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La bugie di Conte sui migranti: “Con me porti mai chiusi”

Riposizionarsi in politica, si sa, costa fatica, richiede spalle molto larghe e soprattutto una credibilità che va trattata con cura. Se dovessimo pensare al principe del riposizionamento di questi ultimi anni non potremmo che cadere sulla figura di Giuseppe Conte, l’ex due volte presidente del Consiglio che è riuscito nell’impresa di governare con la Lega di Salvini per poi, nel giro di qualche mese, essere addirittura indicato come “il punto di riferimento dei progressisti” dal Partito democratico. Merito anche della liquidità di un’epoca politica in cui una buona narrazione conta molto di più degli ideali, Conte è riuscito a imbastire una drammaturgia perfettamente pop e magistralmente funzionale.

Cambiare opinioni e posizioni non è un peccato, in politica può essere un pregio se l’evoluzione è motivata e risulta credibile a vecchi e nuovi elettori ma Conte sceglie per riposizionarsi la svilente strada della negazione e questo no, non è accettabile: «con i miei governi i porti non sono mai stati chiusi» ha detto l’ex presidente del Consiglio al webinar delle Agorà a cui ha partecipato con il segretario del Pd Enrico Letta. Un’affermazione (furbescamente accettabile dal punto di vista giuridico) che cozza furiosamente con il primo Conte, quello con Salvini al ministero dell’Interno e con tutta la fanfara dei “taxi del mare” e le Ong finite in decine di inchieste che si sono tutte dissolte. Basterebbe un’immagine per raccontare quel Conte: c’è il futuro leader del Movimento 5 Stelle che sorride sornione con il suo ministro Salvini reggendo un foglio con l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”. Quello è stato il punto più alto (o più basso, a seconda dei punti di vista) della piena condivisione della linea leghista. Quel testo era stato approvato il 24 settembre 2018: il comunicato stampa del Consiglio dei ministri precisa che ci si riunì «alle ore 11.41 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del presidente Giuseppe Conte».

Le parole sono importanti. Vale la pena ricordare anche come Conte, rispondendo al Pd (in quel caso nella veste di oppositore) sul caso Aquarius, appoggiò in toto la linea dura di Salvini: usare il divieto di sbarco per mostrare i muscoli contro l’Europa. Poi la Sea Watch e la comandante Carola Rackete. «È stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone». Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini. A luglio 2018 anzi proprio l’allora premier rivendicava (sta ancora sul suo profilo Facebook) il risultato della spartizione dei migranti ottenuto lasciandoli in mare per giorni: «Francia e Malta prenderanno rispettivamente 50 dei 450 migranti trasbordati sulle due navi militari. A breve arriveranno anche le adesioni di altri Paesi europei». Come dire: se non li facciamo sbarcare gli altri si muovono, quindi il nostro agire è utile e chi se ne frega dei diritti.

L’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte? Agosto 2019, decreto sicurezza bis che stringeva ancora di più i lacci dell’immigrazione: il governo pose la fiducia per farlo passare. E anche i 159 migranti sulla nave Open Arms a cui fu impedito per 19 giorni l’accesso ai porti italiani nell’agosto del 2019 sono figli del governo gialloverde. Che Conte oggi ci dica di non avere “mai chiuso i porti” è una presa in giro alla memoria e alla verità. Potrebbe dirci di avere sbagliato, potrebbe dirci di essersi accorto che i diritti sono più importanti degli slogan, potrebbe perfino dirci di essere sceso a compromessi per tenere salda la propria posizione ma la narrazione per invertire il passato questa volta è miseramente fallita e che il Pd non alzi nemmeno un’osservazione aggiunge desolazione: se la prossima alleanza nasce sulle frottole non è un buon inizio.

L’articolo La bugie di Conte sui migranti: “Con me porti mai chiusi” proviene da Il Riformista.

Fonte

Palazzo Chigi val bene una messa: teatri chiusi, chiese aperte

L’immagine più lampante è la chiesa con un cinema accanto, a Fiorano Modenese, dove il parroco don Paolo, evidentemente illuminato nel ruolo di direttore artistico della santità, ha deciso di aprire il Cinema teatro Primavera per trasmettere in streaming la messa pasquale. Gente seduta, luci soffuse da cinema, schermo abbassato e proiezione della messa: a parte i popcorn c’erano tutti gli ingredienti di una normale proiezione di un qualunque film, una serata qualsiasi di quelle che ormai da un anno i vari Dpcm vietano in tutta Italia.

