo per tutti quelli che tengono alla situazione mediorientale. Sarà un’altra presidenza americana dura dalle parti di Gaza, senza dubbio. E su questo ci sarà da lottare.

Poi, mi sia concesso, il profumo dell’assenza di Trump è una vittoria politica. Una vittoria breve? Può essere. Noi siamo qui proprio per questo, per osservare e informare, osservare e informare, osservare e informare.

Buon mercoledì.

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Bel colpo, Djokovic

Il campione serbo, idolo dei No vax per le sue uscite antiscientiste, è l’ottava vittima del focolaio di coronavirus acceso dall’Adria Cup, il torneo da lui stesso organizzato a Belgrado e Zara senza rispettare le norme anti Covid

«Sono contrario alla vaccinazione contro il coronavirus e non vorrei essere costretto a vaccinarmi per poter viaggiare: se dovesse diventare obbligatorio, dovrei prendere una decisione».

E poi.

«Se hai pensieri ed emozioni specifiche, nel caso siano pensieri felici, buoni pensieri, questi creano una struttura molecolare che ha un geoprisma basato sulla geometria sacra, il che significa che c’è equilibrio. Al contrario, quando si dà all’acqua dolore, paura, frustrazione o rabbia, quell’acqua si rompe».

Parole, opere e omissione del numero 1 al mondo, il tennista Novak Djokovic che dei No vax è diventato l’idolo perché evidentemente da quelle parti sapere giocare a tennis dà la patente per essere ottimi virologi.

Peccato che Djokovic abbia poi deciso di organizzare perfino un torneo di tennis, l’Adria Tour, fottendosene altamente di tutte le precauzioni che tutto il mondo sta mettendo in atto per il Covid. Che c’è di meglio che esibire il proprio coraggio contro il virus con un bel torneo tra amici. In tutto questo il tennista è anche stato pescato mentre festeggiava con altri tennisti in una discoteca serba. Nel filmato si vedono lo stesso Djokovic, assieme a Dominic Thiem, Alexander Zverev e Grigor Dimitrov al Lafayette cuisine cabaret club di Belgrado.

Perfetto: Novak Djokovic ha il coronavirus. Anche la moglie Jelena è risultata positiva al tampone. Tra domenica e lunedì anche i tennisti Grigor Dimitrov, Viktor Troicki e Borna Coric sono risultati positivi al Covid. Contagiati anche Kristijan Groh, allenatore che fa parte del team di Dimitrov, Marco Panichi, preparatore atletico italiano di Djokovic, e la moglie di Troicki, incinta.

La conclusione migliore è del presidente dell’Atp Andrea Gaudenzi al New York Times: «Questa situazione è come quando dici ai tuoi figli che per imparare ad andare in bicicletta devono indossare un casco. Ti dicono di no. Poi vanno in bicicletta, cadono e da lì iniziano a indossare il casco».

Bel colpo, Novak.

Buon mercoledì.

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Il razzismo in divisa ha ammazzato ancora: e ora, caro Trump, è il momento di provare vergogna

È successo ancora. Succederà ancora. Come quando accade un incidente, che ne so, di un treno e tutti i giornali si mettono a scovare i più piccoli disguidi dei viaggi dei treni, così negli USA si moltiplicano le segnalazioni e le notizie delle violenze della polizia sua afroamericani. Solo che in questo caso Manuel Ellis è morto, a soli 33 anni, dopo un pestaggio violento in cui la divisa è solo un elemento scenografico di un pestaggio della peggior specie, niente a che vedere con il ruolo pubblico e la responsabilità che ci si aspetterebbe da un tutore della legge. È morto perché, dicono i poliziotti, ha aggredito lui per primo, come nelle risse fuori da scuola in cui la legge del taglione o l’abuso di una difesa sia una cosuccia normale da giustificare come un incidente di percorso.

Eppure che Manuel Ellis sia stato ammazzato lo dice chiaramente il medico legale e ora altri quattro poliziotti, dopo il caso Floyd, si ritrovano sotto i riflettori per l’uso sconsiderato della forza. Se sei nero, dalle parti degli USA, rischi di essere processato per direttissima dalle suole delle scarpe di chi dovrebbe garantirti giustizia.Il video rimbalzato sulle pagine del New York Times lascia poco spazio ai dubbi e infervora ancora di più una protesta che ha assunto proporzioni più ampie del solo sdegno per una morte. Oggi negli USA si critica uno sdoganamento della violenza come mezzo per controllare l’ordine pubblico e che la violenza chiami solo violenza è uno di quegli insegnamenti che di solito vengono dati fin da bambini e che hanno chiaro quasi tutti, escluso il presidente del Paese più potente del mondo.

