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Paolo Borsellino

Strage Borsellino: il depistaggio si fa Stato

scarantino-675.jpgIo non riesco a capire perché il falso pentito Scarantino (che in questi giorni sta rilasciando delle deposizioni incredibili sugli uomini di Stato che l’hanno costretto a dichiararsi colpevole per l’omicidio del Giudice Paolo Borsellino) passi sotto tutto questo silenzio. Non riesco davvero a capire perché un’Antimafia di Governo che si strilla in faccia per De Luca finga di non vedere e di non sapere che la verità sulla morte di Falcone e Borsellino finora non è altro che la sabbia di una menzogna di fango. E nemmeno le grandi associazioni antimafia, quelle che non lesinano una parola di comprensione a nessuno pur di essere onnipresenti, alzano la voce. Questo è un Paese che non riesce a cercare la verità. Nemmeno adesso che dovrebbe essere molto più semplice e invece si continua a stare zitti. E quando lo Stato sta zitto sulle mafie significa che è ancora ricattabile da loro. E questa cosa, lo confesso, mi fa volare via dalla rabbia e dalla disperazione perché significa che le radici del potere sono sempre le stesse.

Ecco l’articolo de Il Fatto:

“Lo sapevano tutti che ero un falso pentito. Lo dicevo anche ai pm che io, con l’omicidio del dottor Borsellino, non c’entravo nulla”. L’esame di Vincenzo Scarantino nel Borsellino Quater è andato avanti per tre giorni, con pazienza gli inquirenti stanno ricomponendo un puzzle impossibile. E’ la fotografia di un clamoroso depistaggio di Stato ciò che per 20 anni si è nascosto dietro la strage di via D’Amelio.

L’ex picciotto della Guadagna racconta che l’allora procuratore generale di Caltanissetta, il dottor Giovanni Tinebra, provava a lenire il suo senso di colpa spiegandogli che avrebbe dovuto prendere la sua falsa collaborazione come un lavoro, mentre la dottoressa Anna Maria Palma lo consolava spiegandogli che i nomi che lo spingevano a fare, nella fantasiosa ricostruzione della strage, erano comunque colpevoli di altri crimini. Dichiarazioni pesanti, a Scarantino trema la voce, ma è stanco di mentire, è stanco di fingere e più volte in aula scoppia a piangere. “Mi sento addosso 130 anni. Credetemi, ho visto di tutto nella mia vita, imploro pietà, vorrei solo essere lasciato in pace”. Enzino dice di aver paura, lascia intendere di subire ancora pressioni, ma su domanda specifica, dopo un lungo silenzio, con un filo di voce aggiunge “è meglio che non parliamo di queste cose”.

Allora si parla d’altro, si torna indietro nel tempo e dei suoi rapporti con gli uomini del gruppo Falcone-Borsellino. “Il dottor Bo voleva che mi accollassi anche un duplice omicidio. Ricordo che era stato ucciso un poliziotto insieme alla moglie in cinta”. E’ l’omicidio, tutt’oggi avvolto nel mistero, di Nino Agostino e della sua giovane sposa. Una dichiarazione che completa ciò che il papà di Agostino, appena un anno fa aveva pubblicamente denunciato. “Nella disperata ricerca di Faccia da Mostro, nel 1990 il dottor Arnaldo La Barbera mi ha convocato diverse volte in questura per mostrarmi delle fotografie dei possibili autori dell’omicidio di mio figlio. Tutte le volte puntava il dito su un tipo biondino che non avevo mai visto prima. Solo dopo la strage di via D’Amelio, quando vidi in televisione il volto del pentito cardine di quel processo riconobbi che si trattava di Scarantino”.

Un fantoccio perfetto, ignorante, emarginato e ricattabile. Pronto all’uso per qualsiasi crimine da insabbiare, mistificare o depistare. E’ questo il profilo di Scarantino che emerge dall’ultima udienza del Borsellino quater. “Mi facevano studiare sul libro di Buscetta per imparare a essere un bravo collaboratore di giustizia, prima degli interrogatori mi dicevano cosa dovevo dire”, riprende Scarantino dopo una lunga pausa. “Ci risulta che lei fosse in possesso dei verbali da lei stesso resi prima ancora che venissero depositati, chi glieli dava?” chiede il pm Gabriele Paci commentando che “questo è il teatro dell’assurdo”. Glieli dava la dottoressa Palma tramite il funzionario di polizia Mattei, spiega Scarantino, “faceva parte del mio indottrinamento perché a volte sbagliavo e bisognava correggere il tiro per far collimare le mie dichiarazioni con quelle degli altri due pentiti, Candura e Andriotta”.

