Leggendo le parole di Benetton sembra che il disastro del ponte Morandi sia colpa dei morti
Il mio editoriale per TPI.it
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Prima Rossella Muroni piazzandosi davanti ai pullman di Castelnuovo di porto, ora Magi, Fratoianni e Prestigiacomo, lo stesso PD che ne ha prontamente chiesto una commissione d’inchiesta sono la prova che Salvini va affrontato “mettendoci i corpi” e che l’opposizione forse ha capito che la vergogna è tutta lì fuori, bisogna mischiarsene, mostrarla, andarla a prendere, darle voce, dare un nome e un cognome a tutti quelli che oggi sono solo numeri mischiati con la propaganda, utili per essere usati vuoti, solo per i chili che pesano.
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In pratica il ministro dell’interno, colui che per ruolo dovrebbe essere l’argine contro le mafie, travolto dalla brama di cercare una voce dissonante nei confronti del sindaco Lucano per colpire un nemico politico è riuscito nella brillante impresa di fare da megafono (solo sulla sua pagina siamo ora a 550.000 visualizzazioni) a un mafioso.
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Dice l’ex questore di Ferrara, ora a Reggio Emilia, Antonio Sbordone, in un’intervista a Il Resto del Carlino che “col taser sarebbe ancora vivo Federico Aldrovandi” poiché “per fermare “un giovane alto un metro e 90 agitatissimo – che era Federico – hanno dovuto usare anche i manganelli”. Federico, per chi non conoscesse la sua storia, invece è morto perché la mattina del 25 settembre del 2005 ha incrociato i quattro poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri che sono stati chiamati per “un ragazzo in stato di agitazione” e sono riusciti a trasformare un semplice controllo in un pestaggio mortale. Restituendo Federico alla famiglia da cadavere e impegnandosi (come spesso succede in questi casi) a nascondere prove e depistare le indagini.
In sostanza, com’è abitudine di questi tempi, si prende un reato (i quattro poliziotti sono stati condannati fino all’ultimo grado di giudizio) e lo si propone come esempio per giustificare l’introduzione di un nuovo armamento. Se non fossimo in tempi tossici e piuttosto sdraiati il giornalista a colloquio con il questore avrebbe potuto chiedergli: “quindi ci sta dicendo che dobbiamo essere rassicurati dal fatto che degli assassini ora hanno un’arma in più?” e lì si sarebbe chiuso il discorso. Pensateci bene.
Ci sono tra le forze dell’ordine moltissimi uomini che ogni giorno sacrificano i propri affetti, la propria vita e il proprio impegno per fare onestamente il proprio lavoro in un Paese che è disordinato per natura. In questi stessi giorni, grazie a un film, si ritorna a parlare dell’incredibile vicenda di Stefano Cucchi e dell’inedia istituzionale (oltre alle botte) che l’hanno restituito (anche lui) da morto alla famiglia.
Forse il questore Sbordone non sa che Aldrovandi è morto perché massacrato di calci e di pugni (anche in testa) quando era già immobilizzato. Forse Sbordone non sa che quando il padre Lino ha visto il corpo del figlio ha pensato che fosse stato investito da un camion per come era ridotto e forse non sa nemmeno che si provò a ripulire e fare sparire i manganelli per disarticolare l’inchiesta. E forse non ricorda, glielo ricordiamo noi, che i poliziotti condannati sono stati calorosamente applauditi da un sindacato di Polizia che ha portato il suo massimo esponente come sceriffo in Parlamento agli ordini di Salvini.
O forse questi continuano a non capire, a non voler sapere, che la sicurezza è questione di modi, di rispetto delle regole, di Costituzione e di parole che andrebbero misurate per le vittime collaterali che un Paese democratico non si dovrebbe permettere. Ma di questi tempi, la misura nelle parole, è una responsabilità che non si prendono al ministero, figurati come si sentono liberi anche quelli più in basso. Finché non capiterà a un nostro figlio.
Buon lunedì.
Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/09/17/parole-come-taser/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.
La dichiarazione di Di Maio sull’intervento militare in Siria è identica a quella di Paolo Gentiloni. Gli incendiari sono già diventati pompieri?
