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nino di matteo

Toh! Per il CSM Di Matteo non va bene per la procura nazionale antimafia

Di-Matteo-Messina-Denaro-Riina-combo-624x300Magistrato simbolo della lotta antimafia, pubblica accusa nel processo per la trattativa Stato-mafia ma Nino Di Matteo non andrà alla procura nazionale antimafia. Il Csm ha bocciato la sua al concorso per la copertura di tre posti alla procura nazionale antimafia. Il plenum gli ha preferito tre colleghi meno noti, tra cui Eugenia Pontassuglia, pm del processo di Bari sulle escort che frequentavano le residenze di Silvio Berlusconi.

La decisione è stata presa a maggioranza. Oltre a Pontassuglia, gli altri nuovi sostituti della Procura guidata da Franco Roberti sono il sostituto procuratore napoletano Marco Del Gaudio, pm del processo all’ex presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini e il sostituto Pg di Catanzaro Salvatore Dolce, titolare di diverse inchieste sulle cosche calabresi. A Di Matteo sono andati 5 voti, contro i 16 attribuiti agli tre magistrati scelti.

Un anno fa aveva Di Matteo aveva chiesto al Consiglio superiore della magistratura di passare alla procura nazionale antimafia di
Franco Roberti. “Da parte mia non c’è alcuna intenzione di lasciare il lavoro cominciato. È solo una domanda come tante altre che ho fatte nel corso della mia carriera – aveva detto Di Matteo al fattoquotidiano.it –. Se dovesse essere accolta non vuol dire che dovrei abbandonare la indagini sulla Trattativa, dato che esiste la possibilità di applicare i magistrati in servizio alla Dna alle inchieste che conducevano in precedenza”. Ma per il magistrato, più volte minacciato dal boss Totò Riina e sottoposto al livello più alto di scorta, non ci sarà questo problema.

(clic)

“Il tritolo per Di Matteo cercatelo nei piani alti”

loraquotidiano.it_2014-12-16_07-22-43-454x500”L’esplosivo per Di Matteo dovete cercarlo nei piani alti”: così  ha detto ai finanzieri della Valutaria che lo stavano accompagnando in carcere  il boss Vincenzo Graziano, capomandamento di Resuttana, fermato con l’accusa di essere l’organizzatore del piano di morte per il pm Nino Di Matteo, e in particolare l’uomo che avrebbe nascosto i 200 chili di tritolo nascosti a Palermo e ancora non ritrovati, nonostante le numerose perlustrazioni ordinate dalla procura di Palermo. Cosa voleva dire il boss ai finanzieri con quella frase sibillina?  E’ quello che si domandano in questo giorni gli investigatori alle prese con la ricerca dell’esplosivo che secondo il pentito Vito Galatolo ”è ancora a Palermo, e rende sempre attuale il rischio di un attentato” al pm della trattativa Stato-mafia. Era una battuta quella di Graziano? Era un riferimento ai ”piani alti” della mafia o ai vertici delle istituzioni? I pm lo hanno chiesto direttamente al boss, tirato in ballo dalle dichiarazioni di Galatolo, nell’interrogatorio di garanzia effettuato davanti al gip Luigi Petrucci. Il costruttore ora smentisce di aver pronunciato quella frase. E le domande su quella frase enigmatica restano tutte aperte.

Galatolo racconta che nel dicembre  del 2012 il boss Graziano, insieme a Alessandro D’Ambrogio(capomafia di Porta Nuova) e Girolamo Biondino (fratello dell’autista di Totò Riina) fu protagonista di alcune riunioni nelle quali fu letta una lettera di Matteo Messina Denaro, con l’ordine di uccidere Di Matteo. Dal boss latitante di Castelvetrano infatti era arrivato l’input di organizzare l’attentato nei confronti del magistrato palermitano, che andava eliminato perché’ ”era andato troppo oltre”.

Galatolo ha poi riferito che i boss fecero una colletta per comprare il tritolo, raccogliendo circa 600 mila euro. E che proprio Graziano si sarebbe occupato di  procurare dalla Calabria il tritolo per poi conservarlo in previsione dell’attentato.

