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Paolo Gentiloni

Cosa ci va a fare l’Italia in Niger?

L’Italia dichiara guerra, ovviamente senza discussione in Parlamento, e la domanda nasce spontanea. Tra le risposte possibile vale la pena leggere quelle del blog Senza Soste:

L’Italia annuncia l’intervento dopo che, in molta stampa francofona africana, la situazione nel Niger è stata definita come vicina a un significativo punto di rottura. I motivi ufficiali dell’intervento sono due e c’è anche un terzo da non trascurare. Il primo è quello di contenere significativamente la guerriglia islamista nel Niger, e vedremo quale sarà il ruolo dei 400-450 italiani inviati in quel paese, il secondo è quello di respingere le migrazioni, lì causate dalla crisi dell’acqua, con il solito trucchetto retorico della lotta ai trafficanti di uomini (quelli, come in Libia, che non si sono trasformati in “manager” per campo di concentramento per migranti). Poi c’è il terzo, tenuto in discrezione: il Niger ha appena ottenuto un finanziamento, dalla conferenza parigina di donatori, della bella somma di 23 miliardi di dollari (http://afrique.lepoint.fr/economie/niger-23-milliards-de-dollars-pour-la-croissance-et-la-securite-21-12-2017-2181816_2258.php ). Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, allo “sviluppo e alla sicurezza”, delle dimensioni che Renzi si sognerebbe la notte, i cui appalti sono destinati a imprese europee. Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo. Per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”. Certo, c’è da chiedersi quanto le infrastrutture progettate in quel paese risolvano o aggravino la grande crisi idrica, e quella sociale correlata. Ma è una domanda fuori portata per le forze politiche italiane che devono ancora vedere come capitalizzare elettoralmente -ovvero minimizzando o sparando propaganda contro qualcuno- tutta questa vicenda.

Insomma, ad essere cinici con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura . Dal punto di vista strategico-militare, quello dei rapporti con la Francia e del contenimento dell’immigrazione, i problemi sembrano esserci. Come testimonia un analista, sicuramente di destra ma intellettualmente lucido: Gianandrea Gaiani di Analisi Difesa http://www.analisidifesa.it/2017/12/luci-e-ombre-sulla-missione-italiana-in-niger/

Dal punto di vista di Gaiani, nonostante lo sforzo italiano (per noi degno di miglior causa), non è nè garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, nè il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. Pare garantito, aggiungiamo noi, il canale degli appalti in Niger dopo la conferenza dei donatori e, forse, quello è lo scopo che ha messo d’accordo tutti nel governo. Ora si tratta di capire quale sarà l’iter istituzionale della missione. Anche se, da tempo, l’invio di truppe, specie con le nuove leggi in materia, segue sempre meno la strada della discussione in parlamento. E le forze politiche?

(l’articolo completo è qui)

È che ci vuole il fisico, per sapere non fare la guerra

Angelino Alfano, ministro agli Esteri: «L’Italia comprende le ragioni di un’azione militare USA proporzionata nei tempi e nei modi, quale risposta a un inaccettabile senso di impunità nonché quale segnale di deterrenza verso i rischi di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad, oltre a quelli già accertati dall’ONU».

Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio: «L’azione ordinata dal presidente Trump. È una risposta motivata a un crimine di guerra. L’uso di armi chimiche non può essere circondato da indifferenza e chi ne fa uso non può contare su attenuanti o mistificazioni».

Nicola La Torre, senatore del PD, presidente della Commissione Difesa al Senato: «L’azione USA è un’opportunità. Obama con Mosca sbagliava strategia. Ogni sforzo diplomatico era azzerato. L’attacco ha fermato la china criminale e può riaprire il negoziato».

