Vai al contenuto

operazione aemilia

”Delrio sottovalutò i cutresi”: parola di Libera (eh)

Attenzione: non riporto l’articolo perché consideri Libera l’unica depositaria dell’antimafia doc (pur volendole bene senza venerarla), ma perché la presa di posizione di un’associazione solitamente “tiepida” con il PD sottolinea ancora di più, se ce ne fosse bisogno, come Delrio non possa non accettare una forte critica “politica” alla sua disattenzione (nella più ottimista delle ipotesi che è quello che vogliamo credere). E mi spiace che si sia talmente spazientito per un mio articolo su LEFT da alzare il telefono in mezzo ai suoi molti impegni piuttosto che accendere una sana autocritica che apra un dibattito costruttivo:

renzi-delrioQuanto emerge dall’inchiesta Aemilia sulla presenza della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna porta in dote “nulla di penalmente rilevante” a carico di Graziano Delrio, ex sindaco di Reggio Emilia e oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ma “sicuramente c’è stata una sottovalutazione” della situazione da parte di Delrio. E’ questo il giudizio di Libera, che oggi a Bologna ha presentato il dossier 2014-2015 sulla presenza delle mafie in Emilia-Romagna.

Un documento corposo, che dedica una parte all’inchiesta Aemilia con una sintesi dell’ordinanza della Dda di Bologna. E, in quelle pagine, un capitolo è destinato proprio a Delrio e ai suoi rapporti con la comunità cutrese di Reggio Emilia. “Non c’è nulla di penalmente rilevante – afferma il giornalista Lorenzo Frigerio, di Libera informazione – ma sicuramente Delrio ha sottovalutato la situazione”. E, aggiunge Frigerio, “se anche un politico impegnato per la legalità come Delrio è stato vittima inconsapevole delle cosche, significa che molta strada deve essere ancora percorsa dalla politica” emiliana per capire “la minaccia rappresentata dalle mafie”.

Nel dossier di Libera si ripercorre il coinvolgimento dell’ex sindaco in quelle vicende: dall’ormai famosa presenza alla processione di Cutro in piena campagna elettorale all’appuntamento chiesto da Delrio all’allora prefetto De Miro sulle interdittive antimafia, a cui l’ex sindaco andò accompagnato da alcuni esponenti cutresi. “Contro la prefettura – sottolinea Frigerio – le cosche scatenarono un tritacarne mediatico, strumentalizzando la comunità calabrese di Reggio Emilia, e Delrio ci finì dentro”, nel tentativo di “comporre esigenze diverse” come i provvedimenti antimafia della prefettura e gli imprenditori calabresi che si lamentavano.

Beni sequestrati. Nel rapporto di Libera si fotografa la permeabilità dell’Emilia-Romagna attraverso alcuni numeri significativi. Tra l’agosto 2013 e il luglio 2014 sono stati sequestrati alle mafie 448 beni, per un valore di 21 milioni di euro: dati che fanno dell’Emilia-Romagna la prima del nord Italia. E poi c’è il capitolo del narcotraffico: cinque operazioni al giorno,col sequestro di 817 chili di sostanze stupefacenti e la denuncia di 2.718 persone. “In Emilia-Romagna c’è’ un giro importante di droga, legato a gruppo mafiosi pericolosi”, segnala Santo Della Volpe, presidente di Libera
informazione e numero uno della Fnsi.

Ci sono poi i cosiddetti “reati spia”, dietro cui spesso si celano le attività dei clan. Ad esempio, nel 2013 in Emilia-Romagna sono state 312 le denunce per estorsione, in aumento negli ultimi due anni, 399 i danneggiamenti (spesso per incendio) e almeno una cinquantina le segnalazioni di usura. Tra i reati spia rientrano anche gli illeciti nello smaltimento dei rifiuti (837) e nel ciclo del cemento (142).

(fonte)

La patetica risposta della regione Emilia Romagna all’operazione antimafia Aemilia

Conferenza-stampa-operazione-Aemilia-426x240Che fossero nervosi in fondo ne avevamo già avuto sensazione nella redazione di Left quando qualche Sottosegretario ha telefonato con (stonata) premura per difendersi dallo speciale che abbiamo pubblicato qualche numero fa ma le parole dell’assessore alla legalità Mezzetti (riportate oggi da Repubblica qui) direi che rientrino perfettamente nei luoghi comuni delle reazioni sbagliate:

“Le opinioni – ribatte Mezzetti – le lascerei a chi fa politica. Dalla relazione di un organo giudiziario mi aspetto meno opinioni e più descrizione dei fatti”. Certo, ammette l’assessore, “superficialità e leggerezza ci sono state ma da parte di tutti. E il primo problema non lo abbiamo nelle istituzioni politiche. Io non vedo intrecci pervasivi tra mafia e politica in questa regione. Sulle 1.377 pagine dell’ordinanza di Aemilia solo 33 sono dedicate a questo argomento e si parla solo di quattro personaggi”. Quindi, sottolinea ancora Mezzetti, “non mi sembra che si possa dire che siamo una terra di mafia dove le menti sono state corrotte”.

