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palco

Da giovane ero disperata della mia ignoranza (Fernanda Pivano)

Fernanda_PivanoSe ho sbagliato perdonatemi: i sogni sono quasi sempre sbagliati, mi dicono. Eppure io non riesco a dimenticare la lezione forse più importante che mi ha dato il mio indimenticabile maestro Ernest Hemingway: “Ho fatto una pace separata”. (da Ho fatto una pace separata, Dreams creek Production)

Mancherà anche al Teatro, Fernanda. L’America sul palco è un suo nipote coccolato e vivace come lei.

Un appello di Emma Dante sul Teatro Biondo di Palermo

emma_danteEmma Dante è una teatrante che preferisce parlare sul palco piuttosto che con le parole. Ci siamo conosciuti nella morbidissima bomboniera laica che è il suo teatro-bottega giù a Palermo. Ha gli occhi di velluto dell’esteta ma la stretta ferma dell’osservatrice. Per questo quando ho letto che ha deciso di scrivere e mettersi dritta e in piedi giù dal palco non ho potuto fare a meno di ascoltarla e apprezzarne la forza. In un mondo per natura fangoso come quello teatrale in Italia e per di più con la voce che si alza da Palermo e su Palermo.

“Carissimi colleghi,

teatranti, artisti e intellettuali vi scrivo con la speranza che possiate dimostrare solidarietà all’ importante movimento che si sta sviluppando per far chiarezza sulla gestione del teatro stabile di Palermo.
Finalmente, dopo anni di silenzio-assenso, una consistente parte della società civile ha promosso una petizione popolare che io appoggio con convinzione. E’ assurdo che, in tutti questi anni in cui la carica del direttore del teatro stabile è diventata un vitalizio, caso unico in Europa, nessuno di noi si sia indignato per la malagestione del teatro della nostra città. Anche quest’ anno il cartellone presenta numerose regie, scene e costumi firmate da pietro carriglio, anche quest’anno si dà pochissimo spazio alla drammaturgia contemporanea e ai giovani talenti emergenti. E’ arrivato il momento di fare chiarezza e questa petizione ce ne dà l’occasione. Bisogna svincolarsi dalla mentalità per cui aderire a questo movimento significa schierarsi contro il teatro biondo e chiudersi le porte per il presente e il futuro. E’ proprio questa mafiosa minaccia di esclusione che consolida il potere e annienta qualsiasi forma di rivolta. E’ una mentalità subdola e indissolubilmente legata all’ egoismo e alla chiusura. Non a caso nel momento in cui ho aderito e mi sono fatta portavoce di questa petizione, il mio atto sociale è stato interpretato come un fatto personale tra me e il biondo per l’assenza dei miei spettacoli in cartellone. Ma come tutti voi ben sapete mai è stato programmato un mio spettacolo in quel teatro e a questo punto ne sono fiera e vi giuro
che fino a quando ci sarà pietro carriglio alla direzione del biondo
io non ci metterò piede. In questi giorni di vacanza ho letto i nomi dei numerosi firmatari della petizione: sono quasi tutti cittadini, pochissimi addetti ai lavori. Vi chiedo perché. Ciò che domanda la
petizione è legittimo e naturale ed è per questo che vi invito a
sottoscriverla. Non può esserci un futuro migliore se continuiamo a
stare trincerati nelle nostre case, ognuno a curare il proprio orticello.

Ps : la petizione si può firmare on line sul sito www.studiolegalelopiccolo.como alla pagina http://www.firmiamo.it/sign/list/petizioneperlagestionedelteatrostabiledipalermo (ricordandosi di confermare via mail l’adesione )

Emma Dante

Caro Salvatore, stamattina mentre scrivo e ci penso già in via D'Amelio

bucoCaro Salvatore,

stavo rimasticando questi quattro fogli tutti pieghe e mezze orecchie che da qualche giorno mi chiedono di urlare. Sto scrivendo, innamorato del privilegio e la responsabilità, questo mezzo pugno da liberare in via D’Amelio che si è acceso con il  nostro abbraccio di qualche mese fa. E mentre mi ascolto in quel fiume così comodo tra la testa e il dito, ripenso a quella tua faccia serena mentre mi dicevi “io so”. E questa mattina, che si prepara alla mia nuova galera per salvarmi, mi soffia un pensiero osceno: in fondo tu hai vinto, Salvatore, comunque vada in questa partita bislacca che si è incastrata tra i silenzi bollati di quelle mila fotocopie fatte sempre storte dai tribunali. In fondo adesso rimane il resto: tutto quel calcolare, incastrare e scegliere la forma di questo diciassettesimo anniversario omicida in via D’Amelio. Dicono gli Dei della cabala che il diciassettesimo debba essere per numerologia la volta più nera, quella che pesa addosso a qualcuno per tutte le altre. E allora anche la cabala questa mattina ci sorride e ci prende sottobraccio per imbarcarsi con noi. Perchè io so, all’ombra rincuorante e fresca di quel tuo dolore mai arreso e della tua rabbia comunque educata, che resuscitare un funerale lungo diciassette anni è un rito coraggioso e vincente. Come una rincorsa lunga sedici anni per ammonire che il ricordo si esercita solo dopo aver saputo, capito e visto in faccia. Tu lo sai bene quanto ogni mattina è pieno il mondo di orfani, vedove e pendolari del lutto che spolverano il marmo; ecco, Salvatore, io dentro questi fogli vorrei metterci invece tutta la polvere degli anni prima, ed atterrare in via D’Amelio con due sacchi di iuta per farli sbuffare sul palco. Perchè la forma turpe e sconcia di quella nuvola almeno ti faccia sorridere, almeno un secondo, di ritrovare disegnata questa tua intollerabile coltre che ti si è appoggiata sul cuore, questo velo mendace che il 19 luglio ci ritroviamo tutti insieme a provare a sparecchiare. Anche io “so”, Salvatore, che quel giorno saremo lì, tutti insieme, per svestirici dal lutto, buttare le corone di fiori e, se serve, anche per mano, sporgerci senza paura per guardare dentro a quel buco.

