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#nonmifemro

«La densità di ogni parola scava un solco profondo nel cuore di tutti». #Santamamma secondo Monica D’Angelo

(di Monica D’Angelo)

Figurandosi a tratti di uscire dal proprio corpo e vedersi vivere, Carlo Gatti tenta di ricucire gli strappi della sua memoria di bambino adottato. Vuol tappare quel buco nel cuore che lo ha sempre fatto sentire un “appaltato” della vita, ripulirsi di quella placenta che lo imprigiona ancora, nonostante l’amore grande dei genitori. Protagonista a volte tenero a volte sarcastico del proprio dolore, fino quasi a compiacersene per sopravvivergli, si incammina nella ricostruzione della sua identità smembrata, a partire dal ricordo del primo pianto tra le braccia della maestra, primo di una serie di pianti accidiosi e solitari. Inizia così una personale sceneggiatura della sofferenza insieme ad un’ impari battaglia sui luoghi comuni, le ipocrisie, le apparenze di cui ognuno, inevitabilmente, si nutre. E’ la macchina della retorica, la finta comunicazione che stritola il suo mondo interiore. Un universo dal vocabolario ricchissimo, ma che la recita del “fuori” comprime e mortifica.

Carlo, musicista mancato, sceglie di fare il clown in un circo di infimo ordine, provocatoria metafora della vita. Per caso e inconsapevolmente diventa un eroe nazionale. Lontano dai suoi genitori, vive sotto scorta, appiattito dall’angoscia e dalla solitudine. Le luci della ribalta lo infastidiscono e diventano solo un monotono “sguazzare nel brodo degli altri”; tuttavia egli entra in un circuito opprimente che confonde cura e malattia, in un gioco delle parti che sostiene a volte con ironia a volte con vena malinconica e amara. Ma la ricerca delle sue radici, all’origine dell’abbandono, diventa una via di fuga e si trasforma in un riscatto, possibilità, forse, di una rinascita: autoassolversi dalla paura della propria inadeguatezza al cospetto della verità.

La scoperta di avere un fratello, anche lui adottato, gli fa conoscere la gioia di condividere il proprio sangue e l’innocenza della sua condizione, nel tentativo vano di ripulirsi dalle sporcizie del mondo. Con questo romanzo Giulio Cavalli ci fa entrare nella sacralità del suo silenzio e ci regala tutte le sfumature di un’anima inquieta, spigolosa e dolce, aspra e poetica. La densità di ogni parola scava un solco profondo nel cuore di tutti, inchiodandoci a leggerlo e assaporarlo d’un fiato.

(Monica D’Angelo è una scrittrice e socia della bella libreria IoCiSto a Napoli, dove sarò martedì 9 maggio per presentare Santamamma, qui c’è l’evento fb)

«Gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno»: lo dice l’INPS

Un articolo de La Stampa che vale la pena leggere (prima di commentare):

Quante volte l’avete sentito dire? Quante volte vi siete fatti irretire dalla rassicurante convinzione che gli immigrati rubano lavoro e futuro? Lo sospetta persino Bakari, uno dei giovani africani che ogni mattina pulisce le strade di Roma Nord nel timore di essere arrestato. Non ha bisogno di molto: una ramazza, una paletta, due pezzi di cartone con cui – quasi scusandosi per il disturbo – chiede in italiano qualche centesimo e una manciata di dignità. A Roma l’inefficienza dell’Ama ha raggiunto un livello tale da trasformare truppe di irregolari nel più straordinario spot a favore dell’integrazione. Bakari si aggira attorno a una grande struttura della Polizia, e nessuno sente il bisogno di distoglierlo dalla rimozione meticolosa delle ortiche ai lati di un marciapiede più simile a quelli di Accra che di una capitale europea. Meno male che Bakari c’è: secondo la più classica delle regole del mercato, colma la domanda inevasa di decoro di una città sull’orlo perenne del collasso finanziario.