Insomma continuiamo ad avere assessori che scambiano i fini dell’antimafia e della legalità per i doveri della buona pubblicità di una pro loco e poi ci stupiamo della leggerezza con cui si organizzano i viaggi a Cutro.

In Emilia il grande onore di ricevere il boss

Roberta Tattini
Roberta Tattini

Nel suo personale e presunto gioco di mafia, che di virtuale non sembra avere un granché, era previsto che Roberta si esaltasse fino alla pelle d’oca nel vedere il boss cutrese Nicolino Grande Aracri fare irruzione a sorpresa nel suo ufficio bolognese di consulente finanziaria («Il sanguinario! Un grande onore perché lui non va…, anche per ragioni di sicurezza…» dice intercettata al telefono con voce rotta dall’emozione). O che prendesse lezioni di arma da fuoco da un altro pezzo grosso della cosca che spadroneggiava in Emilia, Antonio Gualtieri («Quando ti capita di sparare a qualcuno – le dice il boss nell’insolita veste di istruttore -, spara così…»; e Roberta, che frequenta il poligono di tiro: «Però dà un contraccolpo notevole…»).

E perché mai stupirsi, allora, anzi la cosa sembra procurarle brividi proibiti, se un giorno dell’aprile 2012 uno dei fratelli del grande capo Nicolino Grande Aracri, l’avvocato Domenico, sale con lei in auto con un gingillo vagamente inquietante, «… m’hanno portato il detonatore C4 dietro in macchina…», roba utilizzata per gli esplosivi? Il «War game» della consulente finanziaria bolognese Roberta Tattini, 42 anni, è finito in una gelida alba di qualche giorno fa quando, arrestata nella maxi retata di fine gennaio che ha scoperchiato le mille ramificazioni di una ‘ndrangheta a lungo sottovalutata in Emilia, è finita in carcere con l’accusa di concorso in associazione mafiosa.

Tipetto particolare, questa signora brillante, affascinante e spregiudicata, ma terribilmente chiacchierona e di un’ingenuità che lascia allibiti. Dalle sue intercettazioni, gli inquirenti della Dda di Bologna hanno attinto più informazioni che in un confessionale. Un vulcano, Roberta. Al marito Fulvio Stefanelli (indagato), che la invita «a stare attenta», lei replica entusiasta: «Ma ragazzi! Domani è un affare che guadagno un milione di euro!!». E al vecchio padre, pure lui preoccupato, risponde in gergo bolognese: «Oh ragazzuoli, funziona così!!». E come funzionassero le cose, pareva saperlo bene Roberta, stando al quadro che fanno di lei gli inquirenti. «Pur senza farne parte – scrivono -, la consulente bolognese ha contribuito alla realizzazione degli scopi dell’organizzazione mafiosa, mettendosi a completa disposizione di Antonio Gualtieri (cutrese, 51 anni, uno dei capi tra Reggio e Piacenza in stretti legami con la casa madre di Cutro, ndr.), fornendo consulenze e partecipando anche in loro vece ad incontri di gestione di affari del sodalizio in Emilia, Lombardia e Veneto nella totale consapevolezza di dare un apporto a un gruppo organizzato appartenente alla ‘ndrangheta».

Ma è la carica emotiva che impressiona. Come se quel mondo popolato di boss dal curriculum truce e da riti tribali innervati da logiche criminali avesse su di lei l’effetto di una droga. Parla e si muove come in una fiction. Al padre che le chiede con chi abbia a che fare, risponde di getto: «E’ il numero 2 della Calabria, della ’ndrangheta… Comanda tutto a Reggio… Sono imprenditori che rappresentano 140 aziende, no, non droga, sono diversi, però lo sgarro a loro non si fa…».

Adesso rischia grosso, Roberta. Il suo avvocato, Girolamo Mancino, si augura che «la sua posizione possa ridimensionarsi». E cercherà di far passare la linea difensiva della non partecipazione della signora alle logiche del clan («Ha solo seguito alcune pratiche dal punto di vista professionale»). La stessa Roberta, d’altronde, era consapevole della situazione. Con i suoi sodali in affari era stata chiara: «Ricordatevi bene, visto che siete uomini d’onore! Perché ho paura che con il mio sto dentro vent’anni… Io voglio i vostri avvocati, però mi tirate fuori, ebbè, è il minimo…».