Già nelle scorse settimane, subito dopo l’inizio della collaborazione di Galatolo, le forze dell’ordine avevano fatto scattare numerose perquisizioni e scavi con i cani anti-bomba ed i metal detector nelle borgate palermitane e nelle campagne circostanti, a caccia dell’esplosivo: le ricerche  si erano concentrate, in particolare, nella zona di Monreale, dove ha una casa di campagna, con un terreno agricolo, proprio Graziano, arrestato il 23 giugno scorso, assieme a Galatolo, nel blitz Apocalisse, e tornato in libertà a luglio, dopo che il tribunale del riesame lo scarcerò per mancanza di gravi indizi di colpevolezza.
Al boss di Resuttana veniva contestato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustiziaSergio Flamia, anche di avere affiliato altri uomini d’onore mentre si trovava  in carcere.

Galatolo, in realtà, non ha mai fornito certezze sull’ubicazione e sul nascondiglio del tritolo: la perquisizione nel terreno e nella villetta di Graziano era stata disposta dagli inquirenti in base al calibro mafioso del personaggio e al suo ruolo nei summit mafiosi del dicembre 2012 durante la preparazione della strage per Di Matteo.

Vincenzo Graziano, ritenuto specializzato nella gestione delle slot machines,  era già stato condannato per mafia, e aveva finito di scontare la pena nel 2012, poco prima di finire in manette nel blitz Apocalisse. Per gli inquirenti, il boss di Resuttana sarebbe stato regista del monopolio delle macchinette mangiasoldi e delle scommesse online, che avrebbe imposto nei bar di mezza città, proprio lavorando in società con Galatolo. Un business che è diventato negli ultimi anni una cospicua fonte di finanziamento per le famiglie mafiose.  Secondo gli inquirenti, Graziano avrebbe preso il posto di Galatolo nell’organigramma palermitano di Cosa nostra.

(fonte)

Continua intanto la nostra sottoscrizione:

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Il Capodanno del condannato a morte

Un gran pezzo di Saverio Lodato (e intanto potete continuare a firmare qui):

news_52039_nino_di_matteoNon sappiamo come passerà la notte di Capodanno un condannato a morte, a data da destinarsi, a causa del suo lavoro che non viene gradito, che addirittura risulta insopportabile, che viene considerato un intralcio per i manovratori grandi e piccoli di questo Paese. Non sappiamo quali pensieri gli passeranno per la testa mentre sarà circondato da moglie e figli nei cui sguardi indovinerà facilmente interrogativi pesanti come macigni; mentre immaginerà il 2015 che si spalanca davanti a lui come un ennesimo scenario di trappole, sgambetti, tradimenti, veleni; mentre sarà incerto sul destino di una grande inchiesta che, insieme a un manipolo di altri colleghi della sua stessa tempra, ha tenacemente voluto e spinto avanti nell’incrollabile certezza che per l’accertamento della verità i magistrati, se magistrati sono e non pagliacci che riempiono una toga, devono fare questo e altro.
Sappiamo una cosa, però. Ed è la prima che ci viene in mente. Che sono quattro le massime cariche dello Stato. Al primo posto, c’è il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Al secondo, il Presidente del Senato, Piero Grasso. Al terzo, il Presidente della Camera (in questo caso, se si preferisce, “la” Presidente), Laura Boldrini. Al quarto, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Direte: che c’entra questo elenco? C’entra, invece. Eccome, se c’entra!