Ma il prete, incalzato dai giornalisti, ci ha spiegato che «il Dpcm vieta le attività teatrali e cinematografiche, ma noi non abbiamo fatto né l’una né l’altra. Quella sala non viene utilizzata come cinema da ormai 13 anni, non abbiamo neanche più la licenza: semplicemente l’abbiamo impiegata come salone perché non sapevamo come altro mettere a riparo i fedeli». Insomma, la messa vale, il cinema no.

Poiché le chiusure sono figlie di una precisa politica sanitaria di prevenzione sfugge prepotentemente il motivo per cui la circolazione del virus cambierebbe in base al contenuto proiettato. In fondo è lo stesso dubbio che attanaglia i lavoratori del teatro che operano nelle medesime condizioni delle liturgie che al contrario non si sono mai fermate: un palco lì dove c’è un altare, una platea di spettatori lì dove invece ci sono i fedeli e un distanziamento che potrebbe essere rispettato in una chiesa come in una qualsiasi sala teatrale.

Forse esiste una variante santa del virus di cui non ci hanno dato spiegazione o forse semplicemente la laicità che dovrebbe essere garantita dalla Costituzione si frantuma ancora una volta contro gli interessi lobbistici di una Chiesa che rivendica (purtroppo con successo) una superiorità morale rispetto a qualsiasi altra attività umana che si svolge su suolo italiano. Tornando per un secondo a Fiorano Modenese sarebbe da rivedere la faccia del sindaco Francesco Tosi che si è affrettato a dichiarare in difesa del prete che «tutte le norme sono state rispettate», riuscendo perfino a contravvenire le più elementari regole di logica oltre alle condizioni dei Dpcm.

Sui social circola ormai da un anno una battuta, mestamente rilanciata dai…

L’articolo prosegue su Left del 16-22 aprile 2021

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Un governo per niente impolitico

Il governo Draghi, quello che fa sognare i portatori d’acqua delle élite e i nuovi feticisti del merito usato come termometro personale per poter giudicare il mondo, ha già fissato un nuovo record: i suoi ministri hanno cominciato a litigare tra di loro quarantotto ore dopo il giuramento, due giorni prima addirittura di ottenere la fiducia, nemmeno il tempo di tornare a casa e svestirsi dei vestiti di ordinanza che erano serviti per apparire sobri. Tolti i vestiti, tolta la sobrietà. Il punto dirimente è stata la chiusura all’ultimo momento delle piste da sci alla luce dei nuovi dati sanitari (tra l’altro l’ennesimo colpo a un’economia che prova faticosamente e costosamente a rialzarsi e poi si ritrova con le gambe spezzate dal virus) ma non preoccupatevi perché sarebbe potuto accadere su un tema qualsiasi e accadrà, vedrete, su un altro milione di punti. Comunque è bastato il decreto firmato dal ministro Speranza (che mica per niente fino all’altro ieri era il capo della “dittatura sanitaria” strillata da destra) per accendere le voci di chi ha corso per scrollarsi di dosso la responsabilità e per apparire critico del governo per sembrare dalla parte dei lavoratori. In prima fila, ovviamente, ci sono stati i leghisti che sono quelli che più di tutti hanno meno da perdere nel fare gli sfascisti dall’interno e continuare a ondeggiare tra l’essere critici e responsabili, sovranisti e europeisti, patrioti e cosmopoliti.

