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Palazzo Chigi val bene una messa: teatri chiusi, chiese aperte

L’immagine più lampante è la chiesa con un cinema accanto, a Fiorano Modenese, dove il parroco don Paolo, evidentemente illuminato nel ruolo di direttore artistico della santità, ha deciso di aprire il Cinema teatro Primavera per trasmettere in streaming la messa pasquale. Gente seduta, luci soffuse da cinema, schermo abbassato e proiezione della messa: a parte i popcorn c’erano tutti gli ingredienti di una normale proiezione di un qualunque film, una serata qualsiasi di quelle che ormai da un anno i vari Dpcm vietano in tutta Italia.

Ma il prete, incalzato dai giornalisti, ci ha spiegato che «il Dpcm vieta le attività teatrali e cinematografiche, ma noi non abbiamo fatto né l’una né l’altra. Quella sala non viene utilizzata come cinema da ormai 13 anni, non abbiamo neanche più la licenza: semplicemente l’abbiamo impiegata come salone perché non sapevamo come altro mettere a riparo i fedeli». Insomma, la messa vale, il cinema no.

Poiché le chiusure sono figlie di una precisa politica sanitaria di prevenzione sfugge prepotentemente il motivo per cui la circolazione del virus cambierebbe in base al contenuto proiettato. In fondo è lo stesso dubbio che attanaglia i lavoratori del teatro che operano nelle medesime condizioni delle liturgie che al contrario non si sono mai fermate: un palco lì dove c’è un altare, una platea di spettatori lì dove invece ci sono i fedeli e un distanziamento che potrebbe essere rispettato in una chiesa come in una qualsiasi sala teatrale.

Forse esiste una variante santa del virus di cui non ci hanno dato spiegazione o forse semplicemente la laicità che dovrebbe essere garantita dalla Costituzione si frantuma ancora una volta contro gli interessi lobbistici di una Chiesa che rivendica (purtroppo con successo) una superiorità morale rispetto a qualsiasi altra attività umana che si svolge su suolo italiano. Tornando per un secondo a Fiorano Modenese sarebbe da rivedere la faccia del sindaco Francesco Tosi che si è affrettato a dichiarare in difesa del prete che «tutte le norme sono state rispettate», riuscendo perfino a contravvenire le più elementari regole di logica oltre alle condizioni dei Dpcm.

Sui social circola ormai da un anno una battuta, mestamente rilanciata dai…

L’articolo prosegue su Left del 16-22 aprile 2021

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Draghi dì qualcosa: ora abbiamo bisogno di una data (e di una soglia) per sapere quando ne usciremo

Se mancano i dati, se mancano i riscontri reali, se mancano le spiegazioni precise allora diventa facile governare e farsi governare dall’emozione. Al netto di chi in questi mesi continua a lucrare sulla disperazione della gente con vergognose operazioni di sciacallaggio si può dire che in questo anno di pandemia abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a comunicazioni contraddittorie, confuse e molto spesso lacunose.

È un tema tutto politico: se continuano a mancare informazioni precise sulle misure prese e sugli impatti attesi dalle limitazioni che vengono imposte, l’aspetto emozionale (e il lucrare sulla limitazione di libertà) riuscirà sempre a trovare terreno fertile. 

Per capirci: le scuole sono state riaperte con dati peggiori rispetto a quando erano state chiuse e il ministro Speranza ha dichiarato, riconoscendo la cosa, che la scelta è stata fatta in correlazione con le vaccinazioni fatte (vaccinazioni ad insegnanti che sono state sospese) e per “investire sui giovani”.

La risposta, legittima, però cozza con le iniziative che non sono mai state prese sui trasporti, sulla ventilazione meccanica in classe e soprattutto con un rischio in ambito scolastico che non è mai stato spiegato lucidamente. Abbiamo ascoltato tutto e il suo contrario e la scuola è solo uno dei tanti esempi possibili.

Chi per lavoro ha viaggiato in questi mesi di pandemia sa benissimo che le distanze che vengono imposte sui treni a lunga percorrenza sono molto diverse rispetto ai protocolli di un semplice volo aereo, per non parlare della drammatica situazione del trasporto locale. 

Qui non si discute, sia chiaro, dell’importanza di arginare il virus e di non mandare in tilt il sistema sanitario ma avere un chiaro e periodico flusso di dati a disposizione permette una lucida valutazione delle proporzioni delle restrizioni: se non c’è chiarezza e accesso ai dati viene difficile anche valutare la bontà delle decisioni prese dalla politica.