Queste le dichiarazioni. E il commento, alla fine, non c’è nemmeno bisogno di scriverlo perché l’ha già detto come meglio non si poteva dire George Orwell nel 1938:

(continua su Left)

Gentiloni e la destra che è in lui

Ne scrive Leonardo Palmisano:

A sentirlo, a guardarlo, a valutarlo al primo impatto, Gentiloni non sembra persona di destra. Eppure, a osservare più da presso le politiche messe in campo fino ad ora, soprattutto quelle gestite dal Ministero degli Interni, siamo nel campo della destra piena: un po’ razzista, un po’ populista, un po’ troppo securitaria. Gli italiani scesi in piazza per la fine dell’anno si sono trovati blocchi di cemento e cecchini di Stato sui tetti, mentre nelle periferie le camorre hanno festeggiato in piena libertà con la vendita e l’esplosione clandestina di tonnellate di botti.

Il post è qui, sui Quaderni di Possibile. E Leonardo è un nostro nuovo compagno di viaggio. La ricognizione delle intelligenze e dei talenti continua, se volete partecipare con noi vi basta fare un salto qui.

“Una stampa che frequenta troppo i palazzi e poco il popolo”: parla De Bortoli

(intervista di Silvia Truzzi per Il Fatto Quotidiano)

A Milano, la città del Sì, parliamo della vittoria del No con Ferruccio de Bortoli, che alla riforma si era pubblicamente opposto. È il giorno dell’incarico a Gentiloni: “È stato un buon ministro degli Esteri”, spiega l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore. “Dovrà però dimostrare di essere autonomo da Renzi, il leader che lo ‘tolse dal frigorifero’ mandandolo alla Farnesina. Da lui ci si aspetta subito qualche gesto di discontinuità, anche nella composizione del governo, che rafforzi il suo profilo istituzionale, la sua credibilità anche all’estero. Vedremo, per esempio, se Luca Lotti resterà sottosegretario”.

Perché è così importante se resta o no?
Ai renziani preme molto gestire la prossima tornata di nomine delle imprese pubbliche. Accelerarono la caduta di Letta, nel 2014, anche per questa ragione. Due piani paralleli di governo, con quello ombra gestito dal segretario del Pd, sarebbero dannosi per il Paese. Avremmo il cerchio magico con il suo potere intatto e il governo ridotto a un cerchio inutile. Ma penso che Gentiloni ci stupirà in positivo. E Mattarella gli darà sicuramente una mano preziosa.

Veniamo al referendum. Come legge l’esito del voto?
Dalle urne esce un solo perdente. E nessun vincitore. Il centrodestra ha ricevuto un balsamo che gli consentirà di lenire i propri mali e che coprirà per un certo periodo l’assoluta inconcludenza di idee e programmi. Il vero perdente è Renzi che ha voluto caricare questa consultazione di significati impropri, trasformando il referendum in un voto politico. L’alta affluenza ci dice che questo Paese tiene molto alla partecipazione democratica: è stata una grande lezione civica. Il 40% non appartiene a Renzi come il 60 non appartiene all’opposizione”.

Così non sembra pensare il segretario del Pd.
Questo dimostra che il referendum, nel suo modo di pensare, aveva valenze che andavano al di là del merito. Era uno strumento per affermare il proprio potere, ottenere un viatico popolare, fare un bottino pieno e poi andare a incassare il premio alle elezioni. Renzi ha sbagliato la campagna elettorale, piegando la legge di bilancio a una serie di consensi da comprare per categorie. Chi votava No era contro la stabilità perché avrebbe esposto il Paese a conseguenze sui mercati che non ci sono state. Chi votava No era per l’immobilismo e rifiutava le riforme: possiamo dire che il 60 per cento di coloro che hanno votato – 33 milioni di italiani – rifiuta le riforme? No, possiamo dire che vuole riforme diverse da questa. Perché, bisogna dirlo, era scritta e pensata male. La grande partecipazione è anche il grido di un’Italia che vuole scegliere i propri rappresentanti e crede nella democrazia.

