Per continuare a fare il mio meraviglioso lavoro
Che non è fare il minacciato, ci vediamo a Pozzallo (RG) il 7 settembre con Nomi Cognomi e Infami e una cena con i prodotti di Libera.
Le informazioni sulla serata sono qui.
Che non è fare il minacciato, ci vediamo a Pozzallo (RG) il 7 settembre con Nomi Cognomi e Infami e una cena con i prodotti di Libera.
Le informazioni sulla serata sono qui.
Ricorrono oggi i ventinove anni dall’assassinio di Pippo Fava. In occasione dell’anniversario, riporto qui un estratto del mio libro NOMI, COGNOMI E INFAMI (Verdenero, 2010) , dedicato anche alla sua vicenda.
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Ho riso incazzato sulle parole di Peppino Impastato, ho studiato con meraviglia l’integrità politica di Pio La Torre ma, più di tutto, sono rimasto incastrato per stima sulla vita di Pippo Fava. Incastrato da una stima immobilizzante che mi consola. Sarà che Giuseppe Fava era un giornalista, un drammaturgo, uno scrittore e un politico anche senza scranno. Politico nel senso di guardare la politica negli occhi e scriverne senza smancerie. Sarà che Pippo Fava l’ho visto per la prima volta in una fotografia in bianco e nero con quel naso troppo grosso sopra una barba tagliata male mentre si apre in un sorriso pensieroso. Sarà che se c’è una forma che mi colpisce è sempre stato un uomo serio che riesce a distendere un sorriso.
O forse di Pippo mi colpisce soprattutto il carisma. Il carisma che non si riesce mica a sparare anche se l’hanno provato ad ammazzare a Catania il 5 gennaio del 1984. Un direttore che si è inventato il suo giornale (I Siciliani) che ancora oggi continua a vivere nelle penne dei suoi “carusi” che, ormai cresciuti, militano nelle testate più diverse del nostro panorama. Un giornale mica fatto solo con la carta da giornale ma vissuto come una missione. Un giornale con una stanza di militanti e senza nemmeno i pennivendoli. Lo racconta bene il suo ex collega Riccardo Orioles: “Chi non ha sentito parlare dei Siciliani di Giuseppe Fava? Un piccolo giornale, eppure ancora oggi – trent’anni dopo la fondazione – quando si parla di giornalismo antimafia si pensa a loro. Un giornale “anti” mafia ma in realtà “per” un sacco di altre cose. La democrazia della “polis”, i diritti dei poveri, la pace, il riscatto del Sud come rinnovamento profondo politico e morale: quante cose stavano in quelle duecento pagine che ogni mese uscivano, senza pubblicità e senza stipendi, da una città della Sicilia per parlare all’Italia intera!
È una storia lunghissima, quella di Pippo Fava e dei suoi “carusi”; non è mai finita. Vive tuttora in tanti gruppi di giovani – professionali e “militanti”, come allora”. Il proprio lavoro vissuto come l’unico vestito disponibile nell’armadio. Fieramente incapace di smetterlo e di dismet terlo. L’editoriale del primo numero de I Siciliani nel 1983 è il manifesto di una vita. Scrive Fava
“I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione…I Siciliani vuole essere appunto il documento critico di una realtà meridionale che profondamente, nel bene e nel male, appartiene a tutti gli italiani. Un giornale che ogni mese sarà anche un libro da custodire. Libro della storia che noi viviamo. Scritto giorno per giorno”. Giorno per giorno, con quella quotidianità della battaglia che è il sale di tutte queste storie. La concezione etica del proprio lavoro come unica strada percorribile. Ogni tanto, quando mi prende lo sconforto, rileggo Fava nel silenzio della mia solitudine che non ha mai meno di tre persone. Leggo la sua caparbietà che ha la forma di un polso forte. Ripenso a quel sorriso nonostante (come diceva spesso lui stesso) “qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, per dìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…”
C’è un’altra dichiarazione che oggi, in questo paese in alcuni pezzi ancora così disgraziato e analfabeta (o colluso) sulla questione delle mafie, andrebbe stampata e distribuita fuori dalle scuole, sopra i tram o dentro i bar. È dell’undici 1981 ottobre mentre Fava dirigeva il Giornale del Sud.
«Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà! Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria. È una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio d’impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: “Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”».
Vorrei riuscire a tenermelo sempre nel portafoglio, questo suo spirito. E poi sarà che sono inchiodato su Pippo Fava perché anche lui ha dovuto subire l’onta di una morte distorta e calpestata. Fava viene ucciso alle 10 di sera del 10 gennaio 1984. Era in auto per andare a prendere la nipote che stava calcando le scene del Teatro Verga di Catania. Mi gioco tutto che era in auto con la soddisfazione a forma di sorriso della vecchia foto in bianco e nero, con una nipotina che seguiva le orme dello zio che i teatri li aveva abitati con la giacca del drammaturgo. In via dello stadio gli sparano cinque pallottole calibro 7,65 alla nuca. Come si usa per le bestie prima di passarle al macello. In Catania rimbombavano ancora le parole dell’articolo su “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un pezzo sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona collegati al boss Nitto Santapaola. Addirittura dopo quell’articolo Rendo, Salvo Andò e Graci avevano cercato di comprarsi il giornale, per zittirlo. Non si era ancora spento l’eco degli spari che già colava fango sopra al cadavere: il sindaco Angleo Munzone sposò subito la tesi dei giornalisti che parlavano di delitto passionale (tesi sostenuta sulla base dell’arma diversa da quelle solitamente usate per delitti mafiosi). L’onorevole Nino Drago addirittura esibì la propria pochezza istituzionale chiedendo una chiusura rapida delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”. Ma la denigrazione che mi più mi sanguina e mi lascia questo nodo alla gola è un passo di due articoli de La Sicilia nei giorni successivi alla morte. Quando li ho letti per la prima volta ero nel pieno della frana di silenzio e minaccia che mi aveva seppellito la famiglia e passavo ore a provare a raccontare il mio lavoro sempre in bilico tra la notizia, la scena, la parola, la risata e la favola. Sbattevo la testa per difendermi dal recinto dell’attore in cui sarebbe stato facile sminuirmi. Gridavo che era un gesto insulso e senza dignità. Non lo credevo possibile, prima di leggere gli articoli di Tony Zermo su Pippo Fava
“L’hanno ucciso da mafiosi. E non è facile capire il motivo, perché lui era sì scrittore di mafia, era sì uomo libero, e battagliero, ma era soprattutto un artista. […] Non era per naturale vocazione un inquisitore della mafia, era un uomo a cui piaceva profondamente vivere[…] Si possono fare tante ipotesi sul perché è stato ucciso. Tutto lascia credere che si tratti di un agguato mafioso. Ma perché la mafia ha deciso di eliminarlo? Cosa ha fatto, cosa ha scritto che ha portato alla sua eliminazione? Forse per le sue ultime parole pronunciate nell’ultima trasmissione di Enzo Biagi?[…] Lui vedeva la mafia da artista[…]”. “Probabilmente bisognerà cercare, si dovrà cercare in quello che ha scritto sulla sua rivista[…] E però anche in questa direzione si troverebbe poco perché lui non aveva scoperto nulla di particolarmente importante[…] Sono parole di un uomo di cultura, di un giornalista che vede la realtà con l’occhio dello scrittore civilmente impegnato: ma non sono denunce precise, non ci sono nomi e cognomi, non c’è nulla che possa far presumere un delitto per ritorsione[…] Rappresentava un pericolo non per quello che aveva scritto, ma per quello che poteva ancora dire o scrivere[…] Non è facile, comunque, capire questo delitto[…]”.
Dentro la storia di Pippo Fava ci vedo il riflesso della stessa pochezza.
