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Gli eroi sono stanchi

«Dopo un mese d’inferno in reparto Covid e un mese di quarantena con polmonite da Covid, mi trovo a piangere lacrime di rabbia», ci scrive un’infermiera in una lettera-denuncia

Ricevo e pubblico la lettera di un’infermiera. C’è dentro tutto: questo tempo, quello passato e un suggerimento per il futuro.

Oggi vorrei parlarvi di quegli eroi di cui molte persone si sono riempite la bocca qualche mese fa: gli infermieri ai tempi del Covid-19.

Ho odiato il termine eroi dal primo momento in cui è stato utilizzato, perché non abbiamo fatto niente di straordinario, è il nostro lavoro. Eroico è più che altro il modo in cui l’abbiamo fatto, cioè sbattuti dai piani alti in prima linea (altro termine molto usato, ma che non amo) senza formazione e – soprattutto – senza risorse sufficienti, sia in termini di materiale che di personale. Abbiamo dovuto far fronte ad una situazione in continua evoluzione e senza l’appoggio dei superiori, avendo un coordinatore che si è eclissato misteriosamente il giorno in cui il reparto è stato adibito ai pazienti Covid.

Ma questo è il passato e speriamo che rimanga tale. Non voglio ripetere le condizioni in cui abbiamo lavorato perché ne hanno già parlato tanti altri prima di me.

Ma come stanno gli eroi oggi? Perché nessuno ne parla più, come volevasi dimostrare.

Qualcuno penserà che abbiamo tirato un sospiro di sollievo, che abbiamo ricominciato a respirare. Nì. Sicuramente siamo felici di non vedere più gente morire ogni giorno e sentirci totalmente impotenti davanti a tanto dolore e solitudine.

Ma nessuno, dall’alto, ha pensato minimamente che abbiamo bisogno di rallentare. Veniamo da un periodo di alto stress e in tutta risposta ci sono stati intensificati i turni, arrivando a 7 giorni consecutivi di lavoro, più notti consecutive, poco riposo. Ci siamo visti totalmente modificati i turni il 29 del mese per il 1° del mese dopo.

Perché per loro (quelli che io chiamo piani alti, i potenti, quelli che non hanno un contatto col paziente) non siamo persone, siamo solo numeri di matricola usati per coprire i buchi sul foglio dei turni. Non abbiamo famiglie, impegni, passioni al di fuori del lavoro. Dobbiamo essere pronti in ogni momento a rispondere alla chiamata dell’azienda. Cene con gli amici, week end al mare, visite mediche dei figli. Non esiste niente di certo per noi.

In più, nel mio reparto il lavoro si sta facendo sempre più difficile e intenso, perché il nostro coordinatore, che ha da poco ripreso a venire in reparto, è presente solo 15 ore a settimana, quindi per le restanti 153 ore passiamo buona parte del turno a dover risolvere problemi burocratici che non ci competono, sottraendo tempo necessario all’assistenza dei pazienti.

Se un collega si ammala, il responsabile che deve occuparsi di sostituirlo fa metodicamente spallucce, quindi dobbiamo telefonare a una marea di reparti facendoci dare i numeri di colleghi che sono a casa di riposo e pregarli di venire a darci il cambio. Altrimenti, si fa doppio turno. 12 ore e passa la paura.

Personalmente, dopo un mese d’inferno in reparto Covid e un mese di quarantena con polmonite da Covid (causata dalla mancanza di dpi), mi trovo a piangere lacrime di rabbia. Non abbiamo sofferto abbastanza? Ho la gastrite da stress, alti livelli di glicemia, ormoni ballerini, non dormo bene e ci sono giorni in cui la stanchezza mi fa a malapena reggere in piedi. Sono esausta, incazzata, delusa.

Ho sempre amato il mio lavoro, ora vado in reparto con la nausea. Vorrei abbandonare tutto e fare altro, ma al momento non me lo posso permettere. Mi hanno fatto odiare un lavoro che ho sempre fatto con passione, responsabilità e competenza.