Le bordate di Salvini, dei presidenti di Regione e dello Stato maggiore del partito avevano un unico obiettivo: scaricare su Speranza tutta la responsabilità, promettere che con loro queste cose non sarebbero mai più accadute e lanciare a Draghi il chiaro messaggio che loro no, non staranno tranquilli. Tant’è che proprio Palazzo Chigi (e hanno scritto tutti “Palazzo Chigi” perché gli tremano le dita a scrivere “Draghi”) ha dovuto smentire la fiumana critica che stava montando chiarendo che la decisione era stata condivisa in Consiglio dei ministri. Ovvero: questi fanno finta di non sapere e invece sono responsabili durante le riunioni con la maggioranza e poi si fanno esplodere appena gli capita davanti un microfono. E sarà così, sarà sempre così, sarà sempre di più così. Spiace anche vedere in giro gente che esulta confidando veramente sul fatto che Draghi riesca a tenere a bada i suoi ministri e i suoi sottosegretari: potrà anche accadere (sarà ben difficile, secondo me nemmeno questo accadrà) ma Draghi non potrà mai permettersi di zittire i partiti e sarà proprio dai partiti che arriveranno le bordate e non è un caso che i leader di partito si siano tenuti ben attenti tutti le mani libere. Ora da questo piccolo ma significativo episodio si può subito capire una cosa ben chiara: siamo di fronte a un governo con una connotazione fortemente politica (il “governo di quasi tutti i partiti”, altro che il governo dei tecnici) e noi dobbiamo valutarlo per questo. E allora che governo è il governo Draghi? La squadra di governo statisticamente disegna l’identikit di un maschio 55enne lombardo-veneto con 6 ministri di centrodestra (3 ciascuno per Lega e Forza Italia), 4 del M5s, 3 del Pd, 1 di Leu e 1 di Italia viva. Bastano le statistiche per capire di cosa stiamo parlando? Siamo di fronte a un governo con una maggioranza di ministeri dati al centrodestra (i numeri parlano) con il più promettente partito di destra, Fratelli d’Italia che presto volerà nei sondaggi, a capo dell’opposizione, con tecnici che provengono da una cultura bancaria a occupare le altre caselle, con una forte impronta cattolica (se non addirittura omofobi di derivazione ciellina) e con idee tutte’altro che progressiste in tema di diritti civili. Un governo, per intendersi, che dalle urne sarebbe uscito se la coalizione di Salvini e Berlusconi e Meloni avesse ottenuto la maggioranza dei voti e avesse potuto godere dell’appoggio esterno del presunto centrosinistra.

Questa è l’impronta, questa è la storia delle persone che sono al comando e non si capisce per quale ragione da un composto del genere dovrebbero uscire idee totalmente opposte ai loro curriculum. Allora forse conviene fare un patto, almeno con i lettori, e decidere che sia subito il caso di uscire da questo messianismo che ha immobilizzato un bel pezzo dell’opinione pubblica e che si cominci da subito a valutare il governo Draghi con lo stesso occhio clinico e attento che si userebbe per un governo di cui temiamo le mosse. Questo non per un miope pregiudizio di ideali (chi non si augurerebbe di vivere in un Paese che abbia la fortuna di trovare un ottimo governo?). Ma perché se continuiamo a rimanere imbrigliati nel tranello di considerare questo esecutivo “impolitico” allora saremo sempre pronti a digerire qualsiasi sua azione come “la meno peggio delle mediazioni possibili”. È un governo larghissimo? Sì, è vero, ma la responsabilità di tutta questa ampiezza se la sono presa Draghi e il presidente della Repubblica e se davvero siamo nell’epoca del “merito” allora se ne assumeranno tutte le responsabilità.

L’articolo prosegue su Left del 19-25 febbraio 2021

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Fingeranno sempre di passare lì per caso

Il governo ha deciso di chiudere le piste da sci sulla base dei dati del Cts sui contagi. Apriti cielo. Da Salvini a Zingaretti si levano voci sdegnate. E a parlare così sono i politici di quegli stessi partiti che hanno ministri nell’esecutivo Draghi. Ecco cosa c’e dietro il “governo dei sogni”

Giornata interessante, quella di ieri. Giornata significativa anche per quelli che da qualche giorno sospirano petali di rosa sognanti per un Draghi taumaturgo che avrebbe il potere di cancellare i partiti, la politica, la mediocrità di certi leader e soprattutto i normali meccanismi democratici di un Parlamento.

Accade che il governo decida di chiudere le piste da sci che invece avrebbero dovuto aprire. Accade che lo faccia all’ultimo momento: l’ultimo momento del resto è il primo momento utile con i nuovi dati che arrivano dal Comitato tecnico scientifico e volendo ben vedere anche il primo giorno utile da un governo che è naufragato per regalarci il governo dei sogni, il governo dei migliori, il governo che avrebbe cambiato tutto. Accade che di fronte i dati dei nuovi contagi (perché la curva non si abbassa più e anzi in modo preoccupante tende a rialzarsi probabilmente a causa delle varianti del virus) si decide di tenere chiuse le piste sciistiche. Apriti cielo: ogni volta che qualcuno tocca un settore qualsiasi ovviamente (e giustamente) si levano voci sdegnate. Ma badate bene, qui non si tratta delle voci dei lavoratori, che si sono ritrovati nella pessima situazione di dover cancellare una riapertura programmata che è costata organizzazione, soldi, fatica e che inevitabilmente costa moltissimo in termini economici e di spirito. No, qui si levano le voci sdegnate dei politici.