Gli immigrati non rubano il lavoro agli italiani, né – se regolari – spingono al ribasso i salari. Non è l’opinione parziale di un romano o di anime belle. Lo dice con dati inoppugnabili una recente ricerca di tre studiosi: Edoardo di Porto dell’Università Federico II di Napoli, Enrica Maria Martino del Collegio Carlo Alberto di Torino e Paolo Naticchioni di Roma Tre. Non è l’unico studio sul tema, ma è il primo che censisce un intero campione di immigrati. Lo hanno fatto grazie ad una borsa VisitInps, il progetto voluto dal presidente Tito Boeri che mette a disposizione della ricerca l’enorme mole di dati dell’Istituto di previdenza. I protagonisti dello studio sono i 227mila lavoratori di 107.000 imprese private (esclusa l’agricoltura) emersi grazie alla più grande sanatoria mai effettuata in Italia, quella decisa a settembre 2002 dal secondo governo Berlusconi che regolarizzò 650mila persone. Le due sanatorie successive furono drasticamente inferiori: nel 2009 furono accolte 222mila richieste su 295mila, nel 2012 passarono appena 60mila richieste su 134mila. Il numero di extracomunitari in rapporto alla popolazione in Italia è volato in quindici anni: dall’1,7 per cento del 1998 all’8 del 2012. Oggi quella crescita è azzerata o quasi: gli immigrati censiti in Italia sono poco più di cinque milioni, due terzi dei quali extracomunitari. In Francia sono 4,3 milioni (ma con un altissimo numero di immigrati di seconda e terza generazione), in Germania i residenti stranieri sono ben sette milioni e mezzo.

Il crollo

Se una volta gli immigrati si fermavano in Italia per cercare fortuna, oggi la gran parte di loro si spinge verso nord. Fra il 2008 e il 2013 i permessi di soggiorno per lavoro sono passati da 738mila a 1.442mila, ma negli ultimi anni la progressione è calata fino ad azzerarsi: nel 2013 sono stati appena lo 0,46 per cento in più dell’anno precedente. Chi non ha potuto avere il rinnovo annuale del permesso è lentamente scivolato nel lavoro irregolare. Danesh Kurosh del dipartimento immigrazione Cgil spiega che la progressiva chiusura dei decreti flussi sta ingrossando il sommerso: oggi quelli che lavorano senza una regolare posizione contributiva sono almeno 500mila.

Cosa accadeva quando l’Italia era invece fra i principali Paesi di destinazione e accettava di buon grado le regolarizzazioni? La novità della ricerca Inps è nella precisione dei dati a disposizione: la sanatoria di fine 2002 imponeva alle imprese di assegnare a ciascun lavoratore emerso un codice rimasto negli archivi dell’Istituto.

I numeri  

A fine 2003, appena un anno dopo, nove di quei dieci immigrati lavoravano ancora in Italia. Dopo cinque anni erano ancora l’85 per cento. Ma la cosa ancora più sorprendente è che dopo due anni solo il 45 per cento di quel campione era impiegato nella stessa impresa, dopo cinque più di un lavoratore su tre aveva cambiato provincia. «I dati suggeriscono che queste persone erano e sono disposte ad una mobilità che gli italiani non hanno mai avuto», spiega Di Porto. Per intenderci: la probabilità di cambiare impresa per un lavoratore italiano negli ultimi trent’anni è stata appena del 15 per cento. Inoltre «la persistenza nel mercato italiano associata al rapido cambiamento di impresa e residenza dimostra un eccesso di domanda insoddisfatta per mestieri a bassa qualifica». Questi numeri confermano una tendenza che si noterà anche negli anni della crisi. Linda Laura Sabattini dell’Istat ha fatto notare che mentre i posti scendevano nell’industria, nell’edilizia, nel commercio, gli occupati stranieri aumentavano comunque nei servizi alle famiglie e nella ristorazione: riecco la domanda inevasa. L’evidenza dei numeri Inps non solo conferma l’utilità della forza lavoro immigrata, ma smonta un altro falso mito, ovvero la presunta spinta al ribasso dei salari. Nei dati il fenomeno emerge solo nei primi tre mesi: le retribuzioni medie degli emersi fanno scendere di circa il 16 per cento il salario delle imprese che li regolarizzano. Ma in meno di un anno quel gap si chiude. La sanatoria della Bossi-Fini produsse l’emersione di due-tre lavoratori a impresa nell’arco di tre mesi. Sei mesi dopo il numero degli occupati era lo stesso, a dimostrazione che la gran parte delle aziende, se nelle condizioni di farlo, non aveva interesse ad occupare irregolari.

