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Paolo Borsellino

Le 13 domande di Fiammetta Borsellino

Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo, ha scritto a Repubblica 13 domande sul depistaggio che avvenne dopo la strage di via D’Amelio. E sono interrogativi imprescindibili per fare luce su un pezzo d’Italia, oltre che sull’omicidio. Forse, prima dei festeggiamenti, sarebbe il caso di trovare le risposte.

Eccole qui:

Sono passati 26 anni dalla morte di mio padre, Paolo Borsellino, ucciso a Palermo insieme ai poliziotti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. E, ancora, aspettiamo delle risposte da uomini delle istituzioni e non solo. Ci sono domande – le domande che io e miei fratelli Manfredi e Lucia non smetteremo di ripetere – che non possono essere rimosse dall’indifferenza o da colpevoli disattenzioni. Domande su un depistaggio iniziato nel 1992, ordito da vertici investigativi ed accettato da schiere di giudici.

1. Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?

2. Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre ’94).

3. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?

4. Perché i pm di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?

5. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?

6. Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?

7. Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.

8. Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?

9. Perché la pm Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?

10. Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?

11. Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?

12. Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?

13. Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?

Processo Borsellino: la mafia cercatela tra gli investigatori

Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” con protagonisti uomini dello istituzioni. La corte d’assise di Caltanissetta che 14 mesi fa concluse l’ultimo processo sulla strage di via d’Amelio non fa sconti. E in una motivazione lunga 1865 pagine, depositata nel tardo pomeriggio di sabato, punta il dito contro i servitori infedeli dello Stato che imbeccarono piccoli criminali, assurti a gole profonde di Cosa nostra, costruendo una falsa verità sugli autori dell’attentato al giudice Borsellino.

Che sarebbe stata una sentenza importante lo si era compreso dalla complessità del dispositivo che, il 20 aprile del 2017, condannò all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di rocambolesche ritrattazioni nel corso di vent’anni di processi, i giudici dichiararono la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri.

Ed è a questi “altri” che la Corte si riferisce nelle motivazioni della sentenza. A quegli investigatori mossi da “un proposito criminoso”, a chi “esercitò in modo distorto i poteri”. La corte d’assise di Caltanissetta, dunque, usa parole durissime verso chi condusse le indagini: il riferimento è al gruppo che indagava sulle stragi del ’92 guidato da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia poi morto. Sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta e a costringere Scarantino a raccontare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato. Sarebbero stati loro a compiere “una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”.

Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, “che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà”, e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato”.

I magistrati dedicano, poi, parte della motivazione all’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, il diario che il il magistrato custodiva nella borsa, sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera, secondo la corte, ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”. La Barbera è morto, l’inchiesta sulla scomparsa dell’agenda rossa è stata archiviata, ma a Caltanissetta, forze a maggior ragione dopo questa sentenza, si continuerà a indagare. Non si sono accontentati delle verità ormai passate in giudicato i pm della Procura Stefano Luciani e Gabriele Paci che, anche grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riaperto le indagini sulla strage scoprendo il depistaggio. E una nuova inchiesta è già in fase avanzata e riguarda i poliziotti che facevano parte del pool di La Barbera.

(fonte)

La figlia di Borsellino: «Agli assassini di mio padre ho detto: raccontate la verità, solo così sarete uomini liberi»

L’incontro in carcere con Giuseppe e Filippo Graviano è stato guidato unicamente da un lungo, complesso percorso personale e dettato da una forte e urgente esigenza emotiva. Ho sentito la necessità, in quanto figlia di un uomo che ha sacrificato la propria vita per i valori in cui ha creduto e per amore della sua terra, di dovere attraversare questo ulteriore passaggio importante per il mio percorso umano e per l’elaborazione di un faticoso lutto. Un incontro che ha assunto come unico motore la necessità di esprimere un dolore profondo inflitto non solo alla mia famiglia, ma alla società intera. La richiesta di incontro con Giuseppe e Filippo Graviano nasce dunque come fatto strettamente personale. E chiedo che tale debba rimanere.

Sono andata da Giuseppe e Filippo Graviano con l’idea che può vivere e morire con dignità non soltanto il magistrato che sacrifica la propria vita, ma anche chi pur avendo fatto del male è capace di riconoscere il grave male che ha inflitto alle famiglie e alla società, è capace di chiedere perdono e di riparare il danno. Riparare il danno per me vuol dire non passare il resto della propria vita all’interno di un carcere, ma dare un contributo concreto per la ricerca della verità. Si tratta di un contributo di onestà che gli uomini della criminalità organizzata devono dare principalmente a loro stessi, perché chi uccide, uccide la parte migliore di sé. E poi soltanto contribuendo alla ricerca della verità, i figli potranno essere orgogliosi dei padri.