(clic)

Soldi a forma di case, in un momento in cui nessuno compra case

In Emilia la ‘ndrangheta faceva soldi con il mattone, investendo nei cantieri denaro proveniente dagli affari illeciti delle cosche. È aSorbolo, paese parmense a una manciata di chilometri da Brescello, che secondo gli investigatori la “lunga mano” del boss Nicolino Grande Aracri aveva trovato una fonte di guadagno nel mercato immobiliare, con una rete di società che negli ultimi anni ha realizzato palazzi e condomini per un valore di circa 20 milioni di euro. L’obiettivo era produrre ricchezza per poi rimandare i proventi delle operazioni alla casa madre. I soldi viaggiavano da sud a nord e viceversa grazie all’aiuto di autisti compiacenti sugli autobus di linea nelle tratte dalla Calabria all’Emilia. Come si legge negli atti dell’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna che il 28 gennaio ha portato all’arresto di 117 affiliati alla ‘ndrangheta, nell’“affare Sorbolo” il modello imprenditoriale seguito era quello emiliano, ma le modalità riproponevano “l’imprinting mafioso”, con l’imposizione di subappalti a ditte vicine alla ‘ndrangheta e di uomini e materiali con cui lavorare.

Tra via Genova e via Marmolada, nel quartiere che mercoledì mattina è stato svegliato dal rumore degli elicotteri e dai fari puntati delle forze dell’ordine, ora una quarantina di appartamenti è sotto sequestro. Le persone che abitano da anni nella zona dicono che si sapeva da tempo che la ‘ndrangheta faceva affari in paese: “Colpa dello Stato, di chi ha dato i permessi, di chi non ha vigilato su queste persone”. Il sindaco Nicola Cesari, da otto mesi alla guida del Comune, ha rassicurato i suoi abitanti e si dice pronto a “collaborare con la giustizia, a vigilare insieme alla comunità per contrastare in futuro qualsiasi forma di illegalità”, ma intanto in pochi hanno voglia di parlare della vicenda: “Non dico nulla, non vorrei che poi mi accoppassero”, mormora un uomo guardando le case sequestrate.

Secondo l’accusa, l’affare fruttava a Grande Aracri 30-40mila euro al mese. E i soldi viaggiavano tra la Calabria e l’Emilia sui bus di linea

Secondo gli inquirenti, a foraggiare i cantieri nell’area ai margini del paese con i soldi dei cutresi era Romolo Villirillo, emissario di Grande Aracri in Emilia, che dall’affare Sorbolo riusciva a fruttare dai 30mila ai 40mila euro al mese. Il sodalizio ruotava intorno al nome di Francesco Falbo, imprenditore sorbolese originario di Cutro che nel 2007 entra in contatto con i fratelli Giulio e Giuseppe Giglio, tutti coinvolti nell’inchiesta. In quel periodo l’imprenditore ha acquistato un lotto di terra per 800mila euro e i due gli si propongono come soci per offrirgli liquidità per cominciare i lavori. Con loro arrivano anche Giuseppe Pallone e Salvatore Cappa, presentato come “socio occulto”, colui che “mette il nero nell’affare”, e Salvatore Gerace, con la funzione di “cassiere” per il gruppo, che nelle amministrative del 2012 aveva tentato la scalata del Comune di Parma come candidato consigliere nelle file dell’Udc dopo un passato da consigliere di quartiere in città. Aurora Building, K1, Gea Immobiliare, Tanya Costruzioni Srl, Medea Immobiliare Srl, Pilotta Srl, Azzurra Immobiliare e Sorbolo Costruzioni sono le società edili con sede tra Sorbolo, Parma e Reggiolo con cui, ricostruiscono gli investigatori, la ‘ndrangheta porta avanti fino all’inizio del 2014 le operazioni immobiliari attraverso soci e prestanome.

Di Sorbolo si interessano anche elementi considerati di spicco nelle cosche emiliane, tra cui Alfonso Diletto, Michele Bolognino e Nicola e Gianluigi Sarcone. Lo stesso boss Nicolino Grande Aracri se ne occupa personalmente grazie al tramite dei suoi affiliati che fanno la spola dall’Emilia a Cutro e Isola di Capo Rizzuto tra riunioni e movimenti di denaro. È proprio la provenienza dei finanziamenti che a un certo punto comincia a destare dei sospetti in Falbo, che rifiuta gli assegni provenienti da Cappa: “Ascolta, a me gli assegni di Cutro per favore, giri strani io non li voglio, ‘sti assegni te li riprendi e mi dai gli assegni come si deve! Ma non so neanche di chi sono!”. L’uomo però subisce le decisioni dei soci: è costretto a pagare una mazzetta di 100mila euro come percentuale per gli appalti ottenuti con le sue imprese e gli vengono imposti mezzi e uomini attraverso Giglio:“Giglio diceva: ‘Allora l’intonaco lo fa lui, la ghiaia la portiamo noi, il materiale te lo compriamo noi’”. A Falbo viene ordinato di assumere due operai affiliati alle cosche con un passato di atti malavitosi, e di affidare gli appalti a imprese “amiche”, ingaggiando per esempio degli imbianchini a un compenso più alto di quello che avrebbe fatto con la sua stessa ditta. In cantiere arriva anche materiale di dubbia provenienza: gru, gasolio “scontato al 30 per cento”, ma anche porte e piastrelle, e perfino camion di ghiaia scadente, mista a terra, tanto che il geometra di Falbo li rimanda indietro. “Il mio geometra li mandava via – racconta l’imprenditore ai pm – ma arrivava la telefonata di Giglio, fai scaricare i camion, la ghiaia così com’è va bene… E in effetti dopo abbiamo avuto dei problemi sulla strada, abbiamo dovuto fare dei rappezzi”.