Tutti e quattro – Napolitano, Grasso, Boldrini e Renzi – si sono sempre ben guardati dal pronunciare il nome del condannato a morte, non gli hanno mai fatto una telefonata di solidarietà umana, lo hanno accuratamente ignorato in ogni loro dichiarazione sull’argomento, e non è che le occasioni siano mancate.
E’ un caso? Quattro coincidenze in una? Difficile pensarlo. Da due anni ormai tutti gli italiani sanno che il condannato a morte risponde al nome di Nino Di Matteo, che non è, badate bene, carica dello Stato, né massima né minima, ma che per la dignità di ciò che resta del nostro Stato fa indiscutibilmente più di quanto fanno gli altri quattro messi insieme. E’ un punto sul quale vale la pensa insistere. Eppure i quattro lo ignorano. Non gli concedono neanche un minimo attestato di esistenza. Cerchiamo di capire perché.
Le massime cariche dello Stato, di norma, preferiscono indirizzare la loro solidarietà persino a personaggi della cosiddetta “antimafia”, ma questi personaggi hanno da essere un po’ tromboneschi, non protagonisti veri, semmai “figure” o “figurine” che possono rientrare, di solito per cognome illustre, in un teatrino allargato della politica in cui c’è posto anche per loro, e magari persino lauti finanziamenti, perché da loro le istituzioni non hanno proprio nulla da temere. Né vale l’obiezione: cosa hanno da temere i “politici” dai “magistrati antimafia”? Ché dopo le vicende romane simile obiezione sarebbe ultronea, nel senso di superflua.
Questa è una prima ragione del silenzio raggelante che da due anni circonda Di Matteo e gli altri come lui (i Teresi, i Tartaglia, i Del Bene, e valgano questi nomi per tutti). I magistrati antimafia, e quelli di Palermo in particolare, a Roma non sono mai andati giù. Questo loro interpretare la funzione, all’insegna di una indipendenza programmatica, a signori e signorotti della politica romana suona al pari di una bestemmia.
L’attuale Arrogantocrazia – questo governo, insomma – che di battutismo e annuncite, guanti di sfida lanciati a destra e a manca, dispregio pacchiano dei valori (ci viene in mente la ministra Boschi che tra Fanfani e Berlinguer rottamerebbe Berlinguer), pretesa di una longevità politica che rasenta le vette dell’eternità come accadeva nel Pantheon sovietico, in cui si moriva almeno un mese dopo essere morti, e dove lavorano al Cremlino, sin dai tempi di Stalin, equipe di “impagliatori” iperspecializzati nella conservazione dei “cadaveri illustri”, questa attuale Arrogantocrazia, dicevamo, detesta istintivamente i magistrati palermitani. Ma questa è solo una parte delle verità.
Il nome di Di Matteo, infatti, è diventato evocativo del processo sulla trattativa Stato-Mafia che si celebra a Palermo, nonostante non siano mancati fulmini e saette quirinalizi.
Il tacito teorema che accomuna i quattro che fanno orecchie da mercante possiamo spiegarlo così: Di Matteo è l’uomo di punta delle indagini sulla trattativa; ammettere che Di Matteo rischia la vita significa ammettere implicitamente che chi in Italia indaga su fili ad altissima tensione (e vivaddio se non lo sono i fili scoperti di uno Stato che trattò, trattava e tratta con la mafia) rischia di finire assassinato, significa ammettere che il processo di Palermo è cosa serissima e che il nostro Stato, se necessario, spara. Né sarebbe la prima volta.
Il teorema, anche se non verbalizzato, anche se i quattro non lo ammetteranno mai, è esattamente questo. Significherebbe insomma riconoscere addirittura centralità a un qualcosa che con le unghia e con i denti si intende negare, tenendola sin quando possibile fuori dalla porta.
E’ bene che per il 2015 Nino Di Matteo se ne faccia una ragione, anche se abbiamo motivo di ritenere che abbia già idee chiarissime in proposito. Un fatto di cronaca – strettamente mafiologico, se così si può dire – ci ha notevolmente rafforzato nella nostra convinzione. Ci riferiamo al “pentimento” di Vito Galatolo, il boss della borgata palermitana dell’ Acquasanta che ha iniziato a collaborare proprio con  Di Matteo. Intanto, stiamo parlando di una delle “famiglie” più feroci e ammanigliate con i livelli occulti del Potere della Cosa Nostra palermitana. Vito, cosa che anche molti addetti ai lavori tendono inspiegabilmente a dimenticare, è figlio di quel Vincenzo Galatolo attualmente all’ergastolo per la strage Dalla Chiesa, la strage Chinnici, l’uccisione di Pio La Torre e quella di Ninni Cassarà; nonché coinvolto, con tutta la famiglia, nel fallito attentato dinamitardo all’Addaura, nel quale poi la vittima designata, Giovanni Falcone, stigmatizzò la presenza di “menti raffinatissime”. Questo solo per dire che il Vito che si pente oggi non è l’ultimo arrivato quanto ad araldica criminale. Prova ne sia che con le sue dichiarazioni ha già provocato una slavina di arresti. Ma il fatto è che Vito ha vuotato il sacco proprio sulla recente preparazione di un attentato a Di Matteo, indicando nel dettaglio la quantità di tritolo che i mafiosi avrebbero in parte comprato dagli ‘ndranghetisti calabresi; in Vincenzo Graziano, reggente del “mandamento” delle borgata di Resuttana, recentemente catturato da polizia e carabinieri, il custode momentaneo dell’esplosivo; e nel trapanese Matteo Messina Denaro, primula rossa del momento, l’esplicito mandante di questa condanna a morte.