Ora è importante che io possa continuare quel dialogo che è stato interrotto, con enorme dispiacere registro la mancanza di una risposta ufficiale da parte delle istituzioni preposte a fronte di una mia richiesta reiterata alcuni mesi fa.

E voglio fare un’altra considerazione. Pur nell’ambito del profondo rispetto che nutro per le istituzioni, e pur cosciente della complessità del percorso che deve portare i giudici della corte d’assise di Caltanissetta alla stesura delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater, da figlia ritengo che il passaggio di più di oltre un anno per il deposito del provvedimento sia un tempo troppo lungo. Anche dal deposito di quelle motivazioni dipende un ulteriore prosieguo dell’attività giudiziaria, della procura di Caltanissetta e del silente Consiglio superiore della magistratura, per far luce su ruoli e responsabilità di coloro che hanno determinato il falso pentito Scarantino alla calunnia. A causa di questo depistaggio, sono passati infruttuosamente 25 anni.

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“Nell’inferno di via d’Amelio un uomo dei Servizi chiedeva della valigetta di Borsellino”

L’articolo (importantissimo) di Salvo Palazzolo per Repubblica:

Di quel pomeriggio in via d’Amelio ricorda l’odore acre dei copertoni bruciati, le auto in fiamme, le urla. Ricorda i volti degli anziani e dei bambini che ha aiutato a uscire dai palazzi sventrati. Ricorda tanto fumo. E all’improvviso, un uomo ben vestito, con una giacca, che cosa strana un uomo con la giacca dentro quell’inferno di fumo e fiamme. «Si aggirava attorno alla blindata del procuratore Paolo Borsellino – racconta l’ispettore Giuseppe Garofalo, uno dei primi poliziotti delle Volanti ad arrivare in via d’Amelio – chiedeva della borsa del giudice, l’ho subito fermato. “Scusi, chi è lei?”. Ha risposto: “Servizi segreti”. E mi ha mostrato un tesserino. L’ho lasciato andare, capitava spesso che sulla scena dei delitti di Palermo ci fossero agenti dei Servizi, non mi sono insospettito. Ma adesso mi chiedo chi fosse davvero quell’uomo».

L’ispettore Giuseppe Garofalo voleva fare l’archeologo da ragazzo. Ma ha finito per seguire le orme del padre, il maresciallo Garofalo è stato per quarant’anni una delle colonne portanti della squadra mobile di Ragusa. Fa il poliziotto anche il fratello di Giuseppe, e pure sua moglie. «Io l’università l’ho fatta alla sezione Omicidi della squadra mobile di Palermo – sussurra – anni difficili, quelli. Era il 1989. Le corse da una parte all’altra della città, a raccogliere cadaveri e misteri, troppi misteri a Palermo. E un giorno, l’incontro con il giudice Falcone, nel suo ufficio bunker al palazzo di giustizia. Alla fine, mi strinse la mano e mi disse: “In bocca al lupo per la sua carriera”».

Quel pomeriggio del 19 luglio 1992, Giuseppe Garofalo è il capopattuglia della volante 32. «Potevamo essere spazzati anche noi in via d’Amelio, perché generalmente la pattuglia faceva da apripista alla scorta di Borsellino. Ma quel pomeriggio non fummo chiamati dalla centrale operativa per accompagnare il giudice a casa della madre, chissà perché». Quando un boato squarcia Palermo, alle 16,58, la questura manda subito la volante 21. «Si pensava all’esplosione per una bombola di gas. Noi eravamo a Mondello, dico all’autista di stringere. E arriviamo pochi attimi dopo la 21. Non c’è nessuno in quella strada avvolta dal fumo». Il primo pensiero è per gli abitanti dei palazzi di via d’Amelio, che sembrano i palazzi di una zona di guerra.  «Ci siamo lanciati dentro, non abbiamo pensato che potessero esserci dei crolli, c’era gente insanguinata per le scale. Ricordo che abbiamo soccorso la mamma di Borsellino. Poi, io sono sceso in strada, di corsa. Il capo pattuglia della 21 stava già accompagnando in ospedale il superstite della scorta, Antonino Vullo. Io mi aggiravo in quell’inferno. Su un muro c’erano i resti di un collega, per terra la sua mitraglietta M12 sciolta per il terribile calore dell’esplosione. Per terra, quello che restava del procuratore Borsellino».

