Vai al contenuto

Nigeria

La prima nata a Genova dimostra che non c’è solo il Covid da combattere nel 2021, ma anche (e ancora) il razzismo

Il 32 dicembre in molti speravano che fosse il primo gennaio, che l’anno nuovo si fosse portato via mica solo il Covid-19 da combattere ora con un vaccino finalmente disponibile ma anche le croste di quelle brutture che hanno insozzato un anno già difficile, pesante, inquinato da un cattivismo (in tutte le sue forme: razzismo, disprezzo per i poveri, bastoni sui disperati) che ha reso l’aria ancora più tossica e pestifera.

Il 32 dicembre il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto di una mamma che tiene in braccio la figlia appena nata. La bambina si chiama Graeter ed è la prima nata a Genova. Graeter è figlia di Joy, una donna nata in Nigeria, come il papà della bimba. “Siete la nostra speranza, il nostro futuro, la forza per non mollare in questo nuovo anno che è appena iniziato. Benvenuti al mondo piccoli e auguri alle vostre famiglie a nome mio e di tutta la Liguria”, scrive Toti.

E il 32 dicembre inizia lì dov’era finito, con una tormenta di commenti a sfondo razzista: “Dopo il vaccino obbligatorio, lo ius soli? Renzi La aspetta a braccia aperte!”, “Nata in Liguria, ma somala o africana a prescindere…”, “Questo non è vero. Come non è vero che chi nasce in Italia è italiano. Cosa hanno di ligure questi signori? Ma cosa sta dicendo?”, “Stupido e iprocrita pietismo”, “Imbarazzanti lo siete voi…se io fossi nata al polo sud di certo non ero per diritto di nascita un pinguino!”. E così via.

Ovviamente a rimestare nella melma si butta anche la Lega che con il deputato Edoardo Riki si butta a capofitto a chiarire che “quella bambina non è ligure” e che addirittura si spreca in moralismo spiccio: “Niente contro di lei, ma devo dire che poi non apprezzo il fatto che si mettano in mezzo bambini appena nati e si utilizzino per commenti politici”. Alla fine perfino Toti, sconsolato da tanta bassa bruttezza, è costretto a intervenire sulla sua bacheca cercando di abbassare i toni.

E così il 32 dicembre del 2020 che molti hanno scambiato per il primo giorno del 2021 l’Italia fa ancora i conti con quello che è: una livorosa accozzaglia di diritti ostinatamente da negare e di una realtà ostinatamente taciuta e nascosta. Ne ha fatto le spese Graeter ma in fondo è stato il risveglio anche per noi: l’anno nuovo inizia quando iniziano nuovi comportamenti, quando si evolvono i pensieri e i modi, quando la realtà riesce a fare risultare “passato” quello che era. E invece niente di tutto questo. È un anno lunghissimo questo decennio.

Leggi anche: Liguria, Toti pubblica la foto della prima nata a Genova: insulti razzisti e scontro con la Lega

L’articolo proviene da TPI.it qui

Ingiusti perfino nel vaccino

Nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito, denuncia People’s vaccine alliance

Ne dovevamo uscire migliori ne usciremo probabilmente vaccinati. Noi. Noi saremo vaccinati perché il caso ha voluto che nascessimo in quella parte di mondo che se lo può permettere, eppure proprio durante la pandemia (che è stata e che continua a essere globale) abbiamo scritto, ascoltato e discusso centinaia di volte sull’esigenza di garantire una copertura vaccinale che fosse solidale e non seguisse solo secondo le logiche di mercato. I dati, per ora, dicono tutt’altro.

I numeri ce li dà People’s vaccine alliance, l’organizzazione formata da Amnesty international, Frontline aids, Global justice now e Oxfam: secondo le loro stime nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito.

Il ruolo del razziatore, manco a dirlo, spetta ovviamente all’Occidente che è riuscito ad accaparrarsi in tempo tutte le dosi che servono. I Paesi ricchi con appena il 14% della popolazione mondiale si sono già assicurati il 53% dei vaccini più promettenti: il Canada addirittura è riuscito a ottenere dosi in tale quantità da poter vaccinare ogni cittadino cinque volte, mentre l’Unione europea 2,3 volte.