Renzi ha fatto, da premier, una campagna tutta incentrata sull’antipolitica: una clamorosa contraddizione.
Non si è reso conto che dopo quasi tre anni di governo era lui il potere: non doveva usare i toni anticasta di Beppe Grillo. Così come ora non si può mettere nella stessa posizione del Movimento Cinque stelle e dire “si vada al voto subito”. È una dimostrazione di scarsa responsabilità istituzionale. Ha pagato l’abbraccio soffocante dell’establishment che trasmetteva agli altri – in particolare agli esclusi – l’idea che questa fosse l’ultima spiaggia e che con la vittoria del No saremmo scivolati nel Medioevo. Si è sottovalutato il fatto che la democrazia è cara agli italiani e la riforma, con l’Italicum, indeboliva la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Sono favorevole a una democrazia decidente, ma i contrappesi nella riforma erano soltanto promessi. È stato un errore non approvare prima la riforma dell’articolo 49 della Costituzione. Il messaggio sarebbe stato: il partito che chiede agli elettori di cambiare le regole che li riguardano prima cambia le proprie, diventando più democratico e trasparente.

Nel 2006 abbiamo votato una riforma costituzionale che in comune con questa aveva molti tratti ed è stata sonoramente bocciata. Perché a distanza di dieci anni si è voluto ignorare quel risultato? Smetteranno di usare la Carta come grimaldello?
Bisogna sempre parlare della qualità delle riforme, chiedersi se rispondono a un progetto coerente ed equilibrato. Quel che non si può fare è piegare le regole comuni e le dinamiche istituzionali agli interessi di parte. C’è stata un’eccessiva confusione tra governo e Parlamento. La nostra storia politica dimostra – penso all’atteggiamento dei democristiani durante la Prima Repubblica – che quando si trattava di regole condivise il governo, saggiamente, faceva un passo indietro. Renzi si è impossessato totalmente della proposta di revisione costituzionale: agli occhi degli italiani la riforma è diventata la sua proposta. Perché la maggioranza ha chiesto il referendum, raccogliendo anche le firme? Poteva non farlo. Sarebbe utile che adesso arrivasse un’autocritica su tutti i comportamenti che abbiamo elencato. Invece no: assistiamo ad atteggiamenti indispettiti, “Fatele voi del 60 per cento le riforme”. Ma attenzione: in quel 60 per cento ci sono anche elettori del Pd e certamente elettori di una sinistra più larga. Renzi nella sua bulimia, in quella visione tolemaica del potere per cui tutto ruota attorno a lui, ha preso in ostaggio la riforma che avrebbe dovuto consacrarlo e quindi le istituzioni che doveva servire. E’ stata inferta una ferita inutile al Paese che però si è dimostrato più saggio della propria classe dirigente. Criminalizzare il No come fosse una posizione irresponsabile si è rivelato un autogol. Abbiamo perso tempo, ma non è stato a causa del no.

La logica sembra essere: avete vinto voi, ora sono fatti vostri.
È troppo comodo così… Andiamo con ordine: questa sconfitta può fare bene a Renzi, cui si devono riconoscere delle qualità. È un grande comunicatore, un politico di razza, un innovatore. Gli vanno riconosciuti anche successi: l’attenzione ai diritti civili, il Jobs act, con un dubbio legittimo sui costi, la per ora solo annunciata riforma del terzo settore, le politiche per la povertà. Per Renzi questa è l’occasione di guardarsi allo specchio, riconoscere i propri errori, essere sincero. Può dimostrare di essere – se lo è – uno statista. Può farlo stando in seconda fila, anche favorendo la nascita di un governo che per forza deve avere un mandato pieno e una fiducia non a scadenza. Senza la tentazione di dirigerlo nei fatti, con una playstation dal Nazareno. Nel ’95, dopo l’abbandono di Bossi, Berlusconi favorì il governo tecnico di Lamberto Dini, che era stato il suo ministro del Tesoro, mostrando senso di responsabilità istituzionale. Lo ebbe Berlusconi, perché non dovrebbe averlo Renzi? Deve capire che ora non è al centro della scena: ha guidato un’auto – quella italiana che magari ha le gomme sgonfie, ma non il motore inceppato – ed è uscito di strada. Ora non può dire “me ne vado, è colpa vostra”. La colpa è sua, lui ha fatto sbandare l’auto. Ora si deve dar da fare per rimettere a posto le cose, anche perché è il segretario del Pd. Il nuovo governo dovrà essere sostenuto dal partito, che dovrà essere leale al contrario di ciò che fu fatto ai tempi dell’esecutivo Letta a causa di un disegno completamente personale.