In fondo all’aula, ad ascoltare le dichiarazioni di Scarantino c’è Tanino Murana, un povero cristo che ha scontato 19 anni di 41bis per colpa delle false dichiarazioni di Enzino. Non si è perso neanche un’udienza, è parte civile e in ballo c’è la sua vita. Il pentito farlocco gli chiede perdono, ma Tanino l’ha perdonato da un pezzo. “Enzo è una vittima, proprio come me”.

Il prossimo 19 luglio saranno passati 23 anni dalla morte del giudice Borsellino e degli uomini della sua scorta. C’è solo da augurarsi due cose: che nella vetrina di via D’Amelio nessuno si batterà più il petto dicendo che quella stage è orfana della verità e che la dottoressa Palma, di recente trasferita alla procura generale di Catania, faccia un passo indietro quando alla sua Procura verrà chiesto di revisionare il Borsellino bis.

PS Siamo in dirittura d’arrivo del nostro crowdfunding per il mio prossimo spettacolo e libro. Se volete darci una mano potete farlo qui. E passatene parola. Se potete e se volete. Grazie.)

I falsari dell’antimafia

Un atto d’accusa di Saverio Lodato che credo vada letto. Si può essere d’accordo o meno ma, credetemi, vale la pena leggerlo e pensarci:

capaci-copyright-shobhaDicevamo prima: ma di quale “antimafia” stiamo parlando? Ecco, appunto.
Dell’”antimafia” che trova le porte spalancate a Palazzo Chigi, a Palazzo Madama, al Quirinale o in Vaticano?
O stiamo parlando di un‘altra “antimafia”?
Di un'”antimafia” minuscola, piccola piccola, quella che non compare nei tg, nelle prime pagine dei quotidiani, nelle rappresentazioni epiche del regime?
E’ stata fatta un’operazione sporca.
E cercheremo adesso di spiegarla in due parole.
E’ accaduto che in questi 23 anni di anniversari, anno dopo anno, su un piatto della bilancia veniva scaraventato il peso del passato, sotto forma di enfasi, di cerimonia, di retorica pomposa.
Il piatto del presente, dell’attualità, invece, restava vuoto.
Questo era il trucco, questo era il giochetto.
Un sottilissimo bisturi invisibile recideva così, per mano di istituzione, il filo fra passato e presente, fra il c’era una volta e il “qui e ora”.
Una cosa, insomma, era Falcone, una cosa sono le mafie romane.
Una cosa sono gli inquisiti per mafia, che non risparmiano più nessuna regione e nessun capoluogo di provincia e nessun partito, una cosa sono i “mafiosi” battezzati come tali da Falcone trent’anni fa.
Una cosa sono “quelli” di allora, una cosa sono “quelli” di oggi (Nino Di Matteo docet!).
Non facciamola troppo lunga.
In Italia, la mafia oggi c’è. Ce ne sono tante.
E che ci sia (e che ci siano), lo sanno in tutto il mondo.
Ma noi, che siamo un Paese di guitti, il 23 maggio e il 19 luglio facciamo finta di commemorare ciò che accadde. E ci diciamo “antimafiosi”.
Che in molti si siano stancati, è fisiologico.

(fonte)

Quella “testa di minchia” di Giovanni Falcone

Borsellino l’ha sempre saputo. Da che parte stare. E dove sarebbe finito. Ma non ha mai rinunciato alla sublime arte dell’autoironia. Consapevole che un sorriso non risolve tutto, ma aiuta a vivere la vita. A volte, a sopportarla.  Un giorno Paolo disse a Falcone, il suo grande amico di sempre.

“Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: “Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”.