Ben 67 Paesi a reddito medio-basso e basso rischiano di essere lasciati indietro sebbene 5 – Kenya, Myanmar, Nigeria, Pakistan e Ucraina – abbiano registrato quasi 1,5 milioni di contagi. «A nessuno dovrebbe essere impedito di ottenere un vaccino salvavita a causa del Paese in cui vive o della quantità di denaro che possiede», dice Sara Albiani di Oxfam Italia: «Senza un’inversione di marcia, miliardi di persone in tutto il mondo non riceveranno un vaccino sicuro ed efficace contro il Covid-19 negli anni a venire».

E a proposito di vaccini ha ragione Heidi Chow, di Global Justice Now quando dice che «tutte le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca che stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino devono condividere i dati, il know-how tecnologico e i diritti di proprietà intellettuale in modo che sia prodotto un numero sufficiente di dosi sicure ed efficaci per tutti. I governi devono anche garantire che l’industria farmaceutica anteponga la vita delle persone al profitto».

Non è una questione da poco: sull’equità della distribuzione del vaccino si gioca la credibilità mondiale e lo spirito di solidarietà mondiale. Quello che qualcuno diceva che sarebbe arrivato e invece, non è una sorpresa, non c’è. Oppure quello che gli altri dicono che non sia importante, sempre per quella vecchia storia di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Notate: un argomento così enorme viene discusso pochissimo, proprio nel momento in cui tutti discutono delle loro piccole facezie. Tutto così gretto, tutto così basso, tutto così ingiusto.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

“A Beirut, come a Damasco, è morta la speranza”: parla lo scrittore siriano Shady Hamadi

Shady Hamadi è uno scrittore di origine siriana e da sempre è un attento osservatore del Medio Oriente. Esilio dalla Siria. Una lotta contro lindifferenza”, edito da Add Editore è il suo ultimo libro.

Lesplosione a Beirut ha acceso le voci di solidarietà falsi cortesi degli esponenti politici con strafalcioni come quello di Manlio Di Stefano. Che sensazione ti provoca la superficialità della politica italiana sul Medio Oriente?
Mi provoca delusione perché l’Italia ha, geograficamente e storicamente, un ruolo di primo piano nei rapporti con il Medio Oriente. Geograficamente perché siamo la porta verso l’Europa; storicamente a causa della presenza araba, durata secoli, nel sud Italia. Gli sbagli eclatanti, come quello di Di Stefano, stanno diventando una prassi (a destra e a sinistra) che non solleva neanche più l’indignazione. Ricordo gli elogi di Renzi al suo “amico”Al Sisi, poco prima della morte di Regeni. O, ancora prima, nel 2011 Franco Frattini che elogiava la Siria per la sua stabilità durante l’ondata delle primavere arabe. Il risultato è davanti a tutti noi.

Come valuti la politica estera del governo italiano?
Sclerotica perché c’è incoerenza nelle azioni della Farnesina a causa della nostra instabilità politica. Prendiamo l’Egitto. Con Renzi, prima dell’uccisione di Regeni, i rapporti erano idilliaci. Ucciso il ricercatore, abbiamo virato completamente. Salvo poi rimandare l’ambasciatore al Cairo. Oggi che cosa rimane del nostro approccio verso l’Egitto, la questione della tutela dei diritti umani? Nulla, a parte la vicenda di Patrick Zaki che non cade nel dimenticatoio grazie all’attenzione di alcuni movimenti di sinistra e Amnesty.

Come valuti lattenzione della politica occidentale sul Medio Oriente?
Dovevamo accompagnare i paesi arabi verso una transizione, sostenendo quel corpo sociale che si chiama società civile ma non lo abbiamo fatto. Preferiamo ancora oggi sostenere militari che con la forza riportano lo status quo antecedente. Guardiamo alla Libia. Parte della comunità internazionale sostiene Haftar; altri Sarraj. All’interno dell’Unione Europea ci sono Stati che, seguendo il proprio interesse nazionale, sostengono gruppi differenti.

Cosa bisognerebbe avere il coraggio di dire/fare?
Abbiamo sbagliato. L’ammissione di colpa dovrebbe arrivare da chi si è seduto in parlamento in Italia come nella Ue. Hanno sbagliato nel guardare al Medio Oriente con i soliti preconcetti: se non c’è un dittatore c’è il fondamentalismo. Come se questi arabi non fossero capaci di emanciparsi da questi due mali, creando una terza via che li conduca verso la democrazia. Il male assoluto, secondo questa vulgata alla Magdi Allam, sarebbe l’Islam. Semplicisticamente sarebbe la religione a bloccare ogni trasformazione.