In via d’Amelio cominciano ad arrivare decine di persone che camminano sui reperti, sui resti, su tutto ciò che potrebbe costituire una traccia per arrivare agli stragisti. «All’improvviso, quasi senza accorgermene – così continua il racconto di Giuseppe Garofalo – mi ritrovo davanti quell’uomo ben vestito che chiede della borsa del giudice. E’ un attimo, un frame nella mia testa. Oggi, quell’uomo con la giacca è una persona che resta senza volto, i ricordi sono confusi». I magistrati di Caltanissetta hanno già ascoltato Garofalo, gli hanno anche mostrato diverse fotografie. Ma non è emerso nessun volto in particolare. «Quell’uomo è un fantasma – dice ora l’ispettore – e quel pomeriggio in via d’Amelio un incubo. Per un mese non riuscì a dormire. E in tutti questi anni non sono più voluto tornare in quei luoghi. Poi, due anni fa, mia figlia mi chiese di accompagnarla in via d’Amelio, le ho raccontato cosa avevo vissuto». Giuseppe Garofalo è poliziotto ormai di esperienza, ma ancora si commuove quando rievoca i suoi giorni a Palermo.

Alla Mobile, il suo dirigente fu Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto adesso al centro della bufera sul depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino. «Io non so quello che è successo – dice l’ispettore Garofalo – tutti siamo fallibili, ma quando io ero alla squadra mobile La Barbera era un esempio per tutti noi. Viveva praticamente in ufficio, ricordo di quando fece pulizia, qualche mese dopo il suo arrivo, buttando fuori gente che riteneva collusa o comunque avvicinabile». Un altro mistero. «Io ho fiducia che la verità un giorno la sapremo – dice Giuseppe Garofalo – dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni, la magistratura e le forze dell’ordine, che questa verità non hanno mai smesso di cercare, per onorare i nostri morti».

«Stanno smantellando il pool antimafia»: cosa disse Borsellino al CSM

“Ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia, nè temo mi si possa rispondere che il pool è stato anzi arricchito di nuovi elementi, poichè non si arricchisce certo un pool, se la sua essenza rettamente si intende, aumentando il numero dei suoi magistrati senza gli opportuni criteri di scelta e contemporaneamente disattendendo le ragioni stesse della creazione di tale organismo”. Sono le parole, nette e pesanti, che Paolo Borsellino, il 31 luglio del 1988 pronunciò davanti al Comitato antimafia del Csm per spiegare alcune sue dichiarazioni, rilasciate nei giorni precedenti, in un evento pubblico e con due interviste. Il pool antimafia di Palermo, di cui Borsellino aveva fatto parte prima di essere nominato procuratore capo a Marsala, “allo stato rappresenta l’unico organismo di indagine ancora efficace in materia di criminalità mafiosa, stante la carenza indubitabile delle forze di Polizia”, sottolineò il giudice, come emerge dall’audizione disponibile integralmente per la prima volta, dopo la desecretazione degli atti disposta da Palazzo dei Marescialli in occasione del 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui Borsellino e la sua scorta vennero uccisi dalla mafia.

L’audizione venne svolta qualche mese dopo la nomina di Antonino Meli (preferito dal Csm a Falcone) come consigliere istruttore a Palermo, prendendo così il posto che era stato di Antonino Caponnetto. “Non ho riferito le confidenze dei colleghi – spiegò Borsellino in merito alle preoccupazioni che aveva espresso sullo ‘smantellamento’ del pool – ma mi sono formato una convinzione sulla base di colloqui con persone con cui ho lavorato a lungo, con le quali ho un’intesa perfetta, su quella che era la situazione”. E ancora: “ho quindi riferito questa situazione che mi sembra fosse importantissimo riferire”, affermò il giudice nella sua audizione, perchè “o parliamo per enigmi o per allusioni e diciamo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica e la gente non capisce bene che cosa significa, oppure se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: ‘c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona piu””.

Borsellino si disse “sicuramente allarmato” perchè “quando contemporaneamente si verificano una stanchezza sia dell’opinione pubblica sia degli esponenti culturali su questo problema”, una “poca attenzione dello Stato nel suo momento amministrativo, perchè si continua a tenere la Sicilia, con riferimento agli organi di Polizia, in una situazione di assoluta marginalizzazione” e “quando insieme a ciò, il pool che è l’unico organo investigativo che, parliamoci chiaro, è quello che ha riaperto la questione, per iniziativa prima di Rocco Chinnici e poi di coloro che l’hanno seguito, quando tutto questo va male è certo che sono estremamente allarmato”.