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Non bisogna avere paura della verità

L’intervento in via d’Amelio di Nino Di Matteo

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Prendere oggi la parola, in questo luogo e nella stessa ora della strage di ventidue anni fa, è per me un grande onore ed una grande responsabilità alla quale non ho voluto sottrarmi con la precisa consapevolezza che le commemorazioni di oggi avranno un senso solo se sostenute dall’impegno, dalla passione civile, dal coraggio che dobbiamo dimostrare da domani.
Non ho voluto sottrarmi alla profonda emozione che vivo in questo momento perché innanzitutto sento il bisogno di ringraziare, da cittadino, quei cittadini che, come tanti di voi, continuano a dare quotidiana testimonianza di essere innamorati della Giustizia, della Democrazia, della Costituzione, del nostro Paese. Per questo, riconoscendo in Paolo Borsellino l’incarnazione di quei sentimenti di amore e libertà, cercano di conservarne e tramandarne la memoria. Per questo si pongono a scudo di quei sacrosanti valori contro i tanti che anche oggi, anche nelle Istituzioni e nella Politica, continuano a calpestarli ed offenderli con l’arroganza dei prepotenti e degli impuniti.
Voglio ringraziare i tanti cittadini che, nella semplicità e spontaneità delle loro espressioni di solidarietà, hanno saputo riconoscere coloro i quali ancora si battono per la verità, dimostrando di volerli proteggere non solo dalle insidie della violenza mafiosa ma ancor prima dal muro di gomma della indifferenza istituzionale, dal pericolo di quel tipo di delegittimazione ed isolamento che si nutre, oggi come ieri, di silenzi colpevoli, insinuazioni meschine, ostacoli e tranelli costantemente ed abilmente predisposti per arginare  quell’ansia di verità che è rimasta patrimonio di pochi. Quei pochi che ancora non sono annegati nella palude del conformismo, del quieto vivere, dell’opportunismo più bieco sempre più spesso mascherato dalla  invocata  opportunità politica.