Da scrittore, con la tua storia, come valuti questo momento internazionale?
É una restaurazione. A Beirut come a Damasco manca la speranza. Sto parlando proprio del sentimento. Sperare di cambiare, di migliorare vita… la gioventù vive nel pessimismo. Questo stato di cose ha prodotto un aumento vertiginoso dei suicidi. Decine di giovani si tolgono la vita esausti non solo di vivere nella miseria ma di non vedere mai un cambiamento. Di chi è la responsabilità di queste morti?

Che ne pensi del rifinanziamento italiano alla Libia?
Abbiamo Salvini che grida contro gli sbarchi. Vuole che si fermino ma lui ed altri hanno firmato per il rifinanziamento della guardia costiera libica da più parti accusata di gestire il traffico di migranti con le mafie locali. Diamo soldi ai trafficanti. Ho idea che chi grida alla chiusura dei porti voglia il contrario. I migranti servono come merce di scambio elettorale, in barba alla sofferenza di quei nei lager.

In Italia haisentito” razzismo?
Personalmente no. Mi definisco da sempre sirio-brianzolo anche se ultimamente mi sento solo brianzolo. Penso che gli italiani non siano razzisti. Credo esista molta ignoranza. Molti politici la sfruttano perché viviamo in una epoca di slogan e non di discorsi culturali. Vede, oggi non vogliamo prenderci la briga di capire perché un nigeriano scappa da Lagos o un siriano da Aleppo. Vogliamo tutto subito, anche le spiegazioni. Il politico improvvisato che ormai dilaga nei talk show e nelle aule un tempo frequentate da Berlinguer, regala slogan. È un ignorante, che non sa che i libici abitano in Libia e che Pinochet non era il dittatore del Venezuela. Non è umile. Infatti non chiede scusa. Dobbiamo ripartire dalla cultura.

Leggi anche: 1. Libano: devastante esplosione al porto di Beirut. Le impressionanti immagini della deflagrazione / 2. Libano, ferito un militare italiano in un’esplosione al porto di Beirut / 3. Libano, esplosione al porto di Beirut: incidente o attentato? Tutte le ipotesi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Le macerie della pandemia nel mondo sono i bambini

Scusate se mi permetto di non seguire la polemica di qualche presidentessa di regione che cerca di lucrare su qualche decina di migranti, mi pare davvero troppo spendere qualche riga per una regione con un sistema sanitario completamente devastato dalla politica che si preoccupa di degli arrivi via mare mentre invoca a piene mani e senza controlli quelli via terra, ma ieri è uscito un rapporto di Save The Children che merita attenzione perché parla di un argomento che sfugge da qualsiasi discussione dei cosiddetti grandi del mondo e che rende perfettamente l’impatto della pandemia nel futuro un po’ più largo della visione del nostro semplice quartiere.

Dice il rapporto ‘Save our education – Salvate la nostra educazione’ che a oggi nel mondo sono 1,2 miliardi gli studenti colpiti dalla chiusura delle scuole e che la crisi provocata dal Covid-19 potrebbe costringere almeno 9,7 milioni di bambini a lasciare la scuola per sempre entro la fine di quest’anno, mentre milioni di altri bambini avranno gravi ritardi nell’apprendimento.

L’indice prende in considerazione in particolare tre parametri: il tasso di abbandono scolastico precedente all’emergenza, le diseguaglianze di genere e di reddito tra i bambini che lasciavano la scuola e il numero di anni di frequenza scolastica. L’analisi di questo indice mette in evidenza come in 12 paesi – Niger, Mali, Ciad, Liberia, Afghanistan, Guinea, Mauritania, Yemen, Nigeria, Pakistan, Senegal e Costa d’Avorio – il rischio di incremento di abbandono scolastico sia estremamente elevato. Anche in questo caso sono le donne quelle che rischiano di subire di più: sono 9 milioni le bambine in età di scuola primaria che rischiano di non mettere mai piede in una classe, a fronte di 3 milioni di bambini.