Quando Falbo si ribella a queste imposizioni, nei suoi confronti cominciano le minacce, fino al recapito di una busta con quattro proiettili: “Guarda che noi le cose le risolviamo alla calabrese, non pensare che tu te le risolvi alla parmigiana! Stai attento a quello che fai!”, e ancora: “C’abbiamo tutti delle famiglie! Attenzione!”. Con la crisi del mercato immobiliare la situazione precipita e Falbo, tra continue intimidazioni, viene estromesso dalla gestione delle società ed è costretto a dimettersi dai suoi incarichi, a cedere quote per 7 milioni di euro e un terreno dal valore di 850mila euro, fino a quando le sue ditte non vengono dichiarate fallite. Quando si decide a denunciare la situazione, per lui comincia l’isolamento, diventa “l’infame che collabora con la giustizia”, anche se per i pm l’imprenditore, coinvolto nell’indagine, non è sprovveduto e vanta appoggi nella consorteria criminale, come la conoscenza dei Sarcone, a cui si rivolge per farsi aiutare nel braccio di ferro con i suoi soci. La sua posizione è da chiarire, anche se per ora risulta non avere avuto vantaggi, ma soltanto perdite dall’operazione.

(fonte)

Operazione Aemilia: mentre la mafia mafiava dove guardava il PD?

“Solo tre mesi fa, in direzione regionale del Pd, dissi chiaramente: io ho contrastato la ‘ndrangheta e voi mi state escludendo da tutto. Nonostante le consultazioni dei circoli, non sono entrata nella lista per le elezioni regionali, e così voi fate fuori una persona che ha contrastato la criminalità organizzata. Ma quando ci sono persone oggetto di pressioni di questa natura non bisogna lasciarle sole, perché significa metterle in pericolo. Voi in questo modo date un segnale alla ‘ndrangheta che ho combattuto. Queste parole oggi le riconfermerei tutte, anche se Stefano Bonaccini sembrò allora molto infastidito dal mio discorso e cercò pure di interrompermi. Ma io sono andata avanti. Perché questa è una cosa che i mafiosi hanno capito e l’ha capito anche la magistratura”.

Sonia Masini era presidente della Provincia di Reggio Emilia e nella maxinchiesta sulle infiltrazioni della criminalità organizzata in Emilia il suo nome è quello di una persona nel mirino degli indagati. Nelle intercettazioni degli investigatori si trova che Giuseppe Pagliani, allora capogruppo del Pdl in Provincia, ora agli arresti, avrebbe voluto riservarle “una “curetta” come dio comanda”. E lei, politica classe 1953, un cursus honorum che la vede anche capogruppo Ds in Regione dal 1995 al 2000, quelle pressioni le aveva avvertite, eccome. Ma, denunciò allora e ribadisce oggi, “io sono stata lasciata sola nel mio partito o con pochissime persone intorno”.

“Io avrei chiamato l’Antimafia”. Il suo intervento in direzione regionale venne accolto da reazioni gelide, come riportò all’epoca anche Roberto Balzani, sfidante di Bonaccini alle primarie. “Masini ha lanciato un’accusa pesante ai vertici del partito e sa cos’è successo? – raccontava Balzani in un’intervista – nulla. Io al posto di Bonaccini avrei subito chiamato il procuratore nazionale antimafia”. Gli investigatori però erano già al lavoro, mentre Masini veniva circondata da quella che oggi definisce “un’atmosfera di sufficienza verso le mie denunce, come se io volessi a tutti i costi una poltrona che avevo già occupato anche per troppo tempo, come se fossi semplicemente stizzita per non essere stata ricandidata per l’ennesima volta”. Molti dirigenti allora sbuffarono, liquidando quell’intervento come una protesta sopra le righe per esser rimasta fuori prima dalla lista per le elezioni europee e poi da quella regionale.