Sono qui per dirvi che voi avete il sacrosanto diritto di continuare a chiedere tutta la verità sulla strage di via D’Amelio e noi magistrati  il dovere etico e morale di continuare a cercarla anche nei momenti in cui, come questo che stiamo vivendo,  ci rendiamo conto  di quanto quel cammino costi, sempre più, lacrime e sangue a chi non ha paura di percorrerlo anche quando finisce per incrociare il labirinto del potere.
Per continuare a ricercare la verità è però innanzitutto necessario, con  grande onestà intellettuale, rispettare la verità e non avere mai paura a declamarla anche quando ciò può apparire impopolare o sconveniente.
Paolo Borsellino ci ha insegnato a non avere mai paura della verità. Non dobbiamo avere allora paura  a ricordare  che  affermano il falso i tanti che per ignoranza, superficialità o strumentale interesse ripetono che i processi celebratisi a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio hanno portato ad un nulla di fatto. Ignorano o fingono di ignorare che ventidue persone sono state definitivamente condannate per concorso in strage; ignorano, o fingono di ignorare che proprio quel lavoro di tanti magistrati ha consentito che venissero già allora  alla luce i tanti e concreti elementi che oggi ci portano a ritenere  che quella di via D’Amelio non fu soltanto una strage di mafia e che il movente non era certamente esclusivamente legato ad una vendetta mafiosa nei confronti del Giudice.
Dobbiamo imparare il rispetto della verità ed il coraggio della sua affermazione ad ogni costo.
Non è vero ciò che tutti indistintamente affermano, e falsamente rivendicano, sulla volontà di fare piena luce sulle stragi. La realtà è un’altra. Questo intendimento è rimasto patrimonio di pochi, spesso isolati e malvisti, servitori dello Stato.
Dal progredire delle nostre indagini sappiamo che in molti, anche all’interno delle istituzioni, sanno  ma continuano a preferire il silenzio, certi che quel silenzio, quella vera e propria omertà di Stato, continuerà, esattamente come è avvenuto fino ad ora, a  pagare ,con l’evoluzione di splendide carriere e con posizioni di sempre maggior potere acquisite proprio per il merito di aver taciuto, quando non anche sullo squallido ricatto di chi sa  e utilizza il suo sapere per piegare le Istituzioni alle proprie esigenze.
Dobbiamo sempre avere il coraggio di rispettare la verità e gridare la nostra rabbia perché ancora nel nostro Paese il cammino di liberazione dalla Mafia è rimasto a metà del guado. Incisivo, efficace, giustamente rigoroso nel contrasto ai livelli operativi più bassi (quelli della manovalanza mafiosa); timoroso, incerto, con le armi spuntate nei confronti di quei fenomeni, sempre più gravi e diffusi, di penetrazione mafiosa delle Istituzioni, della Politica e della Economia. Verso quel pericolosissimo dilagare della mentalità mafiosa che inevitabilmente si intreccia con una corruzione diffusa che, solo a parole, si dice di voler combattere, mentre ancora, nei fatti si assicura ai ladri, ai corrotti, agli affamatori del popolo la sostanziale impunità.
Non si può ricordare Paolo Borsellino e restare silenti a fronte di ciò che sta accadendo nel nostro Paese  e che rappresenta l’ennesima mortificazione di quei valori per tutelare i quali il Giudice Borsellino è andato  serenamente incontro al suo destino con la fierezza e la dignità di un uomo dalla schiena dritta. Non si può ricordare Paolo Borsellino ed assistere in silenzio ai tanti tentativi in atto  (dalla riforma già attuata dell’Ordinamento Giudiziario a quelle in cantiere sulla responsabilità civile dei giudici, alla gerarchizzazione delle Procure anche attraverso  sempre più numerose e discutibili prese di posizione del C.S.M.) finalizzate a ridurre l’indipendenza della Magistratura a vuota enunciazione formale con lo scopo di comprimere ed annullare l’autonomia del singolo Pubblico Ministero ed il concetto di potere diffuso  in capo a tutti i rappresentanti di quell’Ufficio. Non si può assistere in silenzio all’ormai evidente tentativo di trasformare il Magistrato Inquirente in un semplice burocrate inesorabilmente sottoposto alla volontà, quando non anche all’arbitrio, del proprio capo; di quei Dirigenti degli Uffici sempre più spesso nominati da un C.S.M. che rischia di essere schiacciato e condizionato nelle sue scelte di autogoverno dalle pretese correntizie e politiche e da indicazioni sempre più stringenti del suo Presidente.
Non si può fingere di commemorare Paolo Borsellino quando nei fatti si sta tradendo il suo pensiero e il suo sentimento; il suo concetto, alto e nobile, dell’autonomia del Magistrato  come garanzia di libertà ed eguaglianza per tutti. Poco prima di essere ucciso il Giudice Borsellino, intervenendo ad un incontro con gli studenti sull’annoso problema dei rapporti mafia-politica, stigmatizzava l’inveterata prassi del ceto politico di ripararsi, per giustificare la mancata attivazione dei necessari meccanismi di responsabilità politica, dietro il comodo paravento dell’attesa  della definitività dell’accertamento giudiziario, nell’attesa quindi del passaggio in giudicato delle sentenze penali.
Oggi, a distanza di ventidue anni da quelle amare riflessioni di Paolo Borsellino, qualcosa è cambiato, ma non certamente in meglio. In una sentenza definitiva della Corte di Cassazione è accertato che un partito politico, divenuto forza di Governo nel 1994, ha poco prima annoverato tra i suoi ideatori e fondatori un soggetto  da molto tempo colluso con gli esponenti di vertice di Cosa Nostra e che da molti anni fungeva da intermediario consapevole dei loro rapporti con l’imprenditore milanese che di quel partito politico divenne, fin da subito, esponente apicale. Oggi questo esponente politico (dopo essere stato a sua volta definitivamente condannato per altri gravi reati) discute, con il Presidente del Consiglio in carica di riformare la legge Elettorale e quella Costituzione alla quale Paolo Borsellino aveva giurato quella fedeltà che ha osservato fino all’ultimo suo respiro. E’ necessario non perdere la capacità di indignarsi e trovare, ciascuno nel suo ruolo  e sempre nell’osservanza delle regole, la forza di reagire. Tutti  abbiamo il dovere di evitare che anche da morto Paolo Borsellino debba subire l’onta di veder calpestato il suo sogno di Giustizia. Quel meraviglioso ideale che condivideva con Giovanni Falcone, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina , Claudio Traina, e tanti altri giusti. Quei giusti la cui memoria non merita inganni, infingimenti, atteggiamenti di pavidità mascherati da prudenza istituzionale. Sono morti perché noi allora non fummo abbastanza vivi, non vigilammo, non ci scandalizzammo all’ingiustizia,ci accontentammo dell’ipocrisia civile, subimmo quel giogo delle mediazioni e degli accomodamenti che anche oggi ammorba l’aria del nostro Paese ed ostacola il lavoro di chi vuole tutta la verità. Noi continueremo a batterci, con umiltà ma altrettanta tenacia e determinazione. Lo faremo nelle aule di Giustizia e, per ciò che ci è consentito, intervenendo nel dibattito pubblico per denunciare i gravi e concreti rischi che incombono sulla indipendenza della Magistratura e, quindi, sul principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Lo faremo mantenendo sempre nel cuore l’esempio dei nostri morti, guidati esclusivamente dalla volontà di applicare i principi della nostra Costituzione e con lo sguardo fisso alla meta della verità, consapevoli che solo la ricerca della verità può legittimarci a commemorare chi è morto dopo aver combattuto la giusta battaglia.