«I ministri hanno la nostra fiducia. ma serve cambiare qualche tecnico – ha avvertito Salvini – La comunità scientifica è piena di persone in gamba». Il presidente di Regione Lombardia, il leghista Fontana dice: «Trovo assurdo apprendere dalle agenzie di stampa la decisione del ministro della Salute di non riaprire gli impianti sciistici a poche ore dalla scadenza dei divieti fin qui in essere, sapendo che il Cts aveva a disposizione i dati da martedì, salvo poi riunirsi solo sabato». «Sono allibito da questa decisione che giunge a poche ore dalla riapertura», dice il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio. Piste da sci aperte in Friuli Venezia Giulia dal 19 febbraio anche per gli sciatori amatoriali. Il governatore Massimiliano Fedriga ha firmato l’ordinanza urgente n. 4/2021 con cui apre anche agli sciatori amatoriali, a decorrere dal 19 febbraio e fino al 5 marzo, gli impianti nelle stazioni e nei comprensori sciistici. «Per noi viene prima di tutto la salute dei cittadini ma è raccapricciante e imbarazzante vedere un’ordinanza che proroga la chiusura degli impianti da sci pubblicata 4 ore prima di mezzanotte», dice il presidente veneto Luca Zaia. Ma badate bene, non è mica solo la Lega: «Il danno per l’economia dello #sci e della #montagna è davvero immenso. Il Governo si adoperi subito per indennizzi e ristori a chi è stato colpito. Questa è la priorità assoluta», spara il segretario del Pd Zingaretti. «Non posso non esprimere stupore e sconcerto, anche a nome delle altre Regioni, per la decisione di bloccare la riapertura degli impianti sciistici a poche ore dalla annunciata e condivisa ripartenza», dice il presidente dell’Emilia-Romagna e della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini. Italia Viva (figurarsi) chiede “un cambio di passo”. E via così.

Tant’è che a un certo punto si diffonde l’opinione che la decisione sia stata presa dal ministro Speranza, da solo rinchiuso nella sua stanzetta e che loro non ne sapessero niente. Peccato che a metà giornata Palazzo Chigi (quindi Draghi) fa sapere all’Agi che la decisione sugli impianti sciistici è stata adottata in base alle informazioni fornite dal Cts e condivisa dal governo e dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Cioè la decisione è stata discussa con tutti i ministri e quindi si presume che i ministri abbiano avvisato i segretari del proprio partito e quindi si presume che sia tutta una posa, una finta sorpresa, un giochetto facile facile: questi fingeranno sempre di essere presi alla sprovvista perché appoggeranno il governo nella comoda posizione di chi comunque si sente un battitore libero. E continueranno a sparare cannonate perché Draghi potrà (forse) riuscire a tenere a bada i ministri e non i partiti, com’è normale che sia.

Ora capite perché la favola del “governo tecnico” è una bufala? Questi continueranno a fingere di passare di lì per caso, in Consiglio dei ministri, rimanendo stupiti tutte le volte, ognuno per proprio tornaconto elettorale. Il “governo dei sogni” è un governo che ha messo sul palcoscenico tutte le mediocrità, nessuna esclusa, e che rende facilissima la vita agli “oppositori interni”, quelli che sfasciano tutto per sentirsi vivi. Un capolavoro, insomma.

Buon martedì.

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Matteo risponde (male)

«Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico… è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». Lo ha detto il leader di Italia Viva in una intervista in cui ha parlato del suo viaggio in Arabia Saudita. Dove c’è una costante violazione dei diritti umani

Ieri Matteo Renzi è stato intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera. Chiamarla intervista in realtà è una parola grossa visto che l’ex premier, come spesso accade, ha potuto comiziare per iscritto praticamente intervistandosi da solo, come piace a lui. Poiché ormai la notizia del suo viaggio in Arabia Saudita è diventato un fatto non scavalcabile il senatore fiorentino è stato costretto a rispondere sul punto (senza rispondere, ovvio) e ha inanellato una serie di panzane che farebbe impallidire anche il più sfrontato dei bugiardi ma che Renzi invece ha sciorinato come se fosse un dogma.