“Attaccata e non difesa dal partito”. “Io in questi anni nel Pd sono stata molto attaccata e poco difesa – si sfoga adesso – le lotte interne al Pd di Reggio avevano creato una competizione forsennata e io in quel momento non avevo abbastanza potenti a proteggermi, o forse anche qualcuno contro”. Ma la realtà che Masini si trovava a fronteggiare era quella durissima delineata nell’inchiesta. “Cercavo di spiegare al Pd: guardate che sono sotto pressione, come presidente della Provincia c’è una ditta che mi ha chiesto 15 milioni di danni. Sono comportamenti che possono intimidire un amministratore. Ma non importava niente a nessuno, veniva prima la lotta per il potere”. Un potere che lei non ha più: “Non ho lasciato il partito, ma non ho incarichi e non mi invitano quasi più neanche alle riunioni”.

E la Masini scrive a Renzi. Delusa dai vertici locali, Masini si rivolge direttamente al segretario nazionale Matteo Renzi, che già ha dimostrato sensibilità ed attenzione, nel caso della denuncia del sindaco anticemento di San Lazzaro Isabella Conti. “Ora io Renzi sicuramente lo informerò  dice Masini  e chiederò anche conto del fatto che sono stata tolta dalle liste per le europee. Quando la lista è arrivata a Roma, il mio nome c’era, poi è stato tolto”.

“Fenomeno mafioso sottovalutato”. Secondo Masini, alla base di tutto c’è una sottovalutazione del fenomeno mafioso in Emilia: “All’inizio non lo conoscevamo e l’abbiamo sottovalutato, ma dal 2010 qualcosa è cambiato. Abbiamo cominciato ad assistere ai roghi notturni, una tecnica di intimidazione fin lì mai vista, fino a che ora abbiamo tutte le informazioni, i nomi e gli indirizzi. E non abbiamo più scuse. Per me è stato un dolore continuo, perché io amo visceralmente la mia terra, i nostri servizi, il nostro modello”. Un modello che Masini dice di aver tentato di difendere. “Io il mio dovere l’ho fatto, e quando ho dovuto revocare un appalto perché era arrivata l’interdittiva antimafia, l’ho fatto anche se ho dovuto combattere, pure dentro al Pd  chiosa  ma è troppo facile fare i comunicati stampa dopo. Bisogna aiutare prima, quando c’è bisogno di prove, e invece si incontrano solo omertà e ricerca di interessi personali. Almeno avessero riflettuto sul perché a Reggio, alle ultime regionali, ha votato solo il 35% degli elettori…”.

(clic)

Il poliziotto (autista del questore) che andava a braccetto con la ‘ndrangheta in Aemilia

Attenzione a credere che tutto sia bianco o nero, che ci siano i sicuramente buoni e i sicuramente cattivi, che ci siano le mafia da una parte e lo Stato dall’altra senza avere la capacità di ricordarsi sempre che la forza delle mafie sta negli “amici” dentro le istituzioni:

imageE’ accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e di accesso abusivo alle banche dati della polizia. E di minacce a una giornalista, Sabrina Pignedoli del Resto del Carlino. Minacce perché non venisse scritto nulla a proposito delle vicende che squassarono un anno fa la politica reggiana: le elezioni amministrative per la scelta del sindaco e, ancora prima, le tormentate primarie del centrosinistra per scegliere il candidato sindaco.

Il suo nome, tra quelli che all’alba sono finiti in manette è legato a filo doppio alle ultime vicende politiche cittadine. Vicende che hanno coinvolto sia il centrodestra, sia il centrosinistra. Domenico Mesiano, dopo anni passati alle dipendenze del questore, come autista e fact-totum, da circa un anno era stato trasferito.

Il suo nome spunta per la prima volta nero su bianco su una lettera anonima. E’ quella che, a meno di una settimana dal voto per le amministrative arriva ai giornali: parla delle parentele del candidato sindaco Luca Vecchi e in particolare di sua moglie, l’allora dirigente comunale Maria Sergio.

La ricostruzione delle parentele acquisite di Vecchi arriva fino ai cugini di terzo e quarto grado della moglie. E tra queste parentele c’è anche quella del poliziotto Mesiano che, secondo l’anonimo, era colui che alla vigilia delle primarie del centrosinistra per la scelta del candidato sindaco, telefonò – da un ufficio della questura – a un referente della comunità albanese. Per dire di votare Vecchi.

La reazione del candidato sindaco Vecchi fu durissima: negò di aver mai conosciuto o avuto contatti con Mesiano e soprattutto, andò in procura a sporgere denuncia contro ignoti.

In realtà però – lo si scoprirà soltanto più avanti – il nome di Mesiano era già spuntato in altre carte, sia pure assai più riservate di quella lettera del corvo. Il nome del poliziotto figurerebbe anche tra quelli dei commensali della famosa cena, in un ristorante di Montecchio, a cui avrebbero preso parte pregiudicati e imprenditori cutresi, assieme al consigliere comunale Giuseppe Pagliani, finito anch’egli in manette nell’operazione Aemilia.