USA e Gran Bretagna hanno fissato date per le riaperture sulla base di dati chiari e sottoposti ai cittadini. Non si tratta di aprire tutto e subito come chiedono gli sconsiderati ma forse Draghi dovrebbe sentire il dovere di fissare un’asticella (di contagi, di pressione ospedaliera, di numero totale di infetti) sotto la quale allentare i divieti.

Non è solo una questione di virus, è questione di controllo della democrazia, di trasparenza e responsabilità: comunicare con chiarezza tiene in equilibrio il patto sociale, altrimenti diventa solo una questione di pancia.

Leggi anche: Italia, cinema chiusi: ma va bene se un parroco apre la sala per trasmettere in streaming la messa pasquale

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il linguaggio di certi giornali sul caso di Caivano rivela l’arretratezza italiana sull’omotransfobia

I fratelli proteggono le sorelle. E, badate bene, i fratelli non proteggono le sorelle dalle azioni con cui loro non concordano, i fratelli difendono le sorelle dai pericoli e amare non è un pericolo. Anche se Maria Paola Gaglione amava un uomo che, essendo trans, risultava inconcepibile all’ignoranza e alla sopraffazione che diventa spirito di proprietà, dove la sorella diventa un bene provato che viene concesso solo grazie alla disponibilità della famiglia.

Che il fratello di Maria Paola Gaglione, quello stesso che ha dato vita a un inseguimento finito così tragicamente, ora ci dica, con l’appoggio di anche tutta la sua famiglia, che volesse solo dare una lezione a quella sorella che si era infettata per colpa di quell’amore fuori dai miopi canoni dell’amore è già grave ed è già il senso della violenza e dell’ignoranza che questo Paese continua a sventolare come tradizione e che invece è e continua a essere un’incapacità di leggere il presente.

E che il parroco dica ai giornali che la famiglia di Maria Paola era “solo preoccupata” racconta ancora una volta, per l’ennesima volta, che l’omofobia in questo Paese è qualcosa che ha bisogno urgentemente di una legge, certo, ma anche di una cultura che sia capace di vedere quello che accade qui intorno, qui fuori. E qui c’è anche tutto lo schifo che certa stampa ieri ha vomitato per tutto il giorno: “due ragazze lesbiche”, Ciro che è diventato “Cira”, in molti si sono dimenticati di raccontare le minacce e le botte subite dal ragazzo perché trans (il fratello di Maria Paola ha infierito su di lui mentre era ferito per terra e mentre la sorella moriva) e la differenza tra identità di genere e orientamento sessuale che sembra essere tornata al secolo scorso.

Un linguaggio rivoltante che ha reso questa storia ancora più indecente e non parliamo solo di giornali locali ma addirittura di telegiornali nazionali (di Stato) in prima serata. Da Il Mattino al Tg1, passando per Repubblica e altri. E basta parlare di ignoranza: la stampa non può permettersi di essere ignorante quando racconta la contemporaneità e ha l’obbligo di perseguire un’ecologia lessicale e sentimentale che già è troppo deturpata da troppa politica.

Perché ogni volta non si perde l’occasione di fare schifo? Perché ogni volta si tende a normalizzare seguendo semplificazioni che sono un’ossessione contro una comunità che non riesce nemmeno ad avere il diritto di essere descritta? Si dice che le parole siano importanti e creino le azioni: in questa storia ci sono un mucchio di parole sbagliate.

Leggi anche: 1. Investe e uccide la sorella perché aveva una relazione con un ragazzo trans: 22enne uccisa nel Napoletano/ 2. Maria Paola Gagliano, il messaggio del compagno Ciro: “Amore mio non posso accettarlo, ti amerò per sempre” / 3. Legge contro l’omotransfobia: cosa prevede e perché fa discutere

L’articolo proviene da TPI.it qui

La preghiera dell’odio

Un parroco in un paese della Puglia ha organizzato una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. E la sindaca si è ribellata

Siamo a Lizzano, paese in provincia di Taranto, dove il parroco, don Giuseppe, ha pensato bene di organizzare una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia (il disegno di legge Zan è già stato approvato in Commissione Giustizia) che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. L’oscurantismo del resto va molto di moda tra alcuni leader politici e figurarsi se non prende piede anche tra i parroci di provincia dove con un arzigogolato ragionamento si riesce a mettere insieme la famiglia con l’odio verso i gay: sono quei pensieri deboli e cortissimi che prendono molto piede dove l’ignoranza regna sovrana. Evidentemente per don Giuseppe il suo dio vuole che si continui a odiare e discriminare perché le famigliole possano stare tranquille. Contento lui.