«La accusano di avere fatto da testimonial del regime saudita», dice Maria Teresa Meli e l’ex presidente del Consiglio risponde: «Sono stato a fare una conferenza. Ne faccio tante, ogni anno, in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Medio Oriente alla Corea del Sud. È un’attività che viene svolta da molti ex primi ministri, almeno da chi è giudicato degno di ascolto e attenzioni in significativi consessi internazionali». Renzi non è andato a fare una semplice conferenza ma siede nel board della fondazione Future investment initiative che fa capo direttamente al principe Bin Salman e per questo è pagato fino a 80mila euro all’anno. Non era lì in veste di conferenziere ma è uno dei testimonial dell’organizzazione di queste iniziative. La differenza è notevole, mi pare. Poi: Renzi dice che molti ex primi ministri svolgono questa stessa attività ma dimentica di essere un senatore attualmente in carica, l’artefice principale di questa crisi di governo, un membro della commissione Difesa nonché lo stesso che chiedeva di avere in mano la delega ai Servizi. Se non vedete qualche problema di conflitti di interessi allora davvero risulta difficile perfino discuterne.

Poi, tanto per leccare un po’ il suo narcisismo e il suo odio personale per Conte Renzi aggiunge: «Sono certo che anche il presidente Conte, quando lascerà Palazzo Chigi, avrà le stesse opportunità di portare il suo contributo di idee». Roba da bisticci tra bambini. E addirittura rilancia: «E grazie a questo pago centinaia di migliaia di euro di tasse in Italia». Capito? Dovremmo ringraziarlo che paga le tasse. Dai, su.

Ma il capolavoro dell’intervista renziana sta in queste due frasi: «Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico» e «Se vogliamo parlare di politica estera diciamolo: è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». E in effetti il senatore di Rignano deve avere dimenticato che 15 su 19 degli attentatori dell’11 settembre fossero sauditi (incluso Osama bin Laden) ma soprattutto che l’Arabia Saudita finanzi l’estremismo con molta indulgenza e pratichi l’estremismo proprio come forma di governo. Come quelli che sono interrogati in storia e non l’hanno studiata Renzi fa la cosa che gli viene più semplice: la riscrive. Infine, tanto per chiudere in bellezza, promette in futuro di rispondere «puntigliosamente in tutte le sedi» ventilando querele. Perfetto. Ovviamente nessuna osservazione da parte della giornalista: in Italia la seconda domanda è un tabù che non si riesce a superare.

Sarebbe anche interessante sapere da Renzi cosa ne pensi del “costo del lavoro” in Arabia Saudita che ha detto di invidiare, se è informato del fatto che il 76% dei lavoratori sono stranieri sottopagati che vivono in baracche malsane e che sono, di fatto, proprietà privata dei loro padroni che fino a qualche tempo fa addirittura tenevano i passaporti dei loro dipendenti come arma di ricatto per rispedirli a casa e che la situazione delle donne è perfino peggiore con “sponsor” che si spingono fino agli abusi psicologici e sessuali sulle loro dipendenti facendosi forza sul Corano che nella teocrazia saudita detta le leggi. E chissà se Renzi ha avuto il tempo almeno di leggersi una paginetta su Wikipedia (senza chiedere troppo) che dice chiaramente: «L’Arabia Saudita è uno di quegli Stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l’amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la cattiva condotta sessuale (omosessualità) e l’ubriachezza, lo spaccio o il gioco d’azzardo. Il numero di frustate non è chiaramente previsto dalla legge e varia a discrezione del giudice, da alcune dozzine a parecchie migliaia, inflitte generalmente lungo un periodo di settimane o di mesi. L’Arabia Saudita è anche uno dei Paesi in cui si applica la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione».

Non c’è che dire: è proprio aria di Rinascimento. Davvero. O forse semplicemente Renzi ha detto la verità: lui invidia un mercato del lavoro così, dove il Jobs Act è stato scritto proprio come lo sognano i ricchi padroni.

Buon lunedì.