Massoneria, Vaticano e Cassazione: quanti amici ha il boss Nicolino Grande Aracri

nicolinoMassoneriaVaticano e Cassazione. Il boss Nicolino Grande Aracri riusciva ad aprire porte che la ‘ndrangheta di Cutro, paese in provincia di Crotone, neanche immaginava. Quanto scritto nel decreto di fermo emesso dalla Direzione distrettuale di Catanzaro lascia intendere che i 46 arresti di ieri, nell’ambito dell’inchiesta “Aemilia” che in Emilia Romagna ha portato in carcere altre 117 persone, sono solo l’inizio di un’indagine che rischia di svelare retroscena impensabili per chi crede che le cosche mafiose siano solo un’accozzaglia di uomini con la coppola e la lupara.

Non è un caso, infatti, che quando è stato arrestato Nicolino Grande Aracri, il cui clan è egemone anche in Emilia, i carabinieri hanno sequestrato anche una spada simbolo dei cavalieri di Malta. La Procura ha messo le manette ai polsi anche a un noto imprenditore di legnami, Salvatore Scarpino detto “Turuzzo”, affiliato alla ‘ndrangheta ma soprattuto, secondo i magistrati, si tratta di un uomo che “per conto della consorteria cutrese si impegna in operazioni finanziarie e bancarie, e mantiene contatti diretti e frequenti con il capo locale Grande Aracri Nicolino”, ponendosi “da intermediario tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati”.

È lo stesso Scaprino che, intercettato, spiega l’importanza del rapporto tra boss e massoni: “Ho un problema, per esempio, lo vedi per esempio ho un problema su Roma, qualsiasi tipo di problema… Gli dico io ho questo problema. Loro hanno il dovere … siccome è una massoneria, siamo. Cioè uno, quando uno di noi ha un problema, si devono mettere a disposizione… E devono risolverlo il problema”. Ecco perché – scrivono i magistrati – “le indagini hanno portato alla luce un allarmante aspetto relativo al livello di relazioni, sociali ed istituzionali, che l’organizzazione criminale è in grado di tessere per le necessità ed i fini della stessa”.

In sostanza, grazie alla massoneria, alcuni soggetti pur se non affiliati alla ‘ndrangheta sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire, – è scritto nel provvedimento di fermo – “’pressioni’ e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.

Il troncone calabrese dell’inchiesta “Aemilia”, infatti, ha svelato la capacità del boss Nicolino Grande Aracri di muoversi con facilità nei corridoi del Vaticano e, addirittura, di arrivare fin dentro le stanze della Suprema Corte di Cassazione.

Secondo la Procura, infatti, la cosca di Cutro ha cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto per Giovanni Abramo, cognato del boss Grande Aracri. Quella sentenza è stata annullata con rinvio dalla Cassazione ma la Dda non è riuscita ad accertare il coinvolgimento di un magistrato. È stato arrestato però, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Benedetto Stranieri, un ex maresciallo dei carabinieri diventato avvocato, il quale avrebbe avvicinato “soggetti – scrivono i pm – gravitanti in ambienti giudiziari della Corte di Cassazione, anche remunerandoli, al fine di ottenere decisioni giudiziarie favorevoli ad Abramo Giovanni”.

Qualcosa si inceppa e i telefoni iniziano a fornire elementi utili agli inquirenti che sospettano ci sia stato quantomeno un tentativo di corruzione. Dopo la sentenza favorevole, infatti, la cosca non avrebbe ricompensato gli avvocati Benedetto e Lucia Stranieri. Proprio quest’ultima, intercettata, si sfoga con il fratello: “Io ho fatto figure di merda con l’avvocato di là… figure di merda con questo qua… figure di merda con il giudice perché ho detto che è parente mio”.

Dai contatti di alcuni esponenti del sodalizio, inoltre, è emersa la figura di tale Grazia Veloce, una giornalista residente a Pomezia, “soggetto asseritamente molto vicino a personalità di rilievo del Vaticano e della politica italiana”. È lei che presenta l’avvocato Stranieri al boss Nicolino Grande Aracri il quale, nel corso di una conversazione, vantava i suoi buoni contatti nella capitale: “Noi a Roma abbiamo buone… buone amicizie… buone strade”.

Una di queste porta in Vaticano ed è stata intrapresa dalla cosca di Cutro per tentare di far trasferire sempre Giovanni Abramo (detenuto per associazione mafiosa e omicidio) dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo da stare più vicino alla famiglia. Un tentativo che non riesce, ma che consente ai magistrati di verificare la capacità della consorteria di Cutro di infiltrarsi nel mondo ecclesiastico.