Non so se succede anche a voi ma quando si comincia ad entrare nel ventennale di un omicidio e non si ha ancora un quadro completo della verità mi assale un senso di inadeguatezza verso i famigliari della vittima. Inadeguatezza come cittadino di un Paese che deve commemorare con la voce sempre più alta perché la memoria (e la verità) non si incaglino negli scogli del silenzio o peggio di una versione pervertita dei fatti.
Quest’anno sono venti anni che è stato ucciso dalla mafia Beppe Alfano e il 7 e 8 gennaio ci ritroviamo nella “sua” Barcellona Pozzo di Gotto (ME) per coltivarne memoria.
Beppe Alfano per me è anche l’amicizia che oltrepassa la stima politica con Sonia e forse essere lì con lei è anche la faccia di un’umanità di affetti (e di intenti) a cui proprio non voglio rinunciare: sarò teatrante il 7 gennaio alle 21.30 con Nomi, Cognomi e Infami e politico il giorno successivo in un dibattito con Sonia, Luca Tescaroli (Sostituto procuratore, Procura di Roma), Salvatore Borsellino (fratello del magistrato Paolo Borsellino), Rosario Crocetta (Presidente della Regione Sicilia), Fabio Repici (avvocato famiglia Alfano), Beppe Lumia (Senatore, già Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia) Marco Travaglio (giornalista), Luigi De Magistris (Sindaco di Napoli)e Giorgio Ciaccio (Deputato, Assemblea Regionale Siciliana) moderato da Peppino Lo Bianco.
Teatrante e politico, appunto.
Ricominciamo a girare su e giù per l’Italia migliore.
Oggi alle 16.30 a Borghetto Lodigiano (LO) per la festa dell’ANPI (a proposito di fascismo, eh).
Mercoledì 29 a Sesto San Giovanni (MI) alle ore 20 presento il mio libro “L’innocenza di Giulio” e parliamo di andreottismi in vista delle prossime elezioni. Al Carroponte via Granelli 1. Info qui.
Venerdì 31 ci vediamo a Marina di Grosseto alle 19 per il TILTCAMP2012 (ne avevo già scritto qui). Poi alle 21 con Nichi Vendola. Tutte le info qui. Ah, prima , ovviamente, si passa dall’Assemblea Nazionale di SEL a Roma, eh.
Sabato 1 settembre all’Area delle Feste in Via De Amicis di Fagnano Olona (VA) alle 21 per la prima Festa Provinciale SEL di Varese parleremo de “I diritti, la legalità, i beni comuni, il lavoro e la crisi”. Info qui.
Domenica 2 settembre a Modena per la festa PD andiamo sul palco con una serata che è una scommessa. Io, Cisco e la sua band con un medley di Nomi, Cognomi e Infami e le canzoni del tour di Cisco Fuori i Secondi. Ore 21 Arena sul Lago. Tutte le informazioni sono qui.
Per qualsiasi modifica potete trovare tutto sulla pagina degli appuntamenti.
Diceva Kafka che “i Sentieri si costruiscono viaggiando”. Noi proviamo a battere la nostra strada.
A Como Mario Lucini potrebbe essere un ottimo sindaco per la città. Ne sono convinto. E per questo ho deciso di appoggiare la sua campagna elettorale (e quella della lista di Sel Como che lo sostiene) con uno spettacolo, che è serata politica e raccolta fondi. Se volete, ci si vede lì.
Oggi (che è lunedì) iniziamo alle 10.30 con una visita all’OPG (su cui vi consiglio di informarvi qui) di Castiglione delle Stiviere (MN) con il nostro candidato sindaco Franco Tiana. Poi alle 21 a Bollate (MI) per la serata sulle “mafie al nord” con Gianuigi Fontana (procuratore generale presso Tribunale Milano) Francesca Barra e Mario Portanova in Sala Consiliare, piazza Aldo Moro.