Nino Di Matteo

Borsellino

Ancora un altro anno senza verità. E l’eredità usata come suppellettile.
Mi viene da pensare solo a questo.

L’antimafia faccia autocritica

Pubblichiamo la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi.

Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata.

E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto.

Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale?

La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino?

Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione?

Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato ilCsm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia.

Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione?

E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli.

Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità.

In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: il movimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

 di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta

Sull’omicidio di Borsellino intanto segnatevi un nome: Angelo “Ninni” Sinesio

Per chi bazzica le carte processuali non è nome sconosciuto ma sicuramente per i più è una sorpresa. E la sua carriera sorprendente. Ne scrive Malitalia:

Uno di quelli che frequentava di più Paolo Borsellino sarebbe stato un funzionario dell’allora alto commissariato per la lotta alla mafia, tale Angelo “Ninni” Sinesio. I magistrati che lavoravano con Borsellino spesso lo vedevano presente nell’ufficio del procuratore già quando questi guidava la Procura di Marsala. Una presenza diventata “familiare”, non stonava perché il procuratore Borsellino sarebbe stato solito metterlo a suo agio. Sinesio oggi ha fatto carriera, è diventato prefetto, è stato prefetto vicario a Catania quando prefetto era l’attuale ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, che lo ha voluto fino a febbraio scorso al Viminale a capo della sua segreteria tecnica ed che oggi è commissario straordinario per l’emergenza edilizia delle carceri. Carriera, quella di Sinesio, che non è stata fermata nemmeno dal fatto che sarebbe stato sospettato addirittura di essere stato la “gola profonda” che avrebbe avvisato Bruno Contrada, il numero due del Sisde, delle indagini sul suo conto. Sinesio è stato sentito nel processo contro Contrada, ha detto che il “segreto” sul super agente dei servizi lo aveva confidato ad un suo superiore, il dott. De Luca, e che semmai era stato questo a passare l’informazione a Contrada che così seppe che lo stavano andando ad arrestare. Nella sentenza che ha condannato Bruno Contrada la vicenda è bene raccontata, Sinesio aveva avuto l’informazione parlando con uno dei magistrati più vicini a Paolo Borsellino, la dott. Alessandra Camassa, nei giorni seguenti la strage di via D’Amelio. Il pm Camassa conosceva Sinesio per averlo visto spesso con Borsellino, dunque era una persona della quale era indotta a fidarsi, ma quel giorno in cui parlarono di Contrada la reazione di Sinesio sarebbe stata anomala, avrebbe avuto come una reazione nervosa, un conato di vomito, si allontanò dalla stanza del magistrato per andare in bagno, per poi tornare subito dopo. Di Sinesio scrive anche Contrada nel suo memoriale, l’ex dirigente dei servizi, condannato per mafia, lo indica come la persona che gli disse delle indagini sul suo conto.

Oggi emergono altri particolari, che vengono letti sotto diversa luce proprio per il “marciume” che va emergendo attorno alle strategie stragiste mafiose. E ancora una volta si sente parlare di  Sinesio.Questi avrebbe cercato in tutti i modi di sapere a cosa si stava interessando Borsellino nei giorni in cui la mafia, e forse non solo la mafia, decidevano di eliminarlo per sempre. Incontrava i magistrati più vicini a Borsellino presentandosi addolorato, sconfortato, per quello che era successo a via D’Amelio, e chiedeva, chiedeva se Borsellino si occupava di politici, di politici e imprenditori agrigentini, sembra che i suoi interessi erano puntati a conoscere se Borsellino indagava sul ministro Mannino e sull’imprenditore Salamone, uno degli imprenditori che saltava fuori dalle indagini sulla tangentopoli siciliana. Interessi pressanti, costanti, tanto insistenti che alla fine hanno suscitato qualche perplessità nei suoi interlocutori, alla fine è uscito di scena.