E tutto ciò, dalla disorganizzazione del reparto, l’aumentato carico di lavoro, fino all’esaurimento psicofisico del personale (pardon, dei numeri di matricola) va a discapito del paziente. E ciò mi fa davvero male. Perché vorrei fare sempre del mio meglio, ma in certi momenti è dura avere un sorriso per gli altri quando non ne hai più nemmeno per te. È difficile fare bene le cose quando nello stesso tempo di sempre devi farne il doppio. Sacrifici, solo sacrifici.

E questa è solo la situazione nel mio piccolo reparto. L’argomento potrebbe andare avanti parlando di contratto nazionale, di ferie non godute, stipendi bassi, mobilità bloccate, competenze non riconosciute, eccetera.

Gli eroi sono stanchi. Gli eroi non erano quelli del Covid, siamo sempre stati eroi, se lo volete sapere. Solo che ve ne siete resi conto solo poco tempo fa (e forse ve ne siete anche già dimenticati).

Siamo stanchi.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Bisognerebbe avere avuto fame

È una questione di cui sembra non occuparsi nessuno eppure è uno dei mali endemici di questo tempo: l’incapacità di provare empatia permette il proliferare del razzismo, del bigottismo, del perbenismo, del cattivismo e di molti altri -ismi che continuano a infestare il nostro presente.

Così viene facile portare avanti il modello dell’italiano medio che si infastidisce per il povero o per l’affamato e che crede addirittura di difendere il proprio Paese. Il problema non è solo l’odio per gli stranieri, no, non è solo quello: a molti fa schifo la povertà, l’indigenza, ne hanno un terrore atavico e la allontanano perché sono terrorizzati solo dall’idea di incrociarla per strada. Come i bambini che strizzano gli occhi per scappare da un momento che faticano a sopportare questi non vogliono vedere, non vogliono sapere e così riescono addirittura a trovare maleducato e sconveniente avere fame, essere schiavi e essere poveri.

È tutta mancanza di esperienza e di empatia. È una società che ancora si illude di poter essere nata tra i “non poveri” e di non rischiare mai di finirci. Eppure sarebbe così diversa la politica, il giornalismo, la socialità, lo stare insieme se riuscissimo a immaginare cosa significhi avere avuto fame, non avere i soldi per pensare al giorno successivo, non avere un futuro di sicurezza e di libertà.

Qualcuno potrebbe pensare che dovremmo viverlo per potercene rendere conto eppure augurare una carestia per poter diventare un popolo migliore non sembra una via fattibile e nemmeno troppo responsabile.

E quindi come si empatizza? Studiando, studiando, studiando, leggendo, rimanendo curiosi, vedendo gli altri, ascoltando gli altri, smettendo di vedere il mondo dalla nostra unica personale lente d’osservazione. E sarebbe bello che qualcuno, anche della classe dirigente, avesse il coraggio di dirlo forte e chiaro, piuttosto che cincischiare per continuare a lisciare i perbenisti.

Buon giovedì.

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La lezione di Antonella

Come si sente una giovane ricercatrice che riceve sgradite attenzioni sessuali dal suo capo: lo racconta con coraggio l’immunologa Antonella Viola

Uno dei più famosi genetisti del mondo, Pier Paolo Pandolfi, è stato cacciato da Harvard («sono io che me ne sono andato», dice lui) perché accusato di molestie da una giovane ricercatrice. Badate bene: Pandolfi non ha negato le attenzioni ma ha parlato di «uno scambio romantico che si è protratto per due, tre mesi». Che sia stato romantico ovviamente l’ha deciso, unilateralmente, lui. Chiaro.

Il Vimm di Padova (l’istituto veneto di medicina molecolare) decide di assumere Pandolfi ma il comitato scientifico dell’istituto decide di dimettersi in massa. Nessun riferimento alle molestie, ma chiedono di annullare la nomina per “evitare un grande scandalo” che potrebbe causare “un grave danno alla reputazione del Vimm ma anche dell’Università di Padova”.