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Il calendario dell’avvento (di Renzi)

Cronologia di una “crisi di governo” aperta da Matteo Renzi il 9 dicembre. Tra dichiarazioni, penultimatum e interviste, siamo arrivati al giorno cruciale

Era il 9 dicembre quando Matteo Renzi aprì la “crisi di governo” che ancora oggi si stiracchia sulle pagine di tutti i giornali. “È il momento di dirci le cose in faccia” tuonò con uno di quegli interventi che risulta perfetto per essere confezionato e diventare una clip già pronta per i social e take away per tutti i telegiornali. Disse: “Per giocare pulito e trasparente, noi diciamo: se c’è un provvedimento che tiene dentro la governance del Next Generation Eu, noi votiamo contro. Siamo pronti a discutere, ma non a usare la manovra come veicolo di quello che abbiamo letto sui giornali, compresi i servizi segreti. Se c’è una norma che mette la governance con i servizi votiamo no”. Minacciò di ritirare immediatamente i suoi ministri. Non accadde.

Il giorno successivo, il 10 dicembre, il segretario del Pd Zingaretti e alcuni membri provarono a placare gli animi. Da quel giorno ovviamente la cosiddetta “crisi” si è spostata sui giornali e in televisione, il campo preferito da Renzi. Pochissimi i passaggi istituzionali. Renzi rilascia due interviste, a Il Messaggero e a El Pais, in cui dice: “Se Conte non fa marcia indietro siamo pronti a far cadere il governo”. Conte intanto era a Bruxelles per chiudere l’accordo. Alla grande, direi.

Il 12 dicembre interviene il presidente della Camera Roberto Fico che dice che se cade il governo si va a elezioni. A nome di Renzi interviene Anzaldi che dice che le elezioni le decide il Presidente della Repubblica. E via già con la via d’uscita di un accordicchio, quindi.

A quel punto Conte convoca i partiti a Palazzo Chigi per discuterne. Ve lo ricordate? Renzi dice: “noi abbiamo detto ‘Presidente, se vogliamo andare avanti noi ci siamo con lealtà, se ritieni che quello che proponiamo non va bene, con rispetto per le istituzioni, noi ci alziamo e ci dimettiamo”. E via di nuovo con l’ennesimo penultimatum. Ovviamente continuano le interviste dappertutto.

Il 28 dicembre Renzi presenta il suo piano (che chiama simpaticamente “Ciao”, che simpaticone). 13 righe di proposte in tutto. “Se c’è accordo su questo bene. Altrimenti è evidente che faranno senza di noi e le ministre si dimetteranno”, dice Renzi. Sempre per dare un’idea di come si svolge la trattativa.

A fine anno c’è il discorso di Mattarella. Renzi ovviamente pensa a se stesso quando il Presidente della Repubblica dice che “servono costruttori”. Figurati. Però non coglie il monito di Mattarella a non perdersi in polemiche. Passano 48 ore dal discorso del Presidente e Renzi dice, a Il Messaggero: “Se Conte ha scelto di andare a contarsi in aula accettiamo la sfida”.

Il 5 gennaio è un giorno da fantascienza. Renzi è ospite di Nicola Porro su Rete 4 e dice che bisognerebbe trovare un accordo preliminare sui temi. Sembra un’apertura. E invece poi serafico aggiunge: “Poi vedremo se il premier sarà Conte o un altro“.

Arriviamo agli ultimi giorni. Conte ringrazia i partiti di maggioranza per i contributi portati (quindi anche Renzi) e Renzi gli risponde “se Conte è in grado di lavorare lo faccia, altrimenti toccherà ad altri. Ha detto che è pronto a venire in Aula, lo aspettiamo lì”. L’8 gennaio si incontrano per discutere e i renziani Boschi, Faraone e Bellanova protestano: “Il documento sul Recovery Plan non c’è: c’è una sintesi di 13 pagine e una tabella. Il Paese ha bisogno di serietà e ciò comporta leggere e studiare un testo completo“.

Ieri Renzi ha detto sì al Recovery però minaccia di ritirare le sue ministre dopo il Consiglio dei Ministri. E siamo a oggi. Gli scenari sono o un corposo rimpasto (con quelle poltrone che a Renzi non interessano, segnatevelo), o un Conte ter o un governo tecnico. Le elezioni? figurarsi. Se ci fosse davvero il pericolo delle elezioni non avremmo visto nulla di tutto questo.

Buon martedì.

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Fontana bifronte

Prima ribadisce che il lockdown è competenza del governo. Poi si lamenta della zona rossa istituita da Palazzo Chigi. È molto confuso, il presidente della Regione Lombardia

Fontana guida la schiera di presidenti di Regione che se la prendono con il governo per le misure adottate, considerate troppo severe. Bello fare il presidente di Regione in Italia se si è di un colore politico diverso rispetto al governo: si urla per giorni “non decidono! non decidono!” e poi quando decidono ci si lamenta che hanno deciso. Tanto a loro cosa interessa, gli basta fare un po’ di caciara, c’è sempre un potere superiore su cui scaricare le responsabilità.