Raccontare con dovizia di dettagli la storia di ieri aiuta a capire cosa fare oggi e domani. Il ministro dello Sviluppo tedesco Gerd Mueller stima che dall’Italia solo quest’anno potrebbero transitare fino a quattrocentomila persone, il doppio dell’anno scorso, venti volte quelle sbarcate nel 1997. La mera chiusura delle frontiere rischia di scaricare decine di migliaia di Bakari sulle strade italiane. Il ministro Marco Minniti propone di utilizzare i richiedenti asilo nei Comuni e per lavori di pubblica utilità, ma in mezzo a quelle decine di migliaia di persone ci saranno molti migranti economici. Dimenticate per un momento l’esodo di cinque milioni di siriani, o la tragedia della Libia orfana di Gheddafi. Sui barconi che dal Mediterraneo si spingono lungo le cose siciliane ci sono anzitutto migranti in cerca di fortuna. Giovedì scorso a Pozzallo sono arrivate su una nave 428 persone: più di trecento erano marocchini.

Gli emersi dalla sanatoria 2002 erano quasi per la metà (il 45 per cento) dipendenti in due settori, manifattura e costruzioni. Dopo cinque anni quella percentuale era salita al 60 per cento: una conferma in più della tendenza degli immigrati a compensare la scarsa offerta di manodopera. Liliana Ocmim è peruviana, vive in Italia da 25 anni, ha tre figli e fa la presidente del dipartimento immigrati Cisl: «Come è possibile che i giovani italiani all’estero siano disponibili ai lavori umili che qui rifiutano?» La risposta è amara, e dice molto dei problemi del Belpaese.

Immigrati mobili  

Negli anni della crisi la salvezza di quegli immigrati è stata ancora una volta la mobilità: «Molti sono rientrati nel proprio Paese dove hanno trovato il lavoro che qui avevano perso», racconta Mohamed Saady, edile e presidente della Anolf-Cisl. Ocmim allarga le braccia: «Questi numeri confermano quanto siano sbagliate le politiche di chiusura. Più il lavoro è irregolare, più aumenta la concorrenza al ribasso». La ricerca dice una cosa chiara: la sanatoria della Bossi-Fini non fu un regalo a persone poi tornate nell’illegalità, ma un riconoscimento a chi già lavorava in Italia ed è rimasto a lavorare in Italia.

Uno dei luoghi comuni sugli immigrati vuole che siano un salasso per lo Stato. E invece è vero il contrario. Pochi giorni fa a Biennale Democrazia Boeri ricordava che i lavoratori stranieri residenti in Italia versano otto miliardi di contributi sociali all’anno e ne ricevono tre in prestazioni. Vero è che molti di loro domani avranno una pensione, ma non tutti: l’Inps calcola che sin qui gli immigrati hanno regalato al sistema previdenziale 16 miliardi di contributi. Spiega Boeri: «Chiudere le frontiere produce solo tre risultati: più evasione contributiva, schiaccia i salari, aggrava i problemi sociali. Per far sopravvivere l’Europa occorre una politica comune dell’immigrazione, una gestione del problema dei rifugiati e la revisione della convenzione di Dublino. Ma è possibile crederci con i populisti al potere in cinque Paesi dell’Unione?».