Ha perso anche il Presidente emerito Napolitano?
Napolitano creduto alla promessa fatta da Renzi al momento dell’incarico. Aveva accettato il secondo mandato chiedendo a gran voce che il progetto di riforma procedesse. Negli ultimi tempi credo fosse indispettito dall’atteggiamento di Renzi, soprattutto dalla polemica sterile e costosa nei confronti dell’Europa, quello sventolare veti poche settimane dopo Ventotene. Una sceneggiata estiva.

Perché sterile?
Sui migranti il premier aveva ragione. L’Europa si è dimostrata miope ed egoista. Ma sulla finanza pubblica io credo che invece abbia sbagliato. La flessibilità è stata usata male, guardando al consenso più che alla crescita. Sono scese solo le spese per gli interessi, le altre sono aumentate. La regola del debito è stata dimenticata. Ne parlano gli stranieri, noi la ignoriamo. Lodevoli le scelte sul super ammortamento, su industria 4.0, la riduzione al 24 per cento delle tassazione delle imprese. Ma abbiamo messo in pericolo i conti pubblici per una crescita che, al netto degli aiuti della Bce, è modesta: questa è una verità che bisogna affermare con chiarezza. C’è stato un dibattito opaco e insufficiente sulla funzionalità delle misure economiche prese. Solo nell’ultima legge di bilancio c’è stata attenzione agli investimenti che hanno toccato il minimo storico rispetto al Pil. Il guaio è che gli investimenti, a differenza dei bonus, non danno risultati immediati in termini di consenso perché dispiegano il loro effetto in tempi lunghi.

Renzi ha 42 anni: non è paradossale la sua assenza di prospettiva? Dovrebbe avere uno sguardo lungo e costruttivo proprio in virtù della sua giovinezza.
Qui rileva la visione del potere: quella di Renzi è esclusiva ed escludente, come ha sostenuto Prodi. Di cui vorrei dire, per inciso: il suo Sì è stato il più forte No a Renzi. Giustificato in tal modo da mettere a nudo i limiti di una gestione vecchia del potere. Penso al cerchio magico, ai fedelissimi, a quella che chiamerò “consorteria toscana”, per citare Ernesto Galli Della Loggia. Al premier ho sempre contestato non le idee, ma il modo di gestire il potere a tratti perfino gretto. La vicenda delle banche è emblematica. Prendiamo Mps: arriviamo ora a un intervento di salvataggio dello Stato, che poteva essere fatto mesi fa, escluso solo per ragioni di calcolo politico. La saggezza e il senso delle istituzioni avrebbero dovuto suggerire di agire ben prima. Ora se le banche vengono salvate, giustamente, con soldi pubblici, possiamo chiedere la lista dei loro principali debitori, per esempio del Monte Paschi?

La frattura è anche dentro il Pd: tira un’aria da redde rationem.
L’Italia ha pagato negli anni, non solo in quest’ultima era renziana, un prezzo altissimo prima alla composizione del Pd e poi alle sue numerose fratture. Il Pd è un grande partito di massa, guida il Paese ma deve riscoprire quella responsabilità che i partiti classici avevano. Il partito è stato considerato una struttura ancillare del governo: ora deve recuperare autonomia. C’è un problema di disciplina della minoranza rispetto alla maggioranza, ma c’è anche un problema di rispetto della maggioranza verso la minoranza.