Fontana dice che va tutto bene.

Fontana dice che va bene anche se ormai il tracciamento è completamente saltato.

Fontana dice che va bene anche se in Lombardia il dato dei positivi sulla base dei tamponi eseguiti è pari al 26,6%. In aumento costante.

Fontana dice che va bene anche se ci sono 1.075 letti di Terapia intensiva, il tasso di occupazione è del 40%. La soglia di criticità è identificata al 30%. Il tasso di occupazione dei posti letto per i ricoveri ordinari è al 37%, al limite della soglia critica fissata al 40%.

Fontana diceva che bisognava chiudere, e che la competenza di farlo spetta al governo, e adesso dice che tutto va bene.

Fontana ha scritto una lettera a medici e infermieri in cui scrive: «Mi rivolgo a voi, un nemico invisibile è tornato a condizionare le nostre vite, ad esercitare pressioni sui nostri ospedali. […] Oggi dobbiamo lavorare insieme e rapidamente per piegare la curva epidemiologica e più di ieri siamo nelle vostre mani». «A voi – continua Fontana -, cui noi rimettiamo la difesa della vita, faccio appello per continuare questa lotta».

Fontana ieri ai giornalisti: «Non riusciremo per ora a chiedere alcun allentamento delle misure decise dal Dpcm».

È molto confuso, Fontana. Esattamente Fontana come la pensa?

Buon venerdì.

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La stagione dei No

La schizofrenia dei messaggi in questa emergenza pandemia è causata anche dalla peggiore opposizione possibile, quella che sul no basa la propria retorica

La pandemia, tra i suoi mille malanni, si porta dietro anche la lente di ingrandimento sulla schizofrenia di una classe dirigente che non riesce a confrontarsi elaborando una proposta. Non è una roba da poco perché la schizofrenia dei messaggi è causata sicuramente da un certo lassivo comportamento da certe stanze di palazzo Chigi (quelle che fanno uscire le anticipazioni per vedere l’effetto che fa) ma anche dalla peggiore opposizione possibile, quella che sul no basa la propria retorica.

Basta solo qualche esempio per rendersene conto?

Scuole aperte? Quelli dicono che le scuole sono pericolose e che non manderanno a scuola i propri figli.

Scuole chiuse? Quelli, sempre gli stessi, dicono che chiudere le scuole è una sconfitta.

Ristoranti aperti? Quelli dicono che bisogna evitare i contagi.

Ristoranti chiusi? Quelli, sempre gli stessi, dicono che i ristoratori sono allo stremo.

Teatri aperti? Quelli dicono che la cultura non è indispensabile e si deve fermare.

Teatri chiusi? Quelli, guardate che sono sempre gli stessi, dicono che il mondo della cultura muore.

Decide il governo? Quelli gridano alla dittatura.

Il governo fa decidere alle regioni? Quelli stessi della dittatura dicono che il governo non vuole prendersi le sue responsabilità.

Diminuiscono i contagi? Il virus non esiste più.

Aumentano i contagi? Il virus è stato sottovalutato, dicono quelli per cui non esisteva più.

Il governo non coinvolge le opposizioni? Ecco, non ci chiedono mai, dicono.

Il governo coinvolge le opposizioni? Troppo tardi, dicono.

È lo spessore della politica a cui assistiamo. Ogni giorno, tutti i giorni. Mentre sale la paura e mentre servirebbero decisioni convinte e tempestive. E, sia chiaro, questo senza nulla togliere alle responsabilità del governo. Ma così diventa davvero tutto difficile. Tutto.

Buon lunedì.

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Coprifuoco, Conte scarica la responsabilità sui sindaci, poi ci ripensa: chi decide la chiusura delle piazze?

Partiamo da un punto fermo: la situazione è difficile, mancano spesso i mezzi e gli uomini e ha fallito un po’ dappertutto la programmazione. Il gioco delle responsabilità è piuttosto complesso: le Regioni spesso non hanno mantenuto le promesse e si sono sottrate alle loro responsabilità, una certa leggerezza è stata pericolosamente sventolata da illustri medici e da opinionisti oltre che da leader dell’opposizione e la mediazione per qualsiasi provvedimento è sempre più difficile, ognuno con le sue priorità e tutto è in bilico tra il salvare i redditi e l’economia e preservare la salute.