19a puntata: Io ho paura

Ascolta 19a puntata: Io ho paura

Io ho paura, ma non ho paura di avere paura.

Ho paura di questa sensazione liquida che ti entra nelle ossa più intime, di avere amici che ci pensano prima di girare le chiavi nella macchina. Ho paura di essermici abituato alla paura, di guardare solo per vedere, di ascoltare per sentire, di dovermi tenere da conto questo disturbo cronico viscidamente instabile. Ho paura di essere stato scippato di cosa qualche cosa non so. Ho paura di avere intorno una preoccupazione in divisa e organizzata, ho paura dello sbuffo della porta, ho paura dei respiri se non li vedo in faccia. E ho rabbia, rabbia instabile che mi prende in giro mentre balla la polka braccio sotto il braccio della mia paura. Rabbia per aver perso la paura quella vergine, quella che arriva come un giallo al semaforo freno-frizione prima che sia ancora verde. Ci si abitua a tutto però, chiedete a Pino, chiedete a Rosario, chiedetelo a Sergio, a Roberto, a Carmelo. Ci si abitua a tutto a Mafiopoli. E la paura e la rabbia e quella lingua fredda e continua sulla schiena diventano un neo. E al secondo specchio non lo noti più. Ma ho paura anche di queste facce sempre così sicure, ho paura degli untori certi di verità certa, di quelli che ci raccontano come dovremo fare, cosa dovremo essere, con che camicia coprire il neo. E ho rabbia, per niente sana, per chi ce la racconta la nostra paura, per chi la rivende al mercato delle elezioni, per chi no non è niente, sì in fondo è tutto, è normale , passerà, è una vergogna, grazie prego oppure tornerò o meglio ancora bum bum, alla radio mafiopoli.
C’è una porta che non riesco a scardinare. Ci ho provato con i coltelli e i cacciaviti della penna, poi l’ho presa a calci, con la testa e poi con tutti quei pezzi e barattoli che mi stanno legati da un po’ alla caviglia. Mi sono anche seduto di fianco, al buio, un tubo dietro alla schiena e piangevo e scongiuravo di aprirsi.
E dietro c’è l’arroganza di credere che se non ci riesci tu, dico almeno a scriverla farne uno schizzo un paio di volantini imbevuti di pioggia e colla sui lampioni, ecco allora è la tua paura è un re nudo. Che viene fotografata, scritta e raccontata da uno spigolo, un particolare o al massimo di mezzo riflesso. È un re nudo la mia paura. E la rabbia ci ride per giorni e giorni, questa rabbia che mi calpesta lo stomaco mentre balla la polka.
Il principe e gli elfi che gli tengono il mantello mi hanno sempre detto che non bisogna raccontarla la filastrocca di questa paura nuda con la corona in testa, che con un colpo di stato mi si è insediata nel cervello. Chissà come ridono oggi. Da spanciarsi fino a sporcare il mantello.
Ma oggi chiamo arimo e me la tengo, almeno la paura di avere paura. Di non poterla dire se non hai almeno un capitolo, uno straccio di identikit.
Com’è pornografica la balera nevrotica giù a Mafiopoli, com’è comica questa schizofrenia che si traveste tutte le mattine da sacerdotessa tragica e muta. Com’è alta questa parete da riderci sopra piano e sempre con la bava e la solitudine di una lumaca. Com’è meno musicale, televisiva, da palco o da fine serata di come ce l’hanno impacchettata.
Ecco io oggi vorrei, a Mafiopoli, che nell’assemblea quella sotterranea degli scemi del villaggio, io vorrei che si decidesse di restituirgliela questa paura. Fargliela trovare pelosa nel caffè della mattina, o che gli cammini a otto zampe sulla faccia. A loro che l’hanno sempre vista da dietro, la paura, con l’odore di sparo, colla e benzina. Restituirla un secondo. Come l’acqua nelle scarpe. Perché cari tutti i Totò di Mafiopoli, perché voi non lo sapete ancora che dalla paura non ci si esce né dissociati né pentiti.
Restituirla un secondo per vedere che forma ha da fuori, da lontano, e per pisciarla fuori mentre si ride, si ride alla mafiopolitana.

Carlo Rivolta

Carlo Rivolta

Mi ricordo di lui e del profumo di polvere del Teatro alle Vigne. Saranno dieci anni che lo guardavo nella sua magrezza imponente tutta voce e scheletro. Non lo avevo capito. Ci sono incomprensioni che ti cambiano la vita: entrano senza bussare, accendono una lampadina e non lasciano nemmeno un biglietto per capirsi. C’è qualcosa qui, oggi, sulla scrivania di fogli contro polvere che sbordano sul palco che è una lampadina con il profumo di Carlo sopra la platea. Con il cruccio mai cicatrizzato di non essermelo andato a cercare in tempo. Ciao Carlo, te lo scrivo adesso quando è piena anche senza la scia della notizia e del ricordo per le foto dell’ipocrisia di rito.