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Mi hanno colpito le parole di Valeria Kadija Collina, madre di Youssef, uno degli attentatori di Londra. Mi ha colpito, moltissimo, quella loro casa a Castaello si Serravalle, paese di provincia dell’entroterra bolognese: fiori curati ai lati del vialetto in giardino.
“Mio figlio me lo ha portato via l’ignoranza e la cattiva informazione. Il cattivo Islam e il terrorismo sono questo. Ignoranza e cattiva informazione”, dice nella sua intervista a Repubblica Valeria: ha fatto una cosa “atroce”, che “non può e non deve essere giustificata”. E ha provocato un dolore talmente grande “che chiedere perdono ai familiari delle vittime sembra quasi banale”.
Racconta di come, da madre, ha perso contatto con il proprio figlio: Quando mi parlava della Siria e del fatto che voleva trasferirsi in quel Paese, non lo diceva certo perché volesse andare a combattere per l’Isis, ma perché sosteneva che in quella parte del mondo si poteva praticare l’Islam puro e perché voleva mettere su famiglia. Lo diceva sorridendo e io sorridendo gli divevo che era fuori di testa e che io non lo avrei seguito mai perché stavo bene dove sono”. Poi il cambiamento: “La radicalizzazione secondo me è avvenuta in Marocco attraverso internet e poi a Londra, frequentando gente che lo ha deviato facendogli credere cose sbagliate. Suo padre è un moderato, sua sorella non ha abbracciato la nostra fede, nessuno nella nostra famiglia è vicino in alcun modo con quel mondo fatto di stupidi radicalismi”.
E sembra, ad ascoltarla, una storia così simile alle tante che ci capita di leggere quando ci sono madri che si arrendono alla disperazione di non essere riuscite a salvare i proprio figli dalla droga, dal malaffare o dalle mafie: ha lo stesso dolore , lo stesso colore e la stessa naturale (seppur ferocissima) tragica fine.
Così, di colpo, il terrorismo assume anche una dimensione nuova e così lontana dalla retorica degli analisti di prima mano e cola una disperazione folle e pericolosa come tutte le disperazioni.
Buon giovedì.
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Il buongiorno di oggi è un pessimo giorno. Debora Serracchiani (ve lo ricordate?) era quella che avrebbe dovuto ringiovanire il Pd, tempo addietro, con spirito fresco e nuovo. Ha raccolto migliaia di preferenze, stupendo tutti (chissà perché il “nuovo” è di per sé un valore, ma questo è un discorso lungo) e ci si aspettava che potesse davvero svecchiare le più vecchie liturgie. E invece no. Anzi: e invece peggio.
Ha cambiato davvero il corso del Pd, ma verso il dirupo della destra mascherata. Basta leggere le sue parole. Ecco qui. Comunicato stampa di ieri (è qui):
Udine, 10 maggio – “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese”.
Lo ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, commentando il tentativo di stupro subìto da una minorenne ieri sera a Trieste da parte di un cittadino iracheno richiedente asilo.
Per Serracchiani “in casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito – ha aggiunto Serracchiani – bisogna rimediare”.
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Ormai sta diventando una saga. Della becera idiozia.
Salvini vaneggia di un fantomatico “dossier segreto” (pensa di essere 007 e invece ha l’acume di Superpippo) e viene smentito. La secchiata di fango gliela versa in testa Giacomo Stucchi presidente del Copasir (e leghista, giuro, da morire dal ridere): «Con riferimento alle notizie circolate circa l’esistenza di un rapporto (dossier) predisposto dai Servizi segreti italiani e attestante rapporti tra scafisti e ONG per il controllo del traffico dei migranti nel Mediterraneo – scrive Stucchi – , dopo le verifiche del caso, alla luce di informazioni assunte, ritengo corretto evidenziare come tali notizie risultino prive di fondamento».