Nicolino Grande Aracri si era rivolto all’amica giornalista in stretto contatto con il monsignore Maurizio Costantini, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato, non indagato, che sarebbe capace di smuovere cardinali su richiesta di Grazia Veloce la quale avrebbe favorito il boss (come risulta da alcune conversazioni) anche per alcuni “investimenti ed affari in Montenegro”.

La giornalista e il monsignore si sentono e i carabinieri annotano le loro conversazioni, così come quelle intrattenute con la moglie dell’affiliato che doveva essere trasferito di carcere. L’incontro in Vaticano avviene e Grazia Veloce (intercettata dai carabinieri) lo comunica subito ai parenti del detenuto: “Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua”. Il monsignore manda i saluti alla moglie di Abramo: “Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri”.

(clic)

‘Ndrangheta in Aemilia: “questi voti ti porteranno in cielo”

Antonio Dragone (foto da Il Crotonese)
Antonio Dragone
(foto da Il Crotonese)

Il boss e l’intermediario chiamarono il politico un giorno di tre anni fa, il 21 febbraio 2012. Seduto accanto a Nicolino Sarcone – considerato il capo del gruppo di ‘ndrangheta al centro dell’indagine dei carabinieri, all’epoca già sotto processo per mafia – Alfonso Paolini, cutrese trapiantato in Emilia, telefonò a Giuseppe Pagliani, reggiano e capogruppo del Pdl nel consiglio provinciale. «Io ho una cosa per te e per noi… ci dobbiamo vedere urgentemente – disse Paolini -… Se no qua troviamo un altro cavallo…». Ma Pagliani era la prima scelta: «Vogliamo te». L’invito fu subito accettato e Paolini promise: «I voti ti porteranno in cielo… guarda… però devi essere tu a consigliare e dire quello che bisogna fare».

Poi ci fu una riunione nell’ufficio di Sarcone, dove Pagliani andò «senza farsi scrupolo» di incontrare un imputato di ‘ndrangheta; finché il 21 marzo non fu organizzata una cena allargata con Sarcone, altri imprenditori ora accusati di essere «esponenti di vertice del sodalizio criminoso», Pagliani e altri politici locali. È in quell’occasione, dice adesso il procuratore di Bologna Roberto Alfonso, che «si consacrò e definì l’accordo tra la politica e l’organizzazione mafiosa».

«Vogliono usare il Pdl»

Uscito dal ristorante, poco dopo mezzanotte, Pagliani chiamò la fidanzata Sonia: «Mi hanno raccontato testimonianze pazzesche su tangenti che le cooperative si facevano dare da loro per raccogliere lavori… Ho saputo più cose stasera che in dieci anni di racconti sull’edilizia reggiana! Perché questi sono la memoria dell’edilizia degli ultimi trent’anni… A Reggio han costruito tutto». Poi le raccontò il programma che gli avevano esposto i commensali: «Vogliono usare il Pdl per andare contro la Masini (Sonia Masini, all’epoca presidente della Provincia, ndr ), contro la sinistra, anche per la discriminazione. Dice “fino a ieri noi gli portavamo lavoro, eravamo la ricchezza di Reggio, oggi ci hanno buttati via come se fossimo dei preservativi usati”. Capito amore?». La fidanzata commentò: «Eh, la povera Masini fa meglio a fare le valigie!». E Pagliani: «Adesso gli faccio una cura come Dio comanda!… La curetta giusta».
Gli inquirenti sottolineano che dopo la cena cominciò una «serie di attacchi» contro la presidente della Provincia, in particolare per l’affidamento di un appalto; «tema in sé del tutto lecito – scrive il giudice che ha fatto arrestare l’uomo politico, oggi consigliere comunale – se non fosse che Pagliani lo solleva violentemente con il l ‘arrière pensée ( pensiero segreto, fine recondito ndr ) discendente dalla comunanza di interesse con la cosca del Sarcone». Consapevolmente, secondo i pubblici ministeri antimafia, «una battaglia gestita e voluta da un gruppo di criminali» viene trasformata in «battaglia politica».

Il confino e la faida

Il seguito dell’indagine e l’eventuale processo diranno se questa impostazione, al limite del dimostrabile, è corretta e reggerà al vaglio di altri giudici. Tuttavia il peso della malavita calabrese in questo spicchio di Emilia non è una novità e anzi ha radici antiche, che un politico locale non può non conoscere. Una storia che risale al 1982, quando il tribunale di Catanzaro spedì un bidello della scuola elementare di Cutro al confino nel comune di Quattro Castella, provincia di Reggio Emilia; si chiamava Antonio Dragone ed era il capo della cosca di ‘ndrangheta a Cutro. Prese in affitto una stanza a pensione e cominciò a far salire dalla Calabria parenti, amici e compari, avviando i traffici più disparati, dalla droga alle estorsioni, per poi espandersi agli appalti pubblici. Crebbero gli affari, ma anche i sospetti, che portarono in carcere prima Dragone e poi suo nipote Raffaele, lasciando mano libera a uomini di fiducia che presto si rivelarono concorrenti, come Nicolino Grande Aracri, detto «Mano di gomma». Il quale lentamente conquistò una posizione egemone che divenne incontrastata dopo l’omicidio di Antonio Dragone, assassinato a colpi di kalashnikov e calibro 38 a Cutro, nel maggio 2004. Con quel delitto finì una faida, e mille chilometri più a nord la ‘ndrangheta trapiantata nel cuore dell’Emilia poté riprendere i suoi affari e le sue infiltrazioni nei mondi della politica, dell’imprenditoria, ma anche degli apparati statali e dell’informazione.