(fonte)

«I napoletani della Tuscolana»

999210Li chiamavano «I napoletani della Tuscolana»: avevano messo su un’organizzazione caratterizzata dall’integrazione tra personaggi di origine campana e noti criminali romani tanto da poter essere considerata una realtà autoctona che si avvaleva però della connotazione camorristica del suo capo, Domenico Pagnozzi, e di alcuni affiliati per poter accrescere la propria forza intimidatrice nella Capitale. I Carabinieri stanno eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 61 persone, a conclusione di un’indagine che ha portato all’individuazione di un’organizzazione per delinquere di matrice camorristica operante nella zona sudest di Roma. Arresti e perquisizioni sono in corso in varie località di Roma e provincia, Frosinone, Viterbo, L’Aquila, Perugia, Ascoli Piceno, Napoli, Caserta, Benevento, Avellino, Bari, Reggio Calabria, Catania e Nuoro. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, estorsioni, usura, reati contro la persona, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita, fittizia intestazione di beni, illecita detenzione di armi, illecita concorrenza con violenza e minacce, commessi con l’aggravante delle modalità mafiose e per essere l’associazione armata. E ci sarebbero stati scambi di favori tra l’organizzazione e il clan di Michele Senese per compiere fatti di sangue. È quanto sarebbe emerso dalle indagini, iniziate nel 2009: tra Domenico Pagnozzi e Michele Senese ci sarebbe stato un sodalizio che non si è spezzato negli anni. Quando si dovevano compiere delitti a Roma, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stata la «mano d’opera» che arrivava da Napoli e poi spariva dopo l’omicidio.

I legami con Carminati

E legami c’erano anche con il gruppo di «Mafia Capitale»: «Si tratta di personaggi che si conoscono, non dal punto di vista personale, e si rispettano con un riconoscimento di ruoli tra capi di gruppi che operano sullo stesso territorio». Lo ha affermato il procuratore aggiunto di Roma, Michele Prestipino, sui rapporti tra il gruppo camorristico sgominato dai Carabinieri nella capitale e il sodalizio capeggiato dall’ex Nar, Massimo Carminati. «Non c’è un tavolo di regia – ha aggiunto Prestipino – ma dalle intercettazioni si capisce che c’è contezza dell’altro e ognuno sa dell’esistenza dell’altro gruppo».

Il «Tulipano» sequestrato

C’è anche il bar Tulipano tra i beni sequestrati nel corso dell’operazione dei carabinieri E’ stato proprio il nome del locale di via del Boschetto, nel cuore del quartiere Monti, a dare il nome all’operazione.

Le attività

L’operazione è scattata a conclusione di un’indagine del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale Carabinieri di Roma. Nell’ambito dell’operazione sono in corso sequestri di beni per un valore di circa 10 milioni di euro. I beni sequestrati sono riconducibili ad alcuni dei 61 arrestati. In particolare ci sarebbero numerosi esercizi commerciali e società romane, immobili, ma anche rapporti finanziari e veicoli. Per gli inquirenti il gruppo gestiva lo spaccio di stupefacenti in alcune piazze della periferia della Capitale, come Centocelle, Borghesiana, Pigneto e Torpignattara. Durante le indagini sono emerse inoltre episodi di estorsioni e gravi intimidazioni per imporre il volere del clan e per recuperare crediti usurai anche per conto di terze persone. A quanto emerso, inoltre, l’organizzazione intendeva monopolizzare anche il controllo della distribuzione delle slot machines in molti esercizi commerciali della zona Tuscolana-Cinecittà. «Siamo convinti che il gruppo volesse espandere il proprio raggio di azione soprattutto per quanto riguarda le piazze di spaccio di droga». Lo ha detto il comandante provinciale dei carabinieri di Roma, il generale Salvatore Luongo, durante la conferenza stampa sui 61 arresti.