Ha detto Inger Ashing, ceo di Save the Children: «Circa 10 milioni di bambini potrebbero non tornare mai a scuola: si tratta di un’emergenza educativa senza precedenti. Proprio per questo i governi devono investire urgentemente nell’apprendimento, mentre al contrario siamo a rischio di impareggiabili tagli di bilancio, che vedranno esplodere le disparità esistenti tra ricchi e poveri e tra ragazzi e ragazze. Sappiamo che i bambini più poveri ed emarginati che erano già i più a rischio hanno il danno maggiore, senza accesso all’apprendimento a distanza o qualsiasi altro tipo di istruzione, per metà dell’anno accademico».

È qualcosa di spaventosamente mostruoso, una di quelle situazione di cui non ci occupiamo perché ci appare così grande rispetto ai nostri piccoli problemi locali e che poi invece torna qui, sulle nostre coste. No?

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Gli stregoni sul cadavere di Pamela

Avete letto dei terribili riti tribali che avrebbero straziato il corpo della giovane Pamela Mastropietro, uccisa a Macerata (sono tre le persone in carcere al momento)? Avete letto i “deliri” di Meluzzi e compagnia cantante (con il candidato di Fratelli d’Italia Guido Corsetto a dargli manforte) sul cuore asportato e il sangue bevuto perché “così fanno i nigeriani”? Vi siete gustati gli speciali di qualche giornalaccio sul “cannibalismo nigeriano”?

Bene. Tutto falso. Tutto. Come scrive l’Agi:

“Da giorni si rincorrono voci secondo cui alla ragazza sarebbe stato asportato il cuore o altro, e fatto sparire, come in un rito tribale o di affiliazione. Invece, a quanto pare, ciò non è avvenuto, come pure non è stato trovato nulla che rimandi a riti nella casa di cui è affittuario Innocent Oseghale in via Spalato, dove Pamela è morta e dove c’è stato il vilipendio del cadavere”.

Eppure per qualcuno è stato bellissimo calpestare il cadavere smembrato di Pamela (smembrandolo se possibile ancora un po’ di più) per aggiungere allo schifo anche un po’ di pittoresca paura per le fantasiose abitudini omicide di un’etnia. Descrivere i nigeriani come un’orda di stregoni è stato perfetto per alimentare ancora di più la xenofobia strisciante e rimpinzare i voti di qualche partituncolo impegnato a concimare il terrore con l’ignoranza.

E invece gli stregoni sono loro: gli italianissimi avvoltoi che hanno aggiunto orrore all’orrore.

Ah, tanto per chiarire: gli autori dell’omicidio (che saranno processati e giudicati) meritano tutta la giusta pena che gli verrà assegnata ma purtroppo non hanno inventato niente: ad agosto dell’anno scorso il sessantaduenne Maurizio Diotallevi a Roma ha strangolato la sorella prima di farla a pezzi e gettarla in diversi cassonetti. L’orrore omicida evidentemente ha tutti i colori e tutte le lingue del mondo.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/02/15/gli-stregoni-sul-cadavere-di-pamela/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Puttana, negra e clandestina: lo stupro perfetto (e un libro da leggere)

Il libro da leggere è “Le ragazze di Benin City“.

Sul perché leggerlo riporto un articolo di Laura Maragnani, una delle autrici. Non serve altro. No.

Diario del mese, anno VI n. 6, 20-10-2006

Il problema è solo questo, dice Isoke: da dove cominciare a raccontare. 

Da Judith, 14 anni appena, che alla sua prima sera di lavoro sui marciapiedi romani della Salaria è stata stuprata e picchiata dal primo cliente, e poi lasciata sull’asfalto più morta che viva? O da Joy, che era incinta, e che ha perso il bambino che aspettava? Da Gladys, a cui un cliente ha distrutto l’ano violentandola tre-quattro volte di fila? O da Rose, stuprata da chissà quanti e in chissà che modo, fino ad avere l’utero perforato; e che, pure, non osava nemmeno mettere piede in un ospedale per curarsi? 
Non sono le storie che mancano. Anzi, sono perfino troppe, quaggiù, sugli affollati marciapiedi d’Italia.