Intanto Pandolfi parla di “sbandata romantica”, dice di essersi sbagliato e si scusa. L’immunologa Antonella Viola decide di prendere carta e penna e di scrivere al Corriere della Sera una lettera di grande coraggio perché c’è dentro un pezzo di vita, forte come sono forti tutte le esperienze autentiche. Scrive Antonella Viola:

«In una società civile un datore di lavoro non può concedersi una ‘sbandata’ per una dipendente e tempestarla di messaggi, seppur di natura romantica. Sembra incredibile doverlo spiegare, ma a quanto pare c’è chi è interessato a derubricare le molestie sessuali in sogno romantico non corrisposto. Proviamo quindi a immaginare come si possa sentire una giovane donna, fresca di studi, piena di entusiasmo per la ricerca, disposta a lasciare il suo Paese e i suoi affetti per inseguire il sogno della scienza in uno dei migliori laboratori al mondo, che comincia a ricevere le sgradite attenzioni sessuali da parte del suo capo. Non riuscite a immedesimarvi? Ve lo racconto io.
Prima di tutto parte un profondo senso di umiliazione per essere ridotta a uno stereotipo sessuale dalla persona a cui avevi affidato la tua crescita professionale. Il tuo mentore è colui al quale ti affidi completamente e il suo giudizio è la cosa più importante al mondo: lui ti sta dicendo che ti vede come una preda, non vede altro. Immediatamente dopo scatta la paura: tranne pochi casi di uomini davvero fisicamente molesti o pericolosi, la paura che ti assale non riguarda il tuo corpo ma il tuo futuro. Il pensiero ovvio in questi casi è: cosa sarà di me se dico di no? Sono libera di rifiutare le sue attenzioni? Come cambieranno da questo momento i nostri rapporti? Mi manderà via dal laboratorio? Mi affiderà un progetto scadente? Finisce qui la mia carriera? E sì, molte carriere finiscono proprio lì…
A volte perché il molestatore inizia a ricattare la vittima, altre perché davvero da quel momento la estromette dall’attività del laboratorio, o a volte perché il trauma subito è troppo forte per riprendersi e ritrovare l’entusiasmo necessario per fare il nostro lavoro. È un altro dei grandi problemi che noi donne affrontiamo e che minano regolarmente la nostra produttività e carriera.
Chi non l’ha vissuto non può immaginare il dolore, la vergogna, la paura, le notti insonni e le lacrime versate mentre ci si sente paralizzate e incapaci di trovare una via d’uscita. Non lo auguro a nessuno e, nel ruolo che adesso ho nella ricerca italiana, farò sempre di tutto per evitare che altre donne possano vivere una situazione così dolorosa. Non so come la ricercatrice in questione ne verrà fuori. Io ne sono uscita andando via, lasciando il laboratorio per ricominciare altrove, aggrappandomi a quella che per me non è mai stata una sbandata ma un vero amore: la scienza fatta di passione, integrità e rispetto delle regole».

Ed è una lezione limpida, cristallina di cui essere grati.

Buon martedì.

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Gli stra-ordinari pazienti di Gallera

Il magico mondo della Sanità privata visto con gli occhi dell’assessore al Welfare con delega alla Sanità della regione più devastata dalla pandemia

«Gli ospedali sono stati sommersi da pazienti Covid e il privato ha aperto le sale di terapie intensive e le loro stanze lussuose a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico. Il nostro compito è mantenere questo equilibrio». Sono le parole dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, uno che ogni volta che parla riesce a mostrarsi perfettamente per quello che è e per quello che pensa. In fondo è una fortuna avere politici così: non c’è nemmeno bisogno di grattare la superficie per trovarci già tutto bell’e pronto.

Nella frase c’è tutto, basta avere voglia di analizzare con calma.