I boss

L’organizzazione era capeggiata, fino al suo arresto per associazione mafiosa e omicidio, da Domenico Pagnozzi, attualmente detenuto in regime di 41 bis , condannato all’ergastolo per l’omicidio Carlino del 2001 e soprannominato «ice» per i suoi occhi di giaccio. Pagnozzi, detto «o professore», è stato condannato all’ergastolo in primo grado lo scorso ottobre perché ritenuto uno degli autori materiali del boss della banda della Marranella Giuseppe Carlino avvenuto a Torvajanica il 10 settembre del 2001. In un primo momento Pagnozzi venne scagionato per insufficienza di prove poi venne incastrato dalla prova del Dna trovata dagli investigatori su un fazzolettino di carta rinvenuto nell’auto abbandonata dai killer dopo l’omicidio. Carlino venne ucciso, secondo quanto ricostruito dalle indagini, per vendicare la morte di Gennaro Senese, avvenuta alla fine degli anni novanta, e fratello di Michele, quest’ultimo anch’egli condannato all’ergastolo e ritenuto il mandante dell’agguato che doveva ristabilire la supremazia sul territorio romano. Anche Massimiliano Colagrande, uomo vicino all’estrema destra e coinvolto nell’inchiesta «Mafia capitale» è tra i 61 arrestati dell’operazione «Camorra capitale» dei carabinieri del Comando di Roma.

Due in manette a Nuoro

Ci sono anche due cognati residenti a Nuoro fra le 61 persone arrestate nell’ambito della maxi operazione che ha smantellato un’organizzazione di matrice camorristica attiva nell’area sud-est della Capitale. I carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno arrestato Calogero Palumbo, di 54 anni, imprenditore di Cerignola, e il cognato Fabrizio Floris, di 46, camionista di Nuoro. I due sono indagati per traffico di droga.

Le reazioni

Il sottosegretario alla Difesa, Gioacchino Alfano, plaude «all’imponente operazione anticamorra dei carabinieri. Il mio più vivo compiacimento al Comandante Generale dell’Arma e a tutti i Carabinieri che hanno partecipato alle fasi di indagine e alle operazioni di arresto di questi malavitosi che hanno assicurato alla giustizia. E il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: «Desidero ringraziare a nome mio e dell’amministrazione regionale le Forze dell’ordine e la Magistratura per l’ottimo lavoro svolto nella lotta alla criminalità organizzata. Si tratta di un’operazione che dimostra come attuando un ferreo controllo del territorio e indagini scrupolose si possa estirpare il terreno fertile sul quale le organizzazioni mafiose tentano di mettere le radici».

(clic)

#nonmifermo Stupisce lo stupore

In Lombardia e sulla Lega. Perché, aldilà delle singole responsabilità ora in fase di accertamento, sono questi i rischi che corre una politica dove è pressoché inesistente il confine fra partito e famiglia (e la Lega non è certo un caso isolato) e l’ideale coincide con una cultura pressappochista e anticostituzionale, violenta e razzista, il cui immaginario è stato riempito nel tempo di facezie, parolacce, volgari gesticolazioni, come scrive Claudio su #nonmifermo nel suo ultimo post.

Il Nord dei grandi appalti, delle bonifiche, delle speculazioni edilizie, dell’Expo. Il Nord che “lava” il denaro proveniente dal business della droga, della prostituzione, del gioco d’azzardo. Il Nord operoso degli “amici degli amici”, di Don Verzé e Salvatore Ligresti. Il Nord dell’inchiesta Infinito, dei patteggiamenti per le mancate bonifiche a Rogoredo, delle truffe, le estorsioni, i capo-bastone e i capo-mandamento.

Quel Nord che faceva scrivere a Giuseppe Poggio Longostrevi nel 2000, prima di suicidarsi: “Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione”. L’Onorevole Gian Carlo Abelli, ancora oggi referente politico per la sanità lombarda, vicino agli ambienti di “Comunione e Liberazione” e delegato per i rapporti con il Parlamento del presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni.

La Lombardia, appunto: emblema dell’operosità nordista e motore del sogno federale caro a Umberto Bossi.