Il “caso Galatolo” è un’ottima cartina di tornasole ai fini del nostro ragionamento. I magistrati che parlano con Galatolo hanno dichiarato che esistono “formidabili riscontri” alle sue parole, pur essendo preoccupati perché il tritolo ancora non è saltato fuori. Ma questa collaborazione sta avendo scarsissima eco nei media, mentre a rigor di logica – in tempi di retorica sui successi antimafia – andrebbe enfatizzata. E qui non vale solo il teorema di prima: ché parlar di Galatolo significherebbe parlar di Di Matteo. La domanda che infatti sorge spontanea è: Messina Denaro ha chiesto alla mafia palermitana di uccidere Di Matteo, ma a Messina Denaro chi è che glielo ha chiesto? Un superlatitante, attorno al quale si stringe il cerchio con l’arresto di familiari stretti, fiancheggiatori, gregari, soci in affari, prestanome, non ha altro a cui pensare? Si sente minacciato dalle indagini di Di Matteo sulla trattativa Stato-Mafia? E perché mai?
Ognuno è libero di darsi le risposte che vuole, così come noi ce ne siamo data una.
Ci teniamo a un’ultima notazione in proposito: non è un mistero per nessuno che neanche all’interno del palazzo di Giustizia di Palermo Di Matteo goda – se così si può dire – di “buona stampa”. Sono molti i suoi colleghi che arricciano il naso di fronte al pentimento di Vito Galatolo. Sono gli stessi – lo diciamo per inciso – che si schierarono apertamente contro Antonio Ingroia quando Ingroia si trovò al centro di una violentissima tempesta istituzional – mediatica che alla fine si risolse con il suo abbandono della magistratura. Sarebbe bene che la deontologia professionale non risultasse mai sacrificata a ragioni di protagonismi e invidie che vorremmo fossero finite con le tragedie delle stragi di Capaci e via d’Amelio.
A tale proposito va detto che il nuovo procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, avrà subito il suo bel da fare. Sul modo in cui si è arrivati alla sua nomina è stato scritto parecchio, anche su AntimafiaDuemila. Tutto è nato – tanto per cambiare, verrebbe da dire – da un intervento a gamba tesa del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, volto a stoppare la candidatura di Guido Lo Forte “reo”, anche lui, di coinvolgimento nel processo sulla trattativa. A farne le spese sono stati – come è noto – sia Lo Forte, sia Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, entrambi molto più titolati di Lo Voi a ricoprire quell’incarico. Napolitano, quando ha voluto (e lo ha voluto spesso durante i suoi due mandati), ha fatto strame di regolamenti, criteri oggettivi, prassi consolidate, in materia di “gestione” della giustizia e della politica. Ma è pur vero che a uscirne con le ossa rotte da questa nomina è l’intero CSM, capace solo di ratificare il diktat di Napolitano, come è altrettanto vero che la presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, che si è sperticata in lodi della procedura adottata dal Csm, ha perduto una grande occasione per stare zitta su materia della quale, all’inizio del suo mandato, lei stessa ammise candidamente di non capirne nulla. E vada steso un velo pietoso su consiglieri laici di provenienza Pd e Movimento 5 Stelle, che a quei giochi si sono supinamente prestati.
Quanto a Lo Voi, dalla poltrona che adesso occupa, saprà cogliere tutte le occasioni possibili per dimostrare di non essere il “normalizzatore” voluto da Napolitano e che molti, invece, stanno paventando. E che se venne designato da Berlusconi in persona per occupare la carica di delegato italiano ad Eurojust, ciò non ha comportato il fatto di essersi legato le mani a vita in ossequio a un pregiudicato che Renzi e Napolitano hanno scelto per ridisegnare i poteri nella nostra Repubblica. Ma è sin troppo ovvio che sarà innanzitutto il processo sulla trattativa, in un senso o nell’altro, lo snodo principale dei futuri anni della Procura nel capoluogo siciliano. Lo Voi – è stato ricordato da più parti – si è distinto, in passato, per “non aver firmato” pagine della storia della Procura palermitana che invece andavano firmate e controfirmate: il processo Andreotti e la denuncia appello degli otto sostituti procuratori per cacciare il “capo” Giammanco, all’indomani delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Difficilmente, prendendo le distanze in un modo o nell’altro dall’inchiesta sulla trattativa, Lo Voi potrebbe rivendicare il “gesto” richiamandosi allo spirito volterriano. Lo Voi – di cui conosciamo l’intelligenza – questo lo capisce benissimo da solo, senza bisogno che qualcuno glielo ricordi.
E forse il condannato a morte, nella notte di Capodanno, su questo aspetto farà una riflessione analoga alla nostra.