Il governo Conte non si ritrova sicuramente in una situazione facile e i cittadini non sono più disposti, come accadeva a marzo, ad ascoltare buoni buoni le raccomandazioni del presidente del Consiglio come si ascolta un buon padre di famiglia. Pretendono risposte, chiarimenti, dati, numeri, analisi. Se si decide di bloccare un’attività rispetto a un’altra forse sarebbe il caso di sapere (e spiegare) il reale impatto che ha nella diffusione del virus, altrimenti resta la sensazione che tutto sia affidato a un esperimento continuo, come se questi mesi non ci avessero insegnato niente.

Però ieri Conte nella sua conferenza stampa ha compiuto un errore che è sintomatico del clima di incertezza, parlando chiaramente di “responsabilità dei sindaci” nel chiudere vie o piazze che potrebbero essere occasione di assembramento. Il proposito in sé ha le sue ragioni, sentiamo da anni ripetere che gli amministratori locali sono tutti bravi, efficienti, conoscono il territorio e chi meglio di loro potrebbe avere contezza di ciò che accade nelle loro città. Ma se decidi di responsabilizzare i sindaci e gli chiedi di farlo senza dare i mezzi diventa tutto molto complicato.

Solo per fare un esempio: per chiudere una piazza con cinque vie d’accesso (lo faceva notare ieri anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) servono almeno dieci agenti. 10 agenti per una piazza. Chi li ha? Dice Conte che bisogna concedere l’accesso ai residenti e ai clienti degli esercizi commerciali: chi controlla? A Palazzo Chigi si sono accorti dell’errore e il riferimento ai sindaci sparisce dal Dpcm. Bene, sorge quindi subito l’altra domanda? Chi se ne deve occupare? Il Prefetto? Le Regioni? Chi? E poi si torna al punto di partenza: chiunque sia a doversene occupare con quali uomini e con quali mezzi? Il “federalismo delle responsabilità” che apre questo Decreto rischia di aumentare la confusione, ancora di più. E “decidere di lasciare decidere” alimenta ancora di più il caos.

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I falsari dell’antimafia

Un atto d’accusa di Saverio Lodato che credo vada letto. Si può essere d’accordo o meno ma, credetemi, vale la pena leggerlo e pensarci:

capaci-copyright-shobhaDicevamo prima: ma di quale “antimafia” stiamo parlando? Ecco, appunto.
Dell’”antimafia” che trova le porte spalancate a Palazzo Chigi, a Palazzo Madama, al Quirinale o in Vaticano?
O stiamo parlando di un‘altra “antimafia”?
Di un'”antimafia” minuscola, piccola piccola, quella che non compare nei tg, nelle prime pagine dei quotidiani, nelle rappresentazioni epiche del regime?
E’ stata fatta un’operazione sporca.
E cercheremo adesso di spiegarla in due parole.
E’ accaduto che in questi 23 anni di anniversari, anno dopo anno, su un piatto della bilancia veniva scaraventato il peso del passato, sotto forma di enfasi, di cerimonia, di retorica pomposa.
Il piatto del presente, dell’attualità, invece, restava vuoto.
Questo era il trucco, questo era il giochetto.
Un sottilissimo bisturi invisibile recideva così, per mano di istituzione, il filo fra passato e presente, fra il c’era una volta e il “qui e ora”.
Una cosa, insomma, era Falcone, una cosa sono le mafie romane.
Una cosa sono gli inquisiti per mafia, che non risparmiano più nessuna regione e nessun capoluogo di provincia e nessun partito, una cosa sono i “mafiosi” battezzati come tali da Falcone trent’anni fa.
Una cosa sono “quelli” di allora, una cosa sono “quelli” di oggi (Nino Di Matteo docet!).
Non facciamola troppo lunga.
In Italia, la mafia oggi c’è. Ce ne sono tante.
E che ci sia (e che ci siano), lo sanno in tutto il mondo.
Ma noi, che siamo un Paese di guitti, il 23 maggio e il 19 luglio facciamo finta di commemorare ciò che accadde. E ci diciamo “antimafiosi”.
Che in molti si siano stancati, è fisiologico.

(fonte)