Il punto che conta però è che in molti (per fortuna) si sono ribellati a questa pessima iniziativa e soprattutto la sindaca del paese, la dott.ssa Antonietta D’Oria, pediatra di famiglia, mamma di quattro figli che lavora a Lizzano da trent’anni ed è impegnata in varie associazioni di ambito sociale, ambientale e culturale decide di prendere carta e penna e di rispondere. Potrebbe essere la solita diatriba tra parroco e sindaca ma di questi tempi le parole sono preziose. Ecco la risposta:

“È notizia ormai rimbalzata su tutti i social media che il parroco di Lizzano, il parroco della nostra Comunità, il nostro parroco ha organizzato un incontro di preghiera contro le insidie che minacciano la famiglia, tra cui, prima fra tutte, cita la legge contro l’omotransfobia.
Ecco, noi da questa iniziativa prendiamo, fermamente, le distanze.
Certo non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare, ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale Amministrazione Comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli.
Qualunque sia il loro, legittimo, orientamento sessuale.
Perché, come ha scritto meglio di come potremmo fare noi, padre Alex Zanotelli, quando ha raccontato la propria esperienza missionaria nella discarica di Corogocho, la Chiesa è la madre di tutti, soprattutto di quelli che vengono discriminati, come purtroppo è accaduto, e ancora accade, per la comunità LGBT.
A nostro modestissimo parere e con la più grande umiltà, ci pare che altre siano le minacce che incombono sulla famiglia per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l’intervento della Divina Misericordia.
Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine?
Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo?
Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi?
Ecco, senza voler fare polemica, ma con il cuore gonfio di tristezza, tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera.
Certo non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare.
E chi ama non commette mai peccato, perché l’amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l’animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende”.

Che bella quando prende posizione, la politica.

Come dice la scrittrice Francesca Cavallo: «iniziative come questa non devono passare sotto silenzio, per il bene di tutti quegli adolescenti che leggono di un’iniziativa come questa e pensano di essere sbagliati. Io sarei potuta essere tra loro».

Buon giovedì.

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Rimangono solo l’asinello e il bue

Sono andati a messa, i senatori assenti che hanno affossato lo Ius soli, si sono fatti accarezzare dal loro parroco e hanno pregato a mani giunte in bella mostra con tutta la giunzione che ci si aspetta da un Natale che precede di pochi mesi le prossime elezioni. Staranno inscenando tutta la bontà di cui sono capaci, protagonisti del pranzo in cui loro, da esimi senatori, danno lezioni di mondo come si addice a una classe dirigente sempre diligente alla proiezione che vogliono dare di se stessi.

Faranno foto tutto il giorno stando bene attenti a non inquadrare regali troppo costosi per non inimicarsi “la base”, con qualche spruzzata di qualche nonno ché la vecchiaia ha sempre il suo bell’effetto di tenerezza e, sicuro, inonderanno i propri social con mielose frasi di pace rubate da qualche sito di aforismi trovato grazie a google.

Poi, immancabile, ci sarà il presepe, che di questi tempi è l’olio di ricino a forma di statuette.

Fotograferanno, ignoranti, quell’immagine che rappresenta la nascita di un bambino palestinese rifugiato in Egitto, i tre Magi (un uzbeko, un somalo e un siriano), i pastori pieni di cenci e portatori di malattie, quella madre e quel padre che da irresponsabili hanno pensato bene di avere un figlio senza nemmeno avere una casa e nemmeno un lavoro e in più fotograferanno le pessime condizioni igieniche in cui sono abituati a vivere perché è “la loro cultura”.

Poi racconteranno ai figli e ai nipotini di Babbo Natale, di minoranza etnica lappone che vorrebbe fingersi finlandese.

E alla fine rimangono solo il bue e l’asinello. E l’ipocrisia, a fiumi, insieme al prosecco.

Buon Natale.