Martedì in Consiglio Regionale poi, alla sera, alle 20.45 con il libro “L’innocenza di Giulio” alla biblioteca comunale di Cologno al Serio (BG), piazza Garibaldi n.5.
Mercoledì sera, a Lodi, “Il modello Formigoni non è salutare” sulla sanità poco sana di Regione Lombardia, con Roberta Morosini, coordinatrice SEL Lodi e Michele Galbiati, responsabile forum salute SEL Lodi, Alberto Villa, segretario FP CGIL Lombardia responsabile comparto sanità e Mauro Tresoldi, segretario FP CISL Lodi.
Giovedì alle 18 a Bergamo presento il libro “L’innocenza di Giulio” , Libreria Melbookstore, ore 18:00 via XX Settembre, 78/80.
Venerdì dalle 10 a Roma, Sede di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli Viale Parenzo 11 Roma con Nicolò D’Angelo, Questore di Perugia, Gabriella De Martino, DNA, Ciro Corona, Associazione anti Camorra. Tutte le info le trovate qui.
Sabato sera a Como, in scena con NOMI, COGNOMI E INFAMI (Aula Magna del Politecnico Via Castelnuovo nr.7) per sostenere il candidato sindaco Mario Lucini.
Sappiamo dove incrociarci, insomma.
scritto per IL FATTO QUOTIDIANO
Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.
La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.
I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.
E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.
Don Peppe Diana 25 dicembre 1991
Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada.
Ci sono paesi coltivati in giro per il mondo che rimangono appesi con la strada principale. Non importa che sia Emilia di nome o Domiziana, non importa nemmeno che sia a forma di strada o battuta con i sassi delle strade lisce come sassi. Ci sono paesi in giro per il mondo che rimangono ammuffiti per anni con una strada che vale per tutti, come se cominciasse ogni porta fuori dalla porta che è così per forza, così perché è sempre stato. Che è così e basta. Perché la strada non è solo una via buona per lo struscio, perché la strada è un modo, e il modo appena si abitua diventa stile, e appena lo stile marcisce diventa sistema. Il sistema. Ci sono paesi che la storia si dimentica nelle note a fondo pagina, condannati a non illudersi finché non succede che qualcuno per troppo amore quella strada non si mette ad attraversarla.
Raccontano gli angeli della memoria che Don Peppe Diana, quel giorno che si è messo in testa di raccontare a tutti come ci fosse un’altra via, dicono gli angeli che avesse la tranquillità e la luce degli esploratori. Mentre invitava con un mezzo sorriso appoggiato sulla bocca che sarebbe bastato girare all’angolo della paura per la via della dignità.
Caro Don Peppe,
forse te l’eri anche immaginata questa sera tutta appiccicata del tuo ennesimo anniversario che profuma di vita. Perché io ti confesso che non ci avrei scommesso un soldo di provare e non riuscire nemmeno a raccontarti di sfioro qui a casa tua mentre mi si chiude la gola. Perché non riesco a spiegarmi questa agonia di giusti che possono essere raccontati solo dopo la pistola. Perché mi ci vorrebbe, questa sera, un cuore a forma di Don Peppino per non urlarmi che dovresti tanto esserci tu a slavare questa erba e mezzi muri dalla puzza e il disonore dei suoi padroni e della vergogna che l’ha concimata fino a ieri. Caro Don Peppe, chissà se non ti scapperebbe un brivido lungo e sottile ad annusare che profumo ha la tua Casale con il vestito della dignità.
Caro Don Peppe,
il re infame che ti ha fatto cercare nel corridoio di spari è inciampato in uno spigolo di gente che ha scelto di stare accampata sulla tua strada. Dovresti vederli, Don Peppe, che padroni in mutande sono i boss mentre cercano di tappare le bocche che ricominciano da dove ti avevano fermato.