Poliziotti amici

Ambienti non più incontaminati da tempo, notano gli inquirenti sottolineando, fra l’altro, rapporti degli affiliati con esponenti delle forze dell’ordine. Per esempio un ispettore di polizia, ora indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, che agevolava pratiche e soffiava informazioni utili; o un agente già autista del questore di Reggio, accusato di minacce a una giornalista perché non si occupasse più di un paio di personaggi.
Insomma, comportamenti abituali nella Calabria in mano alla ‘ndrangheta erano diventati tali anche in Emilia dove, scrivono i pm bolognesi, «si potrebbe dire che gli ‘ndranghetisti raramente fanno la fila». Proprio perché «hanno qualcuno che fissa loro appuntamenti, li “riceve” all’ingresso della Questura, li conduce all’ufficio competente e cura di accelerare la definizione… Sono “solo cortesie”, pensano evidentemente gli uni e gli altri, e si frequentano con molta “normalità”, condividendo momenti di svago (pranzi e cene) e interessi vari (i cavalli)». Come tramite tra ‘ndranghetisti e forze di polizia i pm citano «Alfonso Paolini, che dispone di una agenda di contatti certamente molto estesa ed efficace». È lo stesso che telefonò al consigliere provinciale Pagliai. E il cerchio si chiude.

(fonte)

Il giornalista (emilianissimo) che aiutava la ‘ndrangheta in diretta da TeleReggio

gibertini-telereggioC’è anche un giornalista coinvolto nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Emilia-Romagna che ha portato all’arresto all’alba del 28 gennaio di 160 persone: Marco Gibertini, non nuovo a guai con la giustizia (qualche mese fa e’ stato arrestato per frode fiscale) e volto noto di TeleReggio.

Per lui l’accusa è concorso esterno in associazione mafiosa e, secondo quanto emerso nel corso delle indagini della dda dell’emilia-romagna, avrebbe dato una mano agli affiliati della cosca emiliana facendoli andare in tv e sui giornali per mettersi in buona luce, soprattutto dopo che erano arrivate numerose misure interdittive antimafia disposte dal prefetto di Reggio Emilia e dopo il polverone che si era sollevato, nell’autunno del 2012, relativamente alla ‘famosa’ cena tra alcuni appartenenti alla cosca e il capogruppo del Pdl, Giuseppe Pagliani (cena in cui furono poste le basi per una campagna pubblica di contrasto all’azione del prefetto).

Gibertini dedicò a questo avvenimento una puntata della trasmissione che conduceva sull’emittente, “Poke balle”, intitolandola “La cena delle beffe”, con lo scopo di dare la parole agli accusati in modo che si potessero difendere. In particolare venne intervistato Gianluigi Sarcone (arrestato oggi per associazione mafiosa). Non solo, Gibertini è accusato anche di aver “messo a disposizione degli affiliati i suoi rapporti politici, imprenditoriali e del mondo della stampa a tutti i livelli”.

Tra le altre cose fece ottenere un articolo e un’intervista sulle pagine del Resto del Carlino a Nicolino Sarcone, pubblicata il 3 febbraio 2013, pochi giorni dopo la sentenza di condanna a otto anni per estorsione e associazione di stampo mafioso, intervista in cui Sarcone si difendeva dicendo che quello dei giudici era un errore.

Gibertini, poi, avrebbe procurato ‘Clienti’ agli affiliati alla cosca ‘ndranghetista facendo loro pubblicità positiva circa la loro attività di recupero crediti: ai suoi conoscenti, Gibertini raccomandava Nicolino Sarcone come “riferimento sicuro e di grande capacità di successo”.
Indirizzò nelle mani della cosca anche diversi imprenditori che sono poi diventati vittime di estorsione da parte del gruppo, “consentendo così il sempre maggior radicamento dell’associazione nel territorio reggiano e la sua espansione in tutta la regione”.

Tra gli arrestati ci sono anche il consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani (Forza Italia) e importanti imprenditori del settore edile come Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore Vincenzo campione del mondo, e Augusto Bianchini, residente nel Modenese, che ha partecipato agli appalti per la ricostruzione post terremoto in Emilia.

(fonte)