Ora il giochetto sarà sempre lo stesso, quello che non è solo americano: lamentarsi per lo spirito poliziottofobico dell’opinione pubblica e per il troppo spirito indagatore dei media. Di solito quando un potere non riesce a fare smettere che accada una vergogna si concentra sul non farla raccontare, come se potesse funzionare un silenzio omeopatico che vorrebbe fare sparire i fatti. Di certo Manuel Ellis è morto e anche di questo cadavere qualcuno dovrà rispondere. Tra l’altro Trump ha anche la sfortuna che l’omicidio sia avvenuto ben prima delle proteste (sarebbe stato fin troppo facile dare la colpa ai contestatori) e ora dovrà inventarsi qualcosa di nuovo, probabilmente di stupido. E l’aspetto peggiore di tutta la vicenda è che probabilmente lo farà presto e senza nemmeno troppa fatica e troppa vergogna.

Leggi anche: 1. “Non riesco a respirare”. L’arresto, le botte: così è morto Manuel Ellis. Ricostruzione del caso / 2.Il sindaco di Minneapolis si inginocchia e piange davanti alla tomba di George Floyd | VIDEO/3.George Floyd, il rapper Kanye West dona 2 milioni di dollari e paga l’istruzione della figlia Gianna/4. Il video postumo di George Floyd, lo straziante appello ai giovani sulla non violenza

L’articolo proviene da TPI.it qui

L’aria intorno ad Amazon /2

Il New York Times risponde alla riposta di Amazon:

di David Streitfeld

Forse Amazon è davvero scossa dal fenomeno di Authors United, catalizzatosi intorno allo scrittore Douglas Preston. Gli autori stanno chiedendo ai loro lettori di tempestare di mail Jeff Bezos, amministratore delegato di Amazon, per fargli smettere di “prendere libri in ostaggio” in occasione della controversia con Hachette.

Venerdì scorso, Amazon si è presentata sotto la sigla di Readers United, mettendo on line una lettera dove si incoraggiano gli acquirenti di e-book a tempestare di mail l’amministratore delegato di Hachette, il cui indirizzo è stato prontamente fornito.

Amazon, nella sua lettera, ha ribadito le argomentazioni delle ultime settimane: gli e-book devono essere più economici e Hachette sta derubando i lettori, impedendo che ciò accada. Amazon ha anche fornito degli esempi di giornalismo virtuoso sul tema – una lista molto selettiva.

Per i lettori che non dovessero essere sicuri di cosa scrivere con precisione a Hachette, Amazon ha fornito anche un elenco di punti. Il primo è: “abbiamo notato il vostro cartello illegale”, chiaramente un rompighiaccio in questo tipo di discussioni.

Amazon sostiene che le persone che si scagliano contro gli e-book si scagliano contro il futuro, e parla di come l’industria del libro odiasse i tascabili economici quando furonio introdotti nel 1930, di come sostenesse che avrebbe rovinato il business quando invece il tempo ha dimostrato il contrario. Purtroppo però, per rafforzare la propria tesi, Amazon ha tirato in ballo l’autorità sbagliata:

“Il famoso scrittore George Orwell venne pubblicamente allo scoperto e dichiarò: “gli editori dovrebbero unirsi contro di loro”. Sì, George Orwell stava suggerendo proprio questo.” Cioè, secondo Amazon, di fare cartello.

Ora. Può l’Amazon team, accreditato come la fonte di questo post, avere scritto proprio una cosa del genere? Perché, insomma, basterebbe un colpo di google per rivelare che Amazon sta travisando questo “famoso autore.”

Quando Orwell scrisse la frase citata, stava celebrando i tascabili economici della Penguin, non certo sollecitandone la soppressione. E allora può Amazon – che recentemente ha fatto sparire senza preavviso dai Kindle dei propri clienti diverse copie di 1984 dopo aver scoperto che non ne possedeva i diritti per l’edizione elettronica – davvero credere che George Orwell – tra tutte le persone! – avesse voluto sopprimere i libri?

Ecco dunque ciò che scrisse davvero Orwell sul «New English Weekly», il 5 marzo 1936. “I libri Penguin rappresentano splendido valore per sei pence, talmente splendido che gli altri editori dovrebbero unirsi per reprimerli”.

Capito? Gli piacevano.

Orwell continuò poi a minare quelle che sono diventate le argomentazioni di Amazon in un modo molto più efficace di quanto abbia fatto la stessa Hachette. “Naturalmente è un grande errore pensare che i libri economici incentivino il commercio dei libri”, scrisse. “In realtà è proprio il contrario… Più i libri diventeranno economici, meno denaro verrà speso per i libri”.

Invece di comprare due libri costosi, continuava Orwell, il consumatore comprerà due libri economici e quindi utilizzerà il resto dei suoi soldi per andare al cinema. “Questo è un vantaggio dal punto di vista del lettore e non fa male al commercio nel suo complesso, ma per l’editore, il compositore, l’autore e il libraio, è un disastro”, concludeva.