La solidarietà impossibile per Nino Di Matteo

si-muore-quando-si-e-lasciati-soliPino Maniaci è arrivata la telefonata di Matteo Renzi in persona: “Pino vienimi a trovare a Roma”, ha detto il premier manifestando solidarietà al giornalista, minacciato per l’ennesima volta, con il macabro atto dei cani impiccati. Una telefonata simile a quella fatta dal premier pochi giorni fa, quando sotto minaccia era finita il pm di Latina Lucia Aielli: anche in quel caso dal centralino di Palazzo Chigi era partita la chiamata di solidarietà di Renzi. Pochi mesi fa, invece, a squillare era stato il telefono di don Luigi Ciotti: “Farà la fine di Don Puglisi“, aveva sentenziato Totò Riina, intercettato dalla Dia nel carcere milanese di Opera mentre chiacchierava col compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. A stringersi giustamente attorno al fondatore di Libera erano arrivati i messaggi di solidarietà di tutta la classe politica, dal Nuovo Centro Destra a Sel, passando dai Cinque Stelle. Poi, dopo l’ormai classica chiamata di solidarietà di Renzi, era arrivata la telefonata di Giorgio Napolitano in persona.

Uno solo è il numero di telefono che i centralini di Palazzo Chigi e quelli del Quirinale non hanno mai composto: quello di Nino Di Matteo, il pm della Trattativa Stato mafia. “Gli farei fare la fine del tonno, lo faccio finire peggio del giudice Falcone” aveva detto Riina, emettendo la sua sentenza di morte. Un ordine che, come ha svelato il neo pentito Vito Galatolo, è in fase esecutiva dal dicembre del 2012. Il piano di  un attentato al tritolo svelato nei dettagli dall’ex picciotto dell’Acquasanta è stato preso sul serio dalla procura di Caltanissetta e dal prefetto di Palermo Francesca Cannizzo: messo al corrente del racconto di Galatolo, il ministro Angelino Alfano si è affrettato a convocare una riunione straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza.  E anche il governo ha agito di conseguenza inserendo proprio ieri un emendamento alla legge di Stabilità che prevede lo stanziamento di sei milioni di euro per realizzare misurestraordinarie di sicurezza al Palazzo di giustizia di Palermo. Palazzo Chigi, dunque, ritiene credibile il progetto di strage annunciato dal pentito, al punto da mettere a disposizione una cifra considerevole (in tempi di spending review) per fare del Palazzo di Giustizia un vero e proprio fortino, ma il telefono del pm condannato a morte è rimasto muto: nessun messaggio da Renzi, nessun cenno, neppure minimo, di solidarietà da parte del Quirinale.

E se da Roma i messaggi di vicinanza per Di Matteo o sono generici oppure semplicemente non esistono, a Palermo non va certo meglio: a parte il sindaco Leoluca Orlando, e qualche esponente del Pd o del Movimento Cinque Stelle, per la classe dirigente cittadina il pm della Trattativa semplicemente non esiste. Nessun messaggio da parte della Palermo dei professionisti, neppure quelli dell’antimafia, sempre impegnati in continui convegni per ragionare sul problema Cosa Nostra, sordi e ciechi di fronte al piano dettagliato di un attentato, con il tritolo già pronto per essere piazzato nel centro della città.