In particolare, Borsellino mise in luce il fatto che “quando un pool sostanzialmente non è messo in condizione di rispondere alla sua attività, a quelle che sono le ragioni fondamentali della sua esistenza, difficili da cogliere se maturate in lunghi anni di funzionamento, e sostanzialmente è ridotto soltanto a un numero di tre, quattro, cinque magistrati che lavorano assieme, non è più un pool”. All’interno dell’Ufficio Istruzione, disse al termine dell’audizione durata 4 ore, “c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone”.

(fonte)

I professionisti dell’anti-antimafia

Bravissimo Mario Portanova per Il Fatto Quotidiano:

I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Italia, per far carriera di essere un professionista dell’anti-antimafia.

Ok, chiedo subito scusa per aver indegnamente rimaneggiato il celebre brano di Leonardo Sciascia, tratto dall’altrettanto celebre articolo I professionisti dell’antimafia, pubblicato esattamente trent’anni fa, il 10 gennaio 1987, sul Corriere della Sera. Resta il fatto che i professionisti dell’anti-antimafia, in questi tre decenni, si sono sempre visti garantire direzioni di giornali – magari foraggiati da contributi statali o da mecenati interessati -, programmi televisivi, rubriche, ospitate ai talk show nonché seggi parlamentari e posti da ministro. Anche più dei professionisti dell’antimafia evocati in quell’articolo.

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Chi sono i professionisti dell’anti-antimafia? Sono quelli che per mestiereattaccano sistematicamente i magistrati, che stanno sempre dalla parte dei politici accusati di collusione, anche dopo la sempre invocata “condanna definitiva” (Dell’Utri, Cuffaro…). Sono gli spacciatori di garantismo per l’uso personale di amici e amici degli amici. Sono quelli che fanno paginoni sugli antimafiosi caduti in disgrazia o sulle polemiche giudiziarie (ormai non solo palermitane), ma mai che gli scappi mezza riga sulle vittime di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della camorra: i piccoli commercianti taglieggiati, gli imprenditori usurati, i contribuenti saccheggiati quando gli appalti e i finanziamenti pubblici finiscono alle aziende dei boss con la complicità di una vasta “area grigia”.

Ieri il Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro, ha celebrato la “profetica lungimiranza” dell’articolo di Sciascia, collegandolo ai tanti guai che oggi colpiscono personaggi e sigle a vario titolo impegnati – o autoproclamatisi tali – nella lotta alle cosche: il giudice Silvana Saguto, l’ex presidente di Confcommercio Palermo Roberto Helg, il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, il giornalista Pino Maniaci, fino alle polemiche interne a Libera (per chi vuole approfondire, tutte vicende che ilfattoquotidiano.it ha ampiamente raccontato). Eccoli i “professionisti dell’antimafia” che il grande scrittore siciliano additò addirittura con trent’anni di anticipo. Ma le cose stanno davvero così? Andiamo a rileggere l’articolo originale.

Innanzitutto, Sciascia non usa mai il termine “professionisti dell’antimafia”, che è farina del sacco del titolista del Corriere. E neppure accenna a truffe e malversazioni in nome dell’antimafia. Il brano centrale – in un lungo articolo che prende spunto da un saggio inglese su regime fascista e Cosa nostra – è questo: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un solo giudice è citato, e in negativo. Si chiama Paolo Borsellino. La sua carriera antimafia finirà cinque anni più tardi, sappiamo come. Cavallaro racconta che poi lo scrittore e il magistrato si incontrarono e si spiegarono, e che Borsellino “non era il bersaglio” dell’articolo.

Anche in questo caso, ognuno può rileggerselo e valutare se il celebrato (oggi, allora non molto) eroe dell’antimafia ne uscisse bene o male. Trent’anni dopo, Nando dalla Chiesa resta convinto che il bersaglio fosse proprio lui, come rimarca oggi su Il Fatto Quotidiano. Aggiungendo che Borsellino, prima di essere assassinato con la sua scorta, “fece in tempo a dichiarare nell’ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone, che ‘Giovanni ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia’”.