Gli stupri qui sono roba quotidiana; violenti, se non addirittura atroci; eppure assolutamente invisibili, e dunque assolutamente impuniti: «Perché le ragazze non denunciano mai. E nemmeno vanno al pronto soccorso, a meno di non essere moribonde», spiega Isoke. 
E la voce le trema. Le viene da piangere. 
Isoke ha 27 anni, è alta, mora, bella. Nigeriana. Di Benin City. È da Benin che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket sui marciapiedi italiani, 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni. Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta, sta per sposare un italiano. 

E insieme, lei e io, stiamo scrivendo per l’editore Melampo un libro sulla tratta. Sulla sua esperienza di ieri e sul suo lavoro di oggi: uno, «dare voce a chi non ce l’ha», ossia alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se mai ritorneranno, perché sono «almeno duecento, stando alle cronache dei giornali, quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo», senza contare quelle torturate e stuprate e massacrate, ma che in qualche modo sono tornate a casa vive, e dunque non fanno assolutamente notizia; due, «cercare di creare una rete, di trovare insieme un percorso d’uscita, un’alternativa alla strada»; tre, «mettere in piedi una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più». 
Aprirà tra poche settimane, ad Aosta. E si chiamerà, ovviamente, la Casa di Isoke. Sottoscrivete. L’indirizzo è rbc_isoke@yahoo.it . 
Allora, dice Isoke. Questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Ogni sera escono di casa con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. 
Trenta, cinquanta, sessantamila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria di Benin City. Arrivano qui, dice, e scoprono che il lavoro è poi sempre uno e uno soltanto, il marciapiede. E sul marciapiede succede di tutto; ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola. Tutti i giorni, dice Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno.

Stavamo scrivendo la storia di Osas, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara. In 60 stipati su un camion, senz’acqua né cibo, e quelli che erano di troppo venivano lasciati giù. Così. A morire. Mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri freschi. Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. 
Dove andiamo? ha chiesto lui. «Posto tranquillo» ha detto lei; era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo di lui era una cascina semidiroccata nell’hinterland torinese, spersa nella nebbia e nel freddo. E arrivati lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da un’abitazione vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti». 
E solo dopo che l’uomo se n’è andato qualcuno ha osato mettere il naso fuori. Un ragazzo con un cane. Che vuoi, ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro; che cosa è successo. Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «È stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia» dice Osas adesso. Bene. 
Stavamo scrivendo di Osas quando a Isoke è arrivato un messaggio dalle ragazze di Verona. È sparita Prudence. Arrivata una settimana fa dalla Nigeria. Vent’anni. Analfabeta. Non una parola che sia una di italiano. Prudence non tornava a casa da due giorni. A casa aveva lasciato i suoi vestiti e le sue poche cose. Le compagne di strada la stavano cercando dappertutto. Ospedali, questure. Niente. Fino a che è ricomparsa. Irriconoscibile. Sfigurata dalle botte. Quasi non riusciva a camminare. Che cosa è successo, le ha chiesto Isoke in dialetto ebo. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». Prudence riusciva a dire solo questo, ossessivamente. A fatica abbiamo saputo che un cliente l’aveva caricata al suo joint, che è lo spicchio di marciapiede che ogni ragazza ha in dotazione e per cui paga a chi di dovere un affitto mensile che va dai 150 ai 250-300 euro. L’aveva caricata e portata chissà dove. E violentata. E riviolentata. E picchiata. Massacrata. Derubata. Scaricata in un bosco, a chilometri dalla stanzetta che Prudence considerava casa sua. Prudence è rimasta in quel bosco tutta la notte, tutto il giorno dopo. Senza mangiare né bere. Sconciata. Sanguinante. A fatica s’è poi trascinata fino a un campeggio, c’era gente che faceva vacanza, che l’ha riportata a Verona. Lì è finalmente riuscita a orientarsi. È tornata a casa. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». 
In ospedale non ci è voluta andare, per paura che la polizia la rimandasse a casa. Rimpatrio forzato. Così com’era, in mutande. A marcire in una prigione di Benin City dove le altre detenute ti violentano con una bottiglia, ridendo e dicendo: cosa è meglio, dicci, questa bottiglia o quello che sei andata a goderti in Italia. Di Prudence non abbiamo saputo più niente. È diffìcile per una donna italiana ascoltare storie del genere. 
Ascoltare Isoke che dice: ogni africana stuprata è un’italiana salvata. È difficile. È orribile. Ma vero. I nostri uomini, gli italiani. Stupratori a pagamento, li chiamano le ragazze sulla strada. Quelli che perché pagano i 25 euro della tariffa standard si sentono in diritto di esigere qualunque cosa. Cazzo ti lamenti, bastarda. I soldi li hai avuti. Succhia. Girati. Apri il culo. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno a puttane.
«Dicono: voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai», spiega Isoke. «Scene da film porno. Tutto quello che hanno visto nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare». Ho pagato, è la frase chiave dello stupratore da 25 euro. E giù botte, se solo dici di no. Gladys non riesce quasi più a camminare. Un cliente le ha sfondato l’ano. Era «come una bestia» dice, l’ha costretta a subire una, due, tre, quattro violenze, a un certo punto Gladys ha sentito «come un distacco, nel profondo». Da quella lacerazione non è più guarita. Ospedale? Cure? Denunce? Ha una paura terribile, Gladys. Non ne vuole sapere. Si trascina sul marciapiede a fatica, ogni sera. Ormai zoppica. E non c’è verso di convincerla ad andare da un medico. Dice: «Se la polizia lo viene a sapere mi rimanda a casa». È la regola. 
Dice Isoke: «A volte le ragazze ridotte molto male finiscono al pronto soccorso. Ma devono veramente essere ridotte molto, ma molto male. Incoscienti. In coma». Al pronto soccorso non è che le trattino coi guanti. Dovrebbe essere rispettata la privacy, certo. Ma chi mai dice che la legge valga anche per le puttane negre clandestine? A volte infermieri e medici sono cattivi, a volte addirittura strafottenti. Chiamano la polizia. 
La polizia prende svogliatamente la denuncia; poi ti da il foglio di via. Sei la vittima di uno stupro. Ma sei anche quella che ne paga le conseguenze. Così le ragazze, appena possono, girano alla larga dalla polizia e dagli ospedali. Tornano a casa più morte che vive. Traumatizzate. Distrutte.