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Platì: il parroco e il favoreggiamento ecclesiastico alla mafia

(Papa Francesco ha scomunicato i mafiosi ma dovrebbe dare un’occhiata anche ai suoi parroci. Forse. L’articolo di Lucio Musolino)

“La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati. La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato. Bisogna dirgli di no”. Le parole di Papa Francesco pronunciate durante la sua visita in Calabria nel giugno 2014 erano chiare. Non lasciavano adito a fraintendimenti. Eppure non sono state ascoltate da tutti. Sicuramente non le ha ascoltate don Giuseppe Svanera, parroco di Platì, che ai mafiosi non solo dice di sì, ma gli celebra i funerali, “li attende in chiesa e va a visitarli”. La polemica si è consumata tutta tra il 22 e il 23 ottobre quando il questore di Reggio Calabria Raffaele Grassi ha notificato al parroco un’ordinanza con cui ha vietato i funerali pubblici e in forma solenne per Giuseppe Barbaro conosciuto con il soprannome di “U cenni”. Si tratta di un esponente di spicco della ‘ndrangheta di Platì che nei giorni scorsi, a 54 anni, è morto in carcere dove stava scontando una pena perché condannato dal Tribunale di Torino a 5 anni nel processo “Minotauro”. Dal Piemonte alla Calabria, le regole della ‘ndrangheta sono le stesse. Comprese quelle dei funerali, ritenuti un momento importante per le famiglie mafiose che, proprio in queste occasioni, sfoggiano il loro potere e la loro capacità di piegare anche la Chiesa.

Per Giuseppe Barbaro, all’insaputa del vescovo di Locri, don Giuseppe Svanera prende carta e penna e scrive al ministro Angelino Alfano formulando un ricorso avvers o l’ordinanza del questore sostenendo che ha “infranto il principio di non ingerenza tra Stato e Chiesa”. Nella lettera, il parroco di Platì sfoggia le sue conoscenze giuridiche e, “sicuro di vostro benevole accoglimento del ricorso”, prima ricorda ad Alfano alcuni articoli della Costituzione e una sentenza del Tar della Campania e poi giunge alla conclusione che il “provvedimento di divieto questorile integra un illegittimo impedimento e limitazione allo svolgimento dell’ordinario rito funebre in forma pubblica previsto dal rito cattolico”. ‘Ndrangheta uno, Chiesa zeroplati-istanza-parroco.

Eppure il divieto dei funerali pubblici non è una novità in territori come quello di Platì. Poche settimane fa c’è stata la stessa ordinanza in occasione della morte del boss Paolo Sergi, un noto trafficante di cocaina coinvolto in numerose inchieste antimafia nell’ambito delle quali erano emersi i contatti tra il mondo dei narcos e delle brigate rosse. A queste latitudini, non c’è un mafioso morto che può vantare di aver ricevuto un trattamento diverso da quello imposto dal questore Raffaele Grassi.

Portano la sua firma, infatti, i divieti per altri funerali: da quello di Rocco Musolino, il “Re della Montagna” (ritenuto un boss anche se non è mai stato condannato per mafia), a quello dell’imprenditore di Palmi Vincenzo Oliveri, da quello del boss Antonio Nirta di San Luca a quello di Domenico Polimeni (uomo di fiducia dell’ex pentito Giuseppe Greco ucciso ad aprile).

E questi sono solo i morti eccellenti degli ultimi mesi per i quali è stato vietato il funerale in forma solenne, così come in passato è stato per il boss di Gebbione Santo Labate, per Domenico Vallelunga (padrino di Serra San Bruno), per il boss di Rosarno Giuseppe Pesce, per quello di Sinopoli Mico Alvaro, per il mammasantissima di Siderno Vincenzo Macrì (conosciuto con il nome di “barone”), per l’anziano patriarca Nicola Cataldo e per il reggente della cosca di Seminara Giuseppe Vincenzo Gioffré.

Ma a Don Giuseppe Svanera questo non interessa. D’altronde l’anno scorso aveva concesso una stanza della parrocchia per una protesta (organizzata dall’attuale sindaco di Platì Rosario Sergi) contro la frase del sottosegretario Marco Minniti che, dopo gli attentati terroristici in Belgio, aveva affermato “Molenbeek come Platì”. Una frase che non ha provocato un incidente diplomatico ma che, paradossalmente, ha urtato la suscettibilità degli abitanti di Platì.

Ritornando al funerale di Giuseppe Barbaro, sentito telefonicamente da ilfattoquotidiano.it il parroco rincara la dose: “È arrivata un’ordinanza del questore, l’ha portata la polizia e semplicemente ho detto che non sono d’accordo. Ho fatto tutto quello che c’era scritto lì, ma allo stesso tempo ho pensato che era conveniente e doveroso mandare questa nota al ministro Alfano. Personalmente non sono d’accordo che un questore possa proibire un funerale in chiesa. Un corteo lo può proibire senza nessun problema, ma in chiesa non comanda lo Stato. E dato che questo signore era battezzato e i familiari volevano i funerali in chiesa, io i funerali li faccio in chiesa, piaccia o non piaccia al questore. Non è lui che deve dare ordini”. E dopo la benedizione della salma al cimitero? “Alle 11 abbiamo celebrato la nostra messa in chiesa perché i familiari avevano affisso i manifesti con gli avvisi. Pensavamo di fare il funerale con il corpo ma l’abbiamo fatto senza. Però l’abbiamo fatto”.