E se la solitudine di Di Matteo si percepisce anche soltanto avvicinandosi al secondo piano del palazzo di giustizia di Palermo, ancora irrisolta è la questione sicurezza.”Mi risulta che Di Matteo sia protetto nel migliore dei modi”, assicura il presidente del Senato Piero Grasso, sulla stessa lunghezza d’onda del procuratore antimafia Franco Roberti: “A Di Matteo sono state assicurate misure di altissimo livello di protezione. Bisogna tenere sempre alta la guardia, in questo momento il collega è particolarmente esposto per le cose che ha fatto e per quelle che fa, quindi va tutelato e sostenuto”. Di segno opposto il parere degli uomini della scorta del pm: “L’unico strumento che ci può salvare la vita è il bomb jammer” dicono, riferendosi al congegno elettronico capace di neutralizzare i telecomandi che attivano gli ordigni esplosivi.  “Il bomb jammer per Di Matteo? E’ già stato messo a disposizione” assicurava Alfano dopo le minacce di Riina. Era il dicembre del 2013: da allora sono passati dodici mesi, è arrivata la confessione di Galatolo sul progetto attentato da mettere in pratica con un’autobomba, ma il bomb jammer per Di Matteo non è mai arrivato. Anzi è arrivata quasi una mezza marcia indietro del Ministro dell’Interno. “Si è parlato con troppa superficialità di bomb jammer: ci sono state riunioni in questi giorni e lo Stato sta mettendo a punto tutti i dispositivi necessari per proteggerlo da congegni elettronici di attivazione dei telecomandi delle bombe senza però creare danno alle apparecchiature elettroniche che possono trovarsi vicino al suo passaggio”.

Riunioni e studi che sarebbero, si presume, ancora in corso. E mentre a Palermo si aspetta il bomb jammer, Di Matteo continua a lavorare ogni giorno per servire lo Stato: lo stesso Stato che sembra lasciarlo ogni giorno più solo.

(fonte)

(Per firmare la petizione e il mailbombing potete andare qui)

Il pentito: “il tritolo per Di Matteo direttamente dalla Calabria”

Per uccidere Nino Di Matteo il tritolo era arrivato dalla Calabria. È l’ultima rivelazione di Vito Galatolo, il boss dell’Aquasanta che ha deciso di “saltare il fosso” e collaborare con la magistratura, svelando il piano di morte organizzato da Cosa Nostra per assassinare il pm che indaga sulla Trattativa Stato mafia. Centocinquanta chili di tritolo, un attentato già in fase organizzativa, ordinato direttamente da Matteo Messina Denaro, che con alcune lettere inviate ai boss palermitani aveva emanato l’ordine di morte per Di Matteo nel dicembre del 2012. A quel punto i padrini del gotha palermitano si erano riuniti in summit: e nella riunione del 9 dicembre 2012 Girolamo Biondino, fratello dell’ex autista di Totò Riina, aveva informato gli altri boss degli ordini di Messina Denaro.

Di Matteo va fatto fuori “perché mi hanno detto che è andato troppo oltre” scrive la primula rossa di Castelvetrano ai boss palermitani. Che dopo aver raccolto 600mila euro, avevano iniziato a cercare l’esplosivo per l’attentato. E almeno una parte del tritolo era arrivato in Sicilia dalla Calabria: solo che quel quantitativo di esplosivo era in cattive condizioni, dato che presentava tracce d’umidità e infiltrazioni d’acqua. I boss di Cosa Nostra si erano subito attivati con i loro referenti calabresi riuscendo a farsi cambiare l’esplosivo difettoso: il particolare dell’infiltrazione d’acqua nel tritolo, però, suggerisce agli inquirenti un’ipotesi investigativa. E cioè la possibile provenienza dell’esplosivo dalle stive della Laura Cosulich, la nave mercantile che, come racconta l’edizione palermitana di Repubblica, è affondata al largo di Saline Joniche durante la seconda guerra mondiale. Le stive della Laura C sarebbero stracolme di tritolo: nel maggio scorso i sommozzatori della polizia sono riusciti a recuperarne ben 24 chili.