Caro Don Peppe,
chissà se ci avevano mai pensato loro, i professionisti comici e molli della prepotenza e della paura, i pagliacci del ricatto, con i vestiti coordinati dai polsini eleganti, le scarpe lucide e le macchine potenti, mentre sfilano mimando male la potenza lasciando una scia di puzzo mischiato tra rifiuti, il sudore dei nascosti e l’odore della merda. Chissà se ci avranno mai pensato, Schiavone o Bidognetti, che sono passati anni e continuano a rimbalzare quei quattro spari. Quattro rintocchi che bisogna custodirli stretti perché a guardarli oggi un po’ più dall’alto hanno la forma di carezze che continuano a cantare. Chissà se non vi rimbalzano, a voi mandanti ed assassini, gli spari, l’eco e gli angoli di quella chiesa, se non vi rimbalzano in testa come una condanna a ritmo per il resto della vita. Quei quattro spari che vi sono tornati in faccia con la potenza della semplicità che Don Diana coltivava.
Caro Don Peppe,
io queste parole avrei voluto dirtele all’orecchio, in questo desiderio infantile e finalmente sano di chiederti di esserci comunque. Avrei voluto almeno vederti in faccia per come hai curvato gli occhi quando ti è arrivata la notizia fin lì che il tuo compleanno si festeggia nella casa restituita di Sandokan. Perché ci dovranno restituire tutto, Don Peppe, e noi senza mai farci passare questa fame.
Dovranno restituirci i muri, le terre, gli uomini e la dignità; finchè non gli verrà rificcata in gola la paura. Dovranno restituirci la bellezza che hanno scambiato per quattro monete al mercato dell’intimidazione. Dovranno restituirci la libertà di alzare gli occhi, di sorridere, di credere e camminare. Dovranno restituirci questi anni in cattività che passiamo per proteggerci. Ci dovranno restituire il respiro incondizionato. Ci dovranno restituire i paesi quelli veri: con l’incrocio di strade da scegliere, costruire, osservare e attraversare.
Caro Don Peppe,
quei quattro spari, te lo giuro, sono diventati aghi: un inno a non avere paura e un mazzo di punte sulla schiena di chi c’era e chi è rimasto: Schiavone, Bidognetti, Iovine o Zagaria. Mi piacerebbe chiederlo a loro come pungono sull’unto della schiena, mi piacerebbe chiederlo a loro se lo sentono il rumore del loro onore che davanti a quattro spari anno dopo anno si sgretola.
Caro Don Peppe,
non ci avresti sperato che la tua morte potesse profumare di vita così tanto, così forte e così a lungo in un paese che finalmente sta imparando a ricordare.
Caro Don Peppe,
chissà come ti suonerà strano un accento così diverso per un ricordo che arriva come una lettera lunga mille chilometri. Di una vergogna lunga come una nazione che ci è venuta a prendere per zittirci e invece ha perso mentre ci ha portato ad abbracciare. Chissà se non trovi anche tu che in questo mare di mafie che si arrampica su una nazione alla fine ci ritroviamo come navi attraccati nei porti che non avremmo mai creduto di visitare.
Che civiltà che sanguina dietro quattro colpi sparati dentro ad una chiesa. Esistono echi che non si riescono a scrivere nemmeno sbriciolando il dizionario delle parole peggiori. Quattro rintocchi di pistola alle 7.30 del 19 marzo 1994 sono un tamburo muto. Quattro buchi sparsi tra la faccia, la mano e la testa di un uomo che ha deciso fiero di non seguire ma attraversare la strada. Un paese normale dovrebbe registrarli quei quattro spari per tenerseli in tasca a sanguinare. Una pistola per zittire è l’arma dei codardi, è un gioco da conigli, un trucco per maghi dilettanti.
Cara camorra,
ti sparerà la memoria. Ogni giorno, tutto il giorno. La memoria che si è accesa in quella sacrestia dove vi siete mangiati la carità.