L’altro bersaglio, non citato per nome, è l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Descritto nell’esempio di “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso”. Orlando può piacere o meno, ma ruppe con la Dcstoricamente complice di Cosa nostra in Sicilia (CianciminoLimaAndreotti… il boss-grande elettore Giuseppe di Cristina. Avevano fatto carriera lo stesso, anche più di Orlando). E oggi, trent’anni più tardi, nonostante la “lungimirante profezia” che lo vedeva occuparsi più di “convegni” che di “acquedotti”, i cittadini di Palermo conservano Orlando sulla stessa poltrona, dopo aver sperimentato altri sindaci che certo dell’antimafia non facevano né una professione né una passione. Piuttosto erano politicamente imparentati con Silvio Berlusconi, quello che il mafioso – sotto forma di stalliere – se lo teneva in casa.

Ancora un paio di cose. Dieci mesi dopo l’articolo di Sciascia, il 17 dicembre, lo stesso Corriere della Sera, a firma di Alfio Caruso, commentava così la sentenza di primo grado del maxiprocesso di Palermo, oggi unanimemente riconosciuta come il primo grande colpo dello Stato contro Cosa nostra (che infatti reagirà con le stragi): “Ieri sera, in un punto imprecisato degli Stati Uniti, Tommaso Buscetta è tornato a far parte della mafia vincente”, si leggeva sul quotidiano milanese. “Glielo hanno permesso i giudici che a Palermo, accogliendo le sue confessioni, hanno punito le grandi famiglie dell’onorata società, gli uomini che avevano decretato lutti e terrori per amici e consanguinei del boss dei due mondi”. Più avanti, un cenno “agli inguaribili ottimisti che parlano di sentenza storica”.

Chi aveva istruito quel processo? Borsellino e Falcone (giudice a latere l’attuale presidente del Senato Piero Grasso). Anni più tardi, su Repubblica del 29 ottobre 1993, lo scrittore Corrado Stajano, storica firma delle pagine culturali del Corriere, descriverà così il clima di quegli anni in via Solferino: “Per tutti gli anni Ottanta non mi è stato permesso di scrivere di mafia. Eppure ero tra i pochi a conoscere i fatti e ad avere letto tra l’altro le 8mila pagine dell’ordinanza-sentenza del maxiprocesso”. Un’esclusione che si spiegava “forse perché stavo dalla parte del pool antimafia”, ricordava Stajano, in un’epoca in cui “le direzioni dei giornali esercitavano un controllo micragnoso, assillante” su qualunque notizia potesse “nuocere o spiacere ai governanti”. Questo per dire il contesto, tanto per restare in tema sciasciano. C’era un potere politico che storicamente intrallazzava con la mafia, e per non turbarlo era meglio recintare per bene le cronache palermitane, compresi gli atti vergati dai futuri eroi nazionali Falcone e Borsellino.

Vale poi la pena di aggiungere che altre intuizioni dello scrittore di Racalmuto non hanno avuto alcuna fortuna presso i professionisti dell’anti-antimafia che solo per quelle poche righe mostrano di idolatrarlo. Per esempio l’intervista del 1970 a Giampaolo Pansa – quella sì davvero profetica – sulla “linea della palma”, cioè la mafia, che si spostava progressivamente dalla Sicilia verso il Nord Italia, cosa puntualmente accaduta nell’indifferenza pressoché generale, almeno fino ad anni recenti. Oppure, tanto per dire, la descrizione di un comizio della Democrazia cristiana in Le parrocchie di Regalpetra (1956), dove “la mafia ha qua e là paracadutato i suoi elementi più suggestivi”.

Detto questo, l’articolo di Sciascia lasciò – e lascia ancora, a trent’anni di distanza – il segno fra i variegati antimafiosi che non di rado hanno tutte le sue opere ben allineate nella libreria di casa. Uno di loro, Lillo Garlisi, racalmutese e sciasciano di ferro, oggi editore a Milano con Melampo, all’epoca lo condannò con forza. Ieri, in una discussione fra amici su WhatsApp, ha scritto: “Allora sbagliammo a non cercare di ricucire con Sciascia. La zona grigia trovò l’ideologia che le mancava. Lo regalammo al nemico”.