A sentire la questura di Reggio Calabria, però, il tritolo dimenticato sulla nave affondata nello Jonio equivale a parecchie tonnellate: diversi collaboratori di giustizia hanno raccontato come la ‘ndrangheta si sia spesso servita dell’esplosivo della Laura C. Tritolo che in alcune occasioni era stato scambiato o venduto ad altre organizzazioni criminali. Anche per la strage di Capaci sarebbe stato utilizzato esplosivo recuperato nei fondali marini: secondo il pentito Gaspare Spatuzza, Cosa Nostra si sarebbe infatti servita del tritolo recuperato al largo di Palermo da Cosimo D’Amato, il pescatore di Porticello che aveva individuato una serie di ordigni inesplosi sganciati durante la seconda guerra mondiale. Fino ad oggi, però, gli inquirenti non hanno trovato analogie tra il tritolo utilizzato nelle stragi del 1992 e quello recuperato dalle stive della Laura C.

Questa volta, invece, Cosa Nostra aveva intenzione di utilizzare quell’esplosivo recuperato nei fondali calabresi per uccidere Di Matteo. Un piano di morte che, come raccontato da Il Fatto Quotidiano, era già stato studiato nei minimi dettagli. L’ipotesi privilegiata dai boss era quella che prevedeva l’utilizzo di un’autobomba, come per l’omicidio di Rocco Chinnici o per la strage di via d’Amelio. In un primo momento, il commando aveva pensato di mettere in scena l’attentato nei pressi del Palazzo di giustizia di Palermo: il rischio di fare strage di civili, però era troppo elevato, e alla fine i boss avevano iniziato a seguire gli spostamenti di Di Matteo, concentrandosi sulla zona in cui abita il pubblico ministero. Una versione confermata da una delle lettere anonime arrivate in procura, quella che nel febbraio del 2013 annuncia per la prima volta un attentato contro Di Matteo: l’estensore si presenta come un uomo d’onore di Alcamo, e racconta di aver pedinato per giorni la scorta del pm.

I magistrati della procura di Caltanissetta, che da settimane interrogano il collaboratore di giustizia, hanno chiesto a Galatolo se per caso non fosse lui l’autore dell’anonimo, ma il boss dell’Acquasanta ha negato: nel commando che doveva assassinare Di Matteo ci sarebbe stata quindi un’altra gola profonda. Galatolo, rampollo di una delle più importanti famiglie di Cosa Nostra, è stato arrestato nel giugno del 2014: poche settimane fa ha chiesto di parlare con il pm che indaga sulla Trattativa, per “togliersi un peso dalla coscienza”, raccontandogli il piano di morte ai suoi danni. “Dottore, i mandanti per lei sono gli stessi del dottore Borsellino” ha detto il neo pentito al pm, raccontando che Cosa Nostra aveva anche preparato un agguato a colpi di bazooka e kalashnikov da eseguire quando Di Matteo si trovava a Roma: il potenziamento della scorta del magistrato aveva però fatto sfumare quest’ipotesi. Tra i particolari svelati dal pentito c’è anche il racconto di un momento d’impasse nella preparazione dell’attentato: dopo aver trovato il tritolo, i boss contattarono Messina Denaro spiegando di non essere in grado di confezionare l’ordigno esplosivo ad alto potenziale. Dal boss di Castelvetrano però era arrivata una rassicurazione: “Non c’è problema” scrive Messina Denaro, dato che al momento opportuno, ai boss sarebbe stato messo a disposizione “un artificiere”. Da dove sarebbe arrivato e inviato da chi non è dato sapere.

(fonte)

Giovedì in Senato

Giovedì 11 dicembre il mio carissimo amico, poliziotto della Catturandi di Palermo e scrittore (soprattutto scrittore, forse) IMD presenta il suo ultimo libro La Catturandi – La verità oltre le fiction (lo potete acquistare qui) presso il Senato della Repubblica, Palazzo Madama, alle ore 16.00 nella Sala “Caduti di Nassirya”. Insieme a lui ci sarò io (appunto), il Senatore Michele Giarrusso, il Senatore Luigi Gaietti e la Deputata Giulia Sarti, tutti M5S (sono gli organizzatori della presentazione, ovviamente).

In quell’occasione rilanceremo con forza la petizione (che trovate qui) per chiedere risposte su Nino Di Matteo (ma ci ricorderemo di tutti, ovviamente). Vediamo se “da dentro” ci sentono meglio, eh.