Se Riina perde la maschera

Abbiamo vissuto due tempi paralleli in questi ultimi anni, accorgendosene poco, sulla proiezione di Totò Riina: da una parte il boss raccontato (a volte anche male inseguendo fascinazioni negative) e dall’altra l’anziano e corto detenuto che ha sempre finto di essere solo anziano e corto. Ora le indiscrezione de Il Fatto Quotidiano sulle intercettazioni catturate durante l’ora d’aria del boss al 41 bis nel carcere di Opera fanno finalmente cadere il velo:

“Questi cornuti… (i pm di Palermo, ndr), se fossi fuori gli macinerei le ossa”. E ancora bisbigliando: “Sono stati capaci di portarsi pure Napolitano”.

Il boss corleonese parla anche dell’ex premier Berlusconi: “A quello carcere non gliene fanno fare… Ci vuole solo che gli concedano la grazia”. E poi, rispondendo agli elogi di Lorusso: “Io sono sempre stato un potentoso deciso, non ho mai perso tempo… e se fossi libero, saprei cosa fare, non perderei un minuto, a questi cornuti gli macinerei le ossa”.

Riina non ha freni con il suo interlocutore arrivando a parlare anche delle stragi del 1992, quelle di Capaci e via d’Amelio: “Quello venne per i tonni – ha detto alludendo a Falcone che nel maggio del ’92 era stato invitato a Favignana ad assistere alla mattanza – e gli ho fatto fare la fine del tonno”.

“U curtu” parla di “segreti fittissimi”, in particolare proprio su Capaci. Cose che “i picciotti di Cosa nostra non dovranno sapere mai”. L’unico ad aver avuto il quadro completo, a suo dire, è stato il pentito Totò Cancemi, ex capomandamento di Porta Nuova, deceduto nel 2011.
Ma è sul processo trattativa Stato-mafia che Riina sfoga la sua rabbia: “Mi fa impazzire. Questi pm mi fanno impazzire”. In particolare rivolge le proprie affermazioni contro il pm Antonino Di Matteo: “Ma che vuole questo? Perché mi guarda? A questo devo fargli fare la fine degli altri. Fa parlare i pentiti, gli tira le cose di bocca è uno troppo accanito”.
Le cimici registrano tutto e dall’altra parte ascolta gli inquirenti della Dia e della Procura di Palermo. Riina è come un fiume in piena e parla anche della strage che ha portato alla morte di Rocco Chinnici nell’83: “A quello l’ho fatto volare in aria, saltò in aria e poi tornò per terra, fece un volo”.

Riina parla delle stragi descrivendosi come il capo dell’organizzazione che sfidò lo Stato, dicendosi rammaricato per non aver potuto proseguire anche se avrebbe agito in maniera diversa rispetto ai suoi “successori”: “Io avrei continuato a fare stragi in Sicilia, piuttosto che queste cose in Continente, cose ambigue… dovevamo continuare qui”.

Ora le domande sono spontanee:

– Perché Riina teme così tanto il processo sulla presunta “trattativa”?

– Quali sono le “cose ambigue” fatte in Continente su cui Riina non era d’accordo?

– Se i pm di Palermo fanno addirittura “parlare i pentiti” chi sono quei pm che non li hanno fatti (o non li fanno) parlare?

– Perché escono queste intercettazioni?

Ecco, sarebbe bello partire da qui.

Ti racconterò tutte le storie che potrò

ti-raccontero-tutte-le-storie-che-potroIn quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano.
Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora.

Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare.
Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta,  niente altro. Non è mai cambiato in questo. Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.
Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. “Forse ci fu cosa?”.
Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu”.
* * * Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.
Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio padre, il professore di università».
Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.
Alle feste, guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò. La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore. Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco».
* * * Paolo era sempre il primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni: “Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare”.
* * * Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido».
* * *L’ultima occasione in cui ho visto veramente sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia. In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva. Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.
* * * Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni uomini  delle istituzioni con Cosa nostra. Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me, né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio. Mi disse: «Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta». Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. «Per me è finita. Agnese, non facciamo programmi. Viviamo alla giornata». Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.
Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.

Tratto da: “Ti racconterò tutte le storie che potrò”
Agnese Borsellino con Salvo Palazzolo
(Editore Feltrinelli, € 18.00, pagine 224, IN USCITA IL 6 NOVEMBRE 2013)