Forse in quell’articolo di trent’anni fa una parte profetica ci fu davvero. Ha poco a che fare con Borsellino e molto con l’antimafia di oggi. Scriveva Sciascia che, nel momento in cui qualcuno “si esibisce” come antimafioso, difficilmente qualcun altro oserà criticarlo o attaccarlo, anche con ragioni fondate, perché correrebbe “il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”. E’ il tema centrale individuato da Francesco Forgione, già presidente della Commissione parlamentare oggi guidata da Rosy Bindi, fautore di un contrasto culturale ai clan più sociale e meno legato a icone e santini, nel suo recente libro I tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti (Rubbettino 2016). “Per troppo tempo”, scrive Forgione, “l’antimafia non ha discusso di se stessa, della sua vita, del suo modo d’essere”. Lasciando così correre le aberrazioni, quando non il malaffare, anche quando qualche segnale poteva essere colto e qualche allarme lanciato. Non ha discusso, argomenta Forgione, proprio per la ragione indicata da Sciascia. Perché mettere in discussione l’operato di certe figure significava “incorrere nell’accusa di sovraesporle al rischio di diventare vittime dei killer mafiosi”. Così ai professionisti dell’anti-antimafia si è lasciato l’intero campo da gioco.

«Ma io senza di te sono morta»

Se mi chiedessero che spremuta di cuore bere per alfabetizzarsi sul movimento antimafia in Italia andrei a scegliere le parole senza troppe fioretti di una piccola testimone di giustizia. Qui, da noi, dove essere testimoni di giustizia significa smettere di fare ombra per sperare di sopravvivere, come se fosse una colpa raccontare la verità. Sono le parole di Rita Atria appuntate sul suo diario dopo la morte di Paolo Borsellino che per Rita era giudice, padre, protettore e speranza. Scriveva Rita:

«Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. 

Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amicila mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta.»

Ecco: l’amore per la legalità e la giustizia è questa cosa qui, questo senso che gocciola dalle parole di un’adolescente. Studiatela, ricordatela Rita Atria, qui c’è il sito dell’associazione che ancora oggi, vent’anni dopo, se ne prende cura.

Caro Borsellino, la favola s’è rotta

Caro Paolo,

anche oggi è il 19 luglio e un anno ancora è via d’Amelio, la bomba, la scorta, il dolore e i vostri tronchi anneriti per terra. Una commemorazione sciancata, qui da noi, il 19 luglio: ricordiamo tutti gli anni una storia che nessuno s’è preso la briga di raccontarci. Abbiamo i buoni, morti, e ci mancano i cattivi. Abbiamo un processo che si è riaperto dopo vent’anni come le ossa che sono state saldate male dopo una frattura e vanno spezzate di nuovo per sperare di guarirle, siamo pieni di gente che commemora anche se nessuno sa.

Caro Paolo,

quella menti raffinatissime si sono fatte Stato e i coglioncelli mafiosi al loro servizio sono stati beffati. Alla fine lo Stato s’è infiltrato nella mafia, mica il contrario, e ogni boss che muore è un’assicurazione sulla vita di quelli che rimangano.

Non sparano più, caro Paolo: un decreto costa meno del tritolo e fa pure meno rumore. La mafia è sparita dall’agenda della politica e un senatore arrestato sembra al massimo un inciampo che può capitare.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Roberto Scarpinato scrive a Paolo Borsellino

L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.

” Caro Paolo,

oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.

E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.

Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.

Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.

Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.

Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.

E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.

Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.

Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.

Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.

Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.

Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.

Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.

Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.

Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.

E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.

Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.

Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.

Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.

E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.

Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.

Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.

Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.

Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.

E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.

Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.

Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.

Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.

Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.”

L’agenda rossa? Un delirio della figlia di Borsellino

Parole e opere di Arnaldo La Barbera, nel bel pezzo di Giuseppe Pipitone::

La borsa che custodiva quell’agenda rossa finì ovviamente agli atti degli inquirenti subito dopo la strage che massacrò Borsellino e gli uomini della scorta. “Dopo la strage – ha spiegato Lucia – la borsa ci venne riconsegnata dal questore Arnaldo La Barbera, ma mancava l’agenda rossa. Mi lamentai subito della mancanza di quell’agenda rossa. Ho avuto una reazione scomposta. Me ne andai sbattendo la porta. Chiesi con vigore che fine avesse fatto la borsa e La Barbera, rivolgendosi a mia madre, le disse che probabilmente avevo bisogno di un supporto psicologico perché era particolarmente provata. Mi fu detto che deliravo. La Barbera escludeva che l’agenda fosse nella borsa”. Sulla scomparsa del diario di Borsellino è già stato celebrato a Caltanissetta un processo (concluso con l’assoluzione) a Giovanni Arcangioli, il carabiniere immortalato pochi attimi dopo la strage mentre si muove in via d’Amelio con in mano la borsa del giudice.