Ma si può invocare la disciplina di partito sulla Costituzione?
Il Pd non può essere un luogo di ostracismi ed esclusione. Sennò andiamo verso una balcanizzazione della società. Continuando a dividere il Paese, come ha fatto Renzi, dopo un po’ si diventa antipatici, specie quando si occupa la televisione in questo modo militare e ossessivo. Una cosa così non si era mai vista, nemmeno con Berlusconi che pure le televisioni le possedeva. Se il Pd si dovesse spaccare sarebbe un danno per l’intero Paese: il Pd ritrovi la virtù di un confronto democratico aperto. Soprattutto il Pd deve essere in grado di trovare un’indipendenza rispetto alla vita dell’esecutivo: Renzi quando conquistò il partito democratico lo fece vivere di una vita propria rispetto al governo Letta, che poi affossò. Si riparta da lì.

L’informazione è rimasta spiazzata dal risultato.
Interroghiamoci sul perché tutti, negli ultimi giorni prima del voto, eravamo convinti che il Sì stesse recuperando posizioni. Forse questo segnala un’eccessiva vicinanza dei media al potere che spaccia – non in modiche quantità – informazioni avariate, spiffera retroscena ad arte, come l’idea che Renzi volesse prendersi un sabbatico e lasciare la politica. Forse non abbiamo più i ricettori giusti, forse chi fa informazione non sa raccontare il Paese perché frequenta troppo i palazzi e poco il popolo. E’ un’autocritica che dobbiamo fare, che devo fare anch’io. Siamo nell’era della post verità, ma sono state abbonate troppe vaghe promesse e troppe bufale. Bisogna riconoscere ciò che di giusto c’è nell’eredità renziana. Ed essere un po’ indulgenti: Renzi ha perso, ma ci si deve augurare che il perdente non ricatti le istituzioni scaricando la propria rabbia e frustrazione su altri. La responsabilità di ricucire il Paese è anche delle forze politiche che hanno votato No. Siamo reduci da una violenta campagna elettorale, è il momento della distensione. Questo Paese si mostra più solido e pacato di molte persone che lo governano. O tentano di governarlo.

Quindi la sera leoni e al mattino Gentiloni

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Alla fine è Gentiloni il nuovo Presidente del Consiglio. L’ex ministro è stato designato dal Presidente della Repubblica Mattarella come traghettatore verso una nuova legge elettorale (magari non incostituzionale, questa volta, se vi riesce, grazie) e poi le prossime elezioni politiche. Una designazione figlia delle consultazioni del Capo dello Stato con tutti i gruppi parlamentari e, parallelamente, con le inusuali consultazioni di un Renzi dimissionario eppur ciondolante nei suoi molteplici ruoli. Attenzione: il segretario del PD (che è Renzi) ha tutto il dovere e il diritto di trovare una soluzione condivisa con il partito che guida, peccato che del coinvolgimento del suo partito non s’è vista traccia (rimbomba ancora il monologo spacciato per direzione nazionale) e che la scelta di Palazzo Chigi piuttosto che il Nazareno come sede dei suoi incontri non sia stata un grande idea (lo scrivevano ieri anche insospettabili renziani, per dire).

Comunque alla fine è il giorno di Gentiloni: l’ex rutelliano sale al Quirinale con un curriculum che comprende, solo negli ultimi anni, un terzo posto alle primarie per scegliere il candidato sindaco del PD su Roma (terzo su tre, eh) e un coinvolgimento mai chiarito su uno smercio d’armi italiane verso l’Arabia Saudita che altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo. Ma Gentiloni, sia chiaro, ha in questo momento la qualità indispensabile per poter ambire al ruolo di Presidente del Consiglio poiché non fa ombra a Renzi eppure lo rappresenta. Ieri ho letto (non so dove e me ne scuso) che Gentiloni Presidente del Consiglio è un po’ come quando l’allenatore viene espulso e rimane il secondo in panchina filocollegato con la tribuna.
Il governo ombra (che non fa ombra) di chi aveva promesso (nel suo discorso in Senato già il 20 gennaio di quest’anno) di abbandonare la politica è l’ennesimo errore di Renzi che sembra non voler capire che i trucchetti non funzionano più e ormai si scorgono in fretta. Avrebbe potuto starne fuori e poi provare a ricominciare (che è un suo diritto, eh, ricominciare ma al netto delle promesse non mantenute) e invece è più forte di lui: a Gentiloni l’improbo compito di smentirci.