Caro Don Peppe,
io per amore del mio popolo non tacerò. Continuerò a raccontare questa storia da raccontare. Continuerò a essere partigiano nella scelta della parte dove stare. Io non ci sto, anche con te ammazzato e con la scorta. Io mi vergogno di questa gente che non si vergogna, io mi vergogno di dovermi difendere per avere invocato un contrattacco con le armi bianche e la parola. Io mi vergogno di andare in tourné con un pubblico che mi spia. Io mi vergogno di doverti conoscere solo troppo tardi. Io mi vergogno delle orecchie e gli occhi che latitano, leggono e ascoltano di Michele Zagaria forse da Casapesenna. Io mi vergogno di questa paura incivile di fare i nomi.Noi sappiamo, abbiamo le prove, conosciamo i nomi. Questa sera avrei dovuto scrivere, parlare, raccontare. Su questa sedia seduta sotto la finestra della tua Casale, avrei voluto scrivere un abbraccio, trovare le parole. Ma questo nodo in gola non mi si riesce a musicare, questa aria gialla che mi prende in giro fino a venirmi ad annusare. Forse ci sono ricordi che non andrebbero nemmeno parlati, che sono pieni e leggeri come un velo sul cuore. Questa sera recito da muto da un giardino liberato dalla prostituzione. Vorrei un monologo stasera che non facesse nemmeno rumore. Vorrei dirtelo di persona, perché seduto, di fianco, sono sicuro che la vedi, questa sera, questa casa di letame e morte che, per un secondo, ti dedica un inchino.
(scritto per la chiusura del Festival dell’Impegno Civile a Casal di Principe, 2009 dal libro “Nomi cognomi e infami“)
Milano – “A Milano la mafia non c’è” Affermava negli anni ’80, al colmo nella Milano da bere (forse aveva bevuto troppo) il sindaco Paolo Pillitteri. Con giuliva cadenza sino a pochi mesi fa anche Letizia Moratti (la mamma del Batman meneghino) scandiva che la mafia “Non appartiene a questa città”, probabilmente non consapevole del fatto che era la città ad appartenere alla mafia.
Nel frattempo con bavosa tracotanza il leghista Maroni dopo avere saturato tutti i mezzi di informazione possibili, imponeva a Saviano, reo di avere detto che esiste la mafia in Lombardia e fa di tutto per “relazionarsi” con chi governa, un suo elenco di “cose fatte”.
“Che la ‘Ndrangheta stesse colonizzando Milano, lo dicevo negli anni ’80. L’ho confermato due anni fa e i fatti mi hanno dato ragione. Ora c’è l’Expo e non so più come dirlo”. Parole di Enzo Macrì, sostituo procuratore nazionale antimafia. Giulio Cavalli di questo e molto altro scrive nel libro, con prefazione di Carlo Caselli, “Nomi , cognomi e infami” (Edizioni Ambiente, pagg. 244, € 16). Giulio Cavalli, con i suoi spettacoli teatrali, documenta da anni con tagliente ironia, la presenza della mafia nella città della Borsa; per questo da oltre due anni vive sotto scorta.
Due distinti capitoli spiegano come nei suoi confronti si sia manifestata una sincera e cosciente solidarietà nelle regioni del sud, al contrario inesistente in Lombardia, sua regione d’origine.
Per non dimenticare l’autore fa riemergere dalla memoria il ricordo di uomini uccisi dalle mafie, come Don Diana, bruno Caccia, Giuseppe Fava e molti altri.
Gli spazi lasciati all’immaginazione sono minimi e quando ci sono sfiorano la poesia, altresì Giulio Cavalli documenta tutto: nomi, luoghi, testimonianze, fatti, come l’elezione del boss Pino Neri a Paderno Dugnano sancita in un centro intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
E’ scrittura palpitante quella di Giulio Cavalli, di rabbia e speranza, di ironia e sentimento, di umanità e perseveranza, sino a fargli affermare che “ridere di mafia è una ribellione incontrollabile”.
Mauro Bianchini
L’articolo qui.