Il vero problema, sostenne lo scrittore in un saggio di un decennio più tardi, “Libri contro sigarette,” riguardava i libri in sé. Avevano trascorso un momento difficile, dovendosela vedere con altri media – una questione ancora aperta nel 2014.

“Se il nostro consumo di libri rimane basso come è stato fino ad ora”, scriveva Orwell, “ammettiamo almeno che questo accade perché la lettura è un passatempo meno eccitante che andare alla corsa dei cani, al cinema o al pub, e non perché i libri, che comunque possono essere presi in prestito, sono troppo costosi”.

Un portavoce di Amazon non ha risposto alle domande sulll’ipotesi che Orwell non stesse davvero sostenendo un fantomatico cartello di editori ma, semplicemente, facesse dell’ironia.

Addirittura il New York Times

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Il dibattito sulle droghe leggere in Italia si accende ad intervalli regolari per portare sistematicamente al nulla di fatto. Il gioco è sempre lo stesso: creare allarme sociale per spostare la discussione sul piano della sicurezza personale e quindi andare diritti alle pance senza dibattito scientifico e politico. Ora che il NY Times prende posizione (in un gradevolissimo modo senza sconti e senza tentennamenti) almeno sarà più difficile fare finta di niente:

Gli Stati Uniti ci misero tredici anni per riacquistare il senno e abolire il proibizionismo, 13 anni in cui la gente continuò a bere, e in cui viceversa cittadini rispettosi della legge divennero dei fuorilegge e organizzazioni criminali nacquero e prosperarono. Sono passati più di quarant’anni da quando il Congresso ha vietato la marijuana, infliggendo un danno alla società per aver proibito una sostanza molto meno dannosa dell’alcool. Il governo federale deve abrogare il divieto di vendere e consumare marijuana.
(…)
C’è un onesto dibattito nel mondo scientifico riguardo gli effetti sulla salute della marijuana, ma noi crediamo che ci sia una grandissima quantità di prove che dimostrano che la dipendenza da essa sia un problema minore, rispetto soprattutto a quella che causano alcool e tabacco. Un utilizzo moderato della marijuana non costituisce un rischio per una persona adulta sana. Le affermazioni secondo le quali la marijuana sarebbe una droga di passaggio verso l’assunzione di sostanze più pericolose è tanto fantasiosa quanto le immagini di omicidio, stupro e suicidio contenute nel film Reefer Madness [una specie di film di propaganda del 1936 contro il consumo di marijuana].
(…)
Creare sistemi per regolare la produzione, la vendita e la promozione del prodotto sarà complesso. Ma si tratta di problemi risolvibili, e sarebbero già stati trattati da tempo se come nazione non avessimo deciso di arroccarci sulla criminalizzazione della produzione e del consumo della marijuana.

Aggiustare le cose

Pensato per aiutare chi vuole ridurre ciò che buttiamo, il Caffè della Riparazione ha funzionato bene da subito all’inizio un paio d’anni fa. La Repair Cafe Foundation ha ottenuto circa mezzo milione di euro dal governo olandese, oltre che da associazioni e offerte minori, che servono per il personale minimo, la promozione, e anche un Pulmino della Riparazione. Ci sono trenta gruppi diversi che hanno avviato dei Caffè della Riparazione in tutta l’Olanda, in cui i vicini uniscono competenze e disponibilità per offrire qualche ora al mese a ricucire strappi nella stoffa o ridar vita a qualche caffettiera, lampada, aspirapolvere o tostapane, praticamente qualunque apparecchiatura elettrica dalle lavatrici agli spremiagrumi.

“In Europa si buttano via tante cose” racconta Martine Postma, ex giornalista che ha ideato il concetto dopo la nascita del secondo figlio e qualche riflessione in più sull’ambiente. “È una vergogna, visto che si tratta di cose del tutto riutilizzabili. Al mondo c’è sempre più gente, e noi non possiamo continuare così. Volevo fare qualcosa di concreto, non solo scrivere”. E però la tormentava la domanda: “È possibile farlo come persona normale, nella vita quotidiana?” Ispirata da una mostra sui vantaggi culturali ed economici di riparazione e riciclaggio, ha deciso che per evitare sprechi inutili si potevano aiutare praticamente le persone a sistemare le cose. “Quando si parla di sostenibilità spesso ci si limita a prospettare degli ideali. Si fanno magari una serie di laboratori su come coltivarsi da soli i funghi, e la gente si stufa. Questo invece è un modo di impegnarsi molto immediato e concreto. Si fa qualcosa insieme, qui e ora”.

Su The New York Times una di quelle piccole store, semplici, banali (direbbe qualcuno) e rivoluzionarie per l’ottimismo che esercitano.