La maman dice: ma di cosa ti lamenti, a me è successo tante volte. E il giorno dopo le rimanda sulla strada, coi lividi e i tagli e i segni dei morsi e delle cinghiate e delle bruciature di sigaretta in bella vista. I clienti a volte si impietosiscono, dice Isoke. Ti danno i soldi, dicono: vai a casa e curati. Allora la maman dice: vedi, anche ridotta così sei in grado di guadagnare. Di cosa mai ti lamenti. Sei scema. Gli stupri di gruppo. Capitano spesso. Tre-quattro per volta, arrivano, ti caricano a forza. Sei fortunata a uscirne viva. A volte gli uomini dicono delle cose, mentre ti stuprano. Cose come: brutta negra. Cazzo vieni a fare qui. Così impari. Startene in mutande a casa tua. Ti faccio vedere io. Schifosa puttana. Chi ti ha mai detto divenire qui. Tornatene nella foresta, insieme alle scimmie. Si sentono in qualche modo dei giustizieri, dice Isoke. Ce l’hanno con te perché sei donna. E nera. E puttana. E debole. Non so perché ma i più violenti, quelli più grandi e grossi, si scelgono sempre le ragazze più leggere e più fragili. Quelle così magre e sottili che sembrano una foglia di mais.
 Se ci provano i ragazzini, 16 anni, 18, bé, dice Isoke, gli molli un pugno da tramortirli e scappi via. I più pericolosi sono quelli dai 25 anni in su. Ottanta-novanta chili. Trent’anni. Quaranta. Quelli che a prima vista non diresti mai che sono stupratori. Che non hanno niente nel vestire che ti allarmi, nulla nell’approccio che ti metta in guardia. Sono quelli che poi dicono: ho pagato. Che magari hanno l’Aids ma non vogliono usare il preservativo, per sfregio, e poi ti mettono incinta. Che dicono negra di merda, adesso ti sistemo io. Che tirano fuori il coltello o la pistola. Che ti bruciano con le sigarette, ti riempiono di pugni, ti portano via la borsetta, i soldi, il cellulare. Che ti lasciano a decine di chilometri da casa tua, nel buio o nella neve. E queste sono soltanto alcune delle cose che ti posso raccontare. Solo ascoltare è mostruoso. E ascoltare non finisce mai. 