Poi c’è il procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, che, in audizione al Senato, sulle parole di Zuccaro, procuratore capo a Catania ha risposto: «A noi come ufficio non risulta nulla per quanto riguarda presunti collegamenti obliqui o inquinanti tra ong o parti di esse con i trafficanti di migranti. Nessun elemento investigativo». Una risposta che non stupisce: che non esistano elementi investigativi in fondo si capisce anche dalle (troppe) parole di Zuccaro ma qui, se serve, un dubbio vale come un’accusa, per fare baccano.
In compenso ci sono le parole di alcune ONG. MSF: «Che si indaghi, che sia fatta chiarezza. Ciò che stiamo facendo da tre anni è tutto trasparente, tutto tracciabile. Noi non abbiamo nulla da nascondere […] Se parliamo di soccorso in mare, a segnalazione si interviene. Quando noi avvistiamo imbarcazioni in difficoltà, prima segnaliamo alla Guardia costiera e attendiamo da loro l’autorizzazione per intervenire. Non abbiamo alcun contatto con i trafficanti».
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Ha scritto l’Ansa ieri, parlando del doppio attentato in Nigeria presso il mercato di Naiduguri: “due baby kamikaze esplodono al mercato”. I “kamikaze”, dicono le agenzie di stampa, avevano sette e otto anni. Un bambino e una bambina di sette e otto anni: difficile credere che abbiano voluto o scelto di farsi esplodere, probabile forse che non sapessero nemmeno cosa stavano facendo. Due bambini imbottiti di esplosivo, insomma. Forse è qualcosa di diverso di baby kamikaze, forse.
Titola Repubblica Roma: “cinese morta a Roma, ricordo a Tor Sapienza”. Zhang Yao era una ragazza ventenne, studentessa dell’Accademia delle Belle Arti, di ottima famiglia, appena uscita dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma con il rinnovo del suo permesso di soggiorno per motivi di studio, scippata in un quartiere dimenticato dalla politica e con la voglia di non accettare il sopruso. È vero che i titoli hanno d’essere brevi ma “cinese” come parola contenitore di tutto questo, beh, no. Davvero. Bastava aggiungerci “studentessa”, ad esempio, come hanno fatto tutti gli altri. Sarebbe bastato poco.
Titola Libero di ieri su un articolo di Paolo Becchi (beh, direte voi, Libero più Becchi è miscela esplosiva, del resto): “la Raggi difende il marocchino ma scorda il disabile italiano”. Il marocchino in realtà non esiste: si tratta della famiglia che ha diritto a un alloggio (famiglia con figli piccoli) di cui non ha potuto usufruire perché illegalmente occupato da altri. Legalità contro illegalità, se volessimo banalizzare. E il disabile è solo uno specchietto per le allodole: nel pezzo si parla genericamente di cittadini “mandati via” tra cui, si dice, “un disabile con un figlio”. Razza contro razza, insomma. Anche qui. Come se “il marocchino” avesse cacciato “il disabile”: non hanno avuto il coraggio ma avrebbero voluto scriverlo così, c’è da giurarci.
Ci sono due macrocategorie di titoli brutti: quelli figli di un retro pensiero e quelli figli di incuria. Entrambi ottengono il risultato di nutrire gli istinti bassi; e questo non è un pezzo moralizzatore ma un invito a provare a prestare più attenzione, a prendersi cura delle parole per non diventare buoni alleati di quelli che combattiamo. Io per primo.
(il mio buongiorno per Left)
«C’è una piccola frase, apparentemente alquanto banale, in “La sera del dì di festa” di Giacomo Leopardi che dice «tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Desidero richiamare l’attenzione su quel “quasi”. Certo, la vita e le nostre opere sono effimere, ma non del tutto. C’è un residuo, il “quasi”, che resta, che si accumula e che forma ciò che chiamiamo umanità, un termine che può tradursi in cultura: il deposito delle esperienze che vengono da lontano e preparano il futuro, un deposito al quale tutti noi, in misura più o meno grande, partecipiamo. O, meglio: dobbiamo poter partecipare. Altrimenti, siamo fuori della umanità. Per questo, troviamo qui il primo, il primordiale diritto, che condiziona tutti gli altri. La violazione di questo diritto equivale all’annientamento del valore della persona, alla sua riduzione a zero, a insignificanza.