Ci sono i lussuosi ospedali privati. Gente che riesce con soldi pubblici a puntare all’esclusività come caratteristica. Ora alzi la mano chi si sente rassicurato dall’abitare in una regione in cui la sua eventuale malattia ha la possibilità di svolgersi nel lusso, come se gli ospedali siano resort da giudicare per i servizi annessi e connessi in un Paese (e in una regione) in cui ci si mette mesi a accedere a esami specialistiche con lunghissime liste d’attesa. Eccola la sanità lombarda, il modello di cui tutti ci parlano da decenni: ospedali lussuosi pagati con soldi pubblici che tolgono denaro e energie agli ospedali pubblici che annaspano. Glorificare un ospedale perché lussuoso è un po’ come magnificare un salame perché è veloce oppure lodare un architetto perché cucina ottimi tortellini. Una cosa così.

Poi ci sono i pazienti ordinari. E siccome l’italiano non è un’opinione quella frase ci dice che ci sono anche pazienti straordinari, inevitabilmente. Non si sfugge. Che esistano pazienti di serie a e di serie b in una regione che ha trasformato la cura in un business è cosa risaputa. Non si tratta solo di chi può permettersi la sanità (così come la scuola) privata alla faccia di chi deve affidarsi al servizio pubblico che ogni tanto non c’è: si tratta di avere l’accidente giusto, in sostanza avere la fortuna che la propria malattia possa interessare a livello di fatturato e quindi si diventa improvvisamente ottimi clienti. Perché è tutto un enorme supermercato dei malati, pagato con i soldi di tutti, in cui guadagnano in pochi.

Complimenti per la sincerità, Gallera.

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Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada è una filantropa e saggista italiana, ex presidente di Emergency e figlia dei fondatori Teresa Sarti Strada e Gino Strada. La guerra la conosce perché l’ha vissuta da sempre in prima persona. L’abbiamo intervistata per TPI.
Cecilia Strada, alla fine l’Italia ha deciso di vendere armi all’Egitto. Come la vede?
Molto molto molto molto male. Sposo in toto la richiesta di Amnesty e di Rete Disarmo che chiedono almeno che se ne parli in parlamento. È una cosa contraria agli interessi dei cittadini italiani, qui si tratta di essere furbi non semplicemente disarmisti. C’è la legge 185/90 che dice che non si vendono armi a chi ha interessi contrari all’Italia e questo è il caso dell’Egitto, poiché in Libia non sostengono la stessa parte in causa: è una cosa poco furba oltre che poco etica. Vendere armi significa sostenere quello che l’Egitto sta facendo al suo interno (torture, ragazzi scomparsi, ammazzati, studenti come Regeni e Zaky). La legge dice che non potresti vendergli armi salvo diversa delibera del Consiglio dei ministri sentite le Camere, quantomeno che se ne parli in parlamento, è la legge, non è un sogno da pacifista. Gli interessi dell’Italia sono maggiori degli interessi delle fabbriche d’armi.

Di Maio ha definito l’Egitto un “partner imprescindibile”…
Partner imprescindibile su cosa? E poi bisogna decidere quali sono gli standard, chiediamo ai nostri partner il rispetto dei diritti umani? C’è un ragazzo italiano morto, le autorità hanno ostacolato le indagini, ridurre tutto al fattore economico è miope, non si fa l’interesse del proprio Paese.
Il pacifismo è sparito dall’agenda politica?
Il pacifismo non occupa spazio se non quando viene usato per dare del sognatore a qualcun altro. Il pacifismo è la non violenza, è riflettere sul modo in cui stiamo insieme, cercare il modo di evitare i conflitti, immaginare delle società alternative. Questo non c’è mai stato ed è un peccato. Sono comunque soldi, si dice, servono per l’economia italiana, ma se si investe nel civile il ritorno è maggiore rispetto al militare: se l’obbiettivo è creare posti di lavoro allora si investano fondi nel civile, come nelle energie alternative, l’investimento dà più posti di lavoro dell’industria bellica.