Ci sono le mille altre storie della strada, le mille vicine di marciapiede delle ragazze di Benin City: le trans sudamericane, vittima preferita dei nordafricani. Stupro omosessuale, lo chiama pudicamente Isoke. C’è la bambina brasiliana di dieci anni. Ci sono le albanesi violentate coi bastoni e con le bottiglie dai loro magnaccia, per convincerle ad andare sulla strada. C’è un campionario osceno di bestialità maschile, senza filtri e ma e se. E, soprattutto, c’è la paura delle ragazze. Perenne.

Dice Isoke: il primo stupro è diffìcile da superare. Sei distrutta. Qualcosa in te si è rotto per sempre. Però ti consoli dicendoti: mi sono vista morta, eppure sono viva. Al secondo dici: capita. Al terzo dici: è normale. Dal quarto in poi non li conti più. È un rischio del mestiere. Di Prudence, dicevo, non abbiamo saputo più niente. Non è ancora andata in ospedale. Se l’infezione non si aggrava non ci andrà probabilmente mai. La curano le sue compagne di strada e di casa.
Una di queste è Eki, che ha avuto finalmente il coraggio di raccontare: è successo anche a me. Mi hanno stuprata e picchiata e torturata con le sigarette accese. Allora le sue compagne hanno detto: anch’io. Stanno mettendo in comune la paura, lassù a Verona. Stanno cominciando a pensare che forse bisogna trovare il coraggio di sfidare il racket e decidere di smettere. Non che sia facile, dice Isoke. Non lontano da Verona una ragazza che non voleva più saperne del marciapiede, Tessie, è stata costretta dai suoi magnaccia a bere acido muriatico. È finita al pronto soccorso. L’hanno salvata per un pelo. E adesso si ritrova sfigurata e handicappata e quasi muta. Una ragazza africana di villaggio, semplice semplice. Ignorante. Analfabeta. Che diavolo di futuro può trovare in Italia. Ditemelo voi. Poi ci sono le ragazzine. Tredici anni, quattordici. Vergini. Vendute agli italos dalle famiglie che vedono i vicini che fanno una bella vita grazie alle figlie che lavorano in Italia. Che si comprano il motorino. Il Mercedes coi sedili leopardati che quando passa nei villaggi solleva una gran polvere e tutti i ragazzini gli corrono dietro rapiti. 
Quando ‘ste ragazzine arrivano in Italia le maman si mettono le mani nei capelli. Che cosa devo fare con te, che non sai niente. Allora pagano tré-quattro ragazzoni africani, grandi bastardi, dice Isoke, che le violentano in tutti i modi finché non hanno capito e imparato quel che si deve fare sulla strada.
Ora. Vorrei potermi risparmiare almeno questa parte della storia, ma non si può. Gli extracomunitari che raccolgono i pomodori, l’uva, le mele. Dodici, quindici ore di lavoro per sette, dieci, dodici euro. Frustrazione e rabbia pura. 
Vi siete mai chiesti come la sfogano? Sulla Domiziana, dalle parti di Castelvolturno, terra senza dio né legge in provincia di Caserta, le ragazze vivono in catapecchie senz’acqua né luce. Guadagnano 5 o 10 euro a botta. Sono la vittima perfetta dei loro stessi compaesani. Che le schifano, «perché si vendono ai bianchi». 
E non hanno soldi e non le pagano e le rapinano nella certezza della totale impunità. Si vendicano della vita di merda che fanno. Con loro, le ragazze di Benin City. 
Isoke dice: però questo io non lo posso dire. Allora lo dico io. In certe zone la polizia chiude non un occhio ma due, e forse anche tre, avendoli, e pure anche quattro. Va bene che ci siano le ragazze di Benin City: sono uno sfogatoio perfetto, un matematico calmieratore di tensioni sociali ed etniche. Sono la vittima designata, l’agnello sacrificale. Perché ogni africana stuprata è un’italiana salvata. E l’africana stuprata tace. Ha troppa paura per parlare. È perfettamente invisibile e dunque non fa notizia né statistica. Nemmeno di questi tempi, ragazze mie. Pensatele ogni volta che uscite di casa a notte fonda, e soprattutto ogni volta che rientrate. Voi, bianche. Voi, sane e salve.