Intanto rimane in piedi la questione libica e continuano gli sbarchi…
Il Covid faceva paura e non c’era bisogno di inventarsi il nemico, Ong o migrante. Però gli sbarchi sono continuati, in numeri piccoli – poco più di 3mila persone da gennaio a oggi – ma ci sono stati, come anche le segnalazioni di naufragi difficilissimi da verificare perché non ci sono navi in mare che possano testimoniare, ci sono diversi casi di omissione di soccorso e almeno una strage a Pasquetta di una nave lasciata alla deriva con 12 persone morte dopo 5 giorni che chiedevano aiuto. Altri casi di cui non si saprà niente. Ora Mediterranea è tornata in mare, Sea Watch è ripartita poche ore prima con imponenti misure di sicurezza.
L’immigrazione tornerà a essere tema di scontro politico?
Dipende da quanto i politici sentiranno il bisogno di strumentalizzare facendo politica sulla pelle della gente. Io sto ancora aspettando la discontinuità promessa da questo governo, io ero in mezzo al mare sulla Mare Jonio di Mediterranea quando si insediò questo governo. I decreti sicurezza sono ancora lì. Non permetteremmo mai che dei bambini bianchi rimanessero su una nave dopo essere stati torturati, violentati e tenuti prigionieri. Discontinuità vuol dire stracciare gli accordi con la Libia: c’è una gravissima violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, delle leggi, della Costituzione. I lager andrebbero evacuati e il sistema smantellato e bisognerebbe aprire canali d’accesso sicuri e legali sconfiggere il traffico di uomini. Tra l’altro non va bene che il soccorso in mare non venga fatto dagli Stati ma dalle Ong, non è normale.

Però in Parlamento alcuni si sono inginocchiati
Su questo ci penso da qualche giorno. I nostri parlamentari sanno chi è George Floyd, benissimo. Ma cosa sanno di Soumayla Sacko? Cosa sanno delle vittime del razzismo qui? Le vittime del nostro razzismo sistemico qualcuno le conosce? Possiamo interessarci a questo? Se sentiamo questo problema sollevato negli Usa allora dobbiamo guardarci intorno: i neri sono quelli nel Mediterraneo e quelli schiavi delle mafie nei campi a disposizione della grande distribuzione. Altrimenti inginocchiarsi servirà a poco.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni /2. Regeni, Di Maio risponde alle accuse: “La vendita delle armi all’Egitto non è conclusa” /3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia

4. “Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego /5. Torino, aggredita a 15 anni sul bus perché nera: “Il razzismo c’è anche in Italia”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

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L’inverno del nostro scontento è un presepe di congelati

Erano cinque. Quasi sei, con una donna incinta.

Li hanno ritrovati sul colle della Scala, il passaggio che congiunge la Val di Susa in Piemonte con la Val della Clarée. Per loro cinque (e per molti altri) è semplicemente l’unica via per passare dal Piemonte alla Francia e poi sperare di poter proseguire sempre più a nord. Quando li hanno individuati nel buio e nel freddo delle cinque e venti del mattino due di loro erano mezzi congelati, uno aveva perso le scarpe in mezzo alla neve alta, un altro aveva perso i guanti.

Alla centrale del soccorso alpino di Bardonecchia arrivano segnalazioni tutti i giorni: i migranti provano a passare da quel canale per superare i controlli. Dopo avere rischiato di riempirsi i polmoni di acqua e sale non si fermano certo per la paura di finire surgelati.

Ogni volta che si ripescano disperati che si arrampicano su vette così alte di disperazione bisognerebbe mettere la loro storia sotto teca per riuscire a dare il senso della paura, della fuga, del loro sparpagliarsi negli anfratti più nascosti di questa Europa per scovare un pertugio.

Quei cinque migranti surgelati sono l’inverno europeo del nostro scontento che si inerpica tra le valli e, se muore, si lascia cadere dove non lo trova nessuno. Eppure quei cinque, se ci pensate, sono talmente diversi dall’immigrazione selvaggia che viene sventolata per concimare terrore e diffidenza.

Se si trovassero le parole per scrivere di una donna gravida che dopo il mare decide di attraversare anche la neve pur di partorire con uno spiraglio minimo di possibilità allora sarebbe già pronto il presepe laico di quest’epoca. Surgelato.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/12/linverno-del-nostro-scontento-e-un-presepe-di-congelati/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)