Ma la Procura ritiene che Barbaro fosse un mafioso? “Io non so cosa pensa e cosa fa la ‘ndrangheta. Quello che è chiaro è che sono cittadino italiano e in quanto tale esigo che si compiano certi diritti. Io sono prete e, quindi, sono a disposizione della mia comunità cristiana, agli ordini del vescovo. Nessun può interferire su cosa faccio in chiesa. La ‘ndrangheta non è una questione mia. Sono venuto qui a fare il prete e non a cercare i mafiosi. La ‘ndrangheta è una questione dei giudici, dei carabinieri e degli avvocati. Che facciano il loro lavoro. Io faccio il mio. Qui ci sono almeno 600 o 700 persone di cognome Barbaro. Chi sono i criminali lo devono sapere i carabinieri. Io so che ci sono queste persone, li attendo quando vengono in chiesa, vado a visitarli. Io di mafia so solo quello che voi giornalisti scrivete. Per me un mafioso ha gli stessi diritti di una persona che non lo è”.

“Credo che la Chiesa debba con lo Stato (e quindi con le forze dell’ordine e con la magistratura) condividere un percorso di legalità senza contrapposizioni soprattutto quando il tema è la partecipazione di famiglie di ‘ndrangheta a manifestazioni pubbliche. Anche se queste, poi, si concretizzano in funerali organizzati da famiglie mafiose che rappresentano una manifestazione del potere della ‘ndrangheta”. Per il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho non ci sono dubbi su come in certi territori la Chiesa sia sottomessa alle cosche: “Probabilmente – aggiunge a il fattoquotidiano.it – bisognerebbe che tutti ci muovessimo in un’unica direzione per avere un risultato più immediato anche nei confronti della ‘ndrangheta. San Luca e Platì sono comuni in cui la ‘ndrangheta ha un ruolo di signoria”.

Non lo dice espressamente, ma a questo punto il magistrato pone pure la questione dei contributi dati alle chiese: “La forza della ‘ndrangheta è quella che elargisce anche denaro. A volte non si guarda a chi dà il denaro o altre forme di contributo, ma si guarda soltanto a quello che si riceve. Se cominciassimo anche sotto questo profilo a selezionare i contributi, e tutto ciò che fa la mafia per apparire vicina alla religione e alla chiesa, probabilmente si comincerebbe a meditare sui comportamenti che sono stati tenuti. Quando chi rappresenta i valori e i principi della religione si oppone ai comportamenti di censura nei confronti della ‘ndrangheta, si crea una confusione enorme anche nella gente. Quella gente che è assoggettata al potere mafioso e che si accorge che nemmeno la Chiesa si oppone a chi fa del male”. “Il questore – conclude De Raho – doveva vietare i funerali in forma pubblica e questo avviene anche per evitare episodi come quello dei Casamonica. La popolazione è indirettamente e implicitamente costretta a partecipare ai funerali. Chi non partecipa finisce per rappresentare il proprio dissenso e questo nelle comunità piccole è gravissimo e non può avvenire. Così un rito religioso finisce per tradursi in una manifestazione di potere”.

Sul funerale del boss Giuseppe Barbaro, interviene anche il vescovo di Locri Francesco Oliva che racconta cosa è successo domenica quando si è precipitato a Platì per capire cosa stava facendo don Giuseppe: “Pensavo che il prete non avesse rispettato l’ordinanza del questore – ha spiegato a ilfattoquotidiano.it – Ero preoccupato e invece lui l’ha rispettata. Ho definito Giuseppe Barbaro un ‘padre di famiglia’ perché lo è: è sposato e ha quattro figli. Ma con questo non voglio giustificare i precedenti criminali. Che fuori dal cimitero si siano radunate delle persone, non dipende dal parroco. Chi deve fare rispettare l’ordinanza da questo punto di vista?”. E sulla messa in chiesa dopo la benedizione al cimitero? “Pregare per un defunto, – aggiunge il vescovo – chiunque esso sia, anche un delinquente, si fa sempre. Sono disposizioni dei vescovi calabresi. Si è sempre fatto così. Sono vietate le manifestazioni pubbliche, ma pregare per un defunto si può fare. Se non possiamo neanche pregare… a questo punto chiudiamo le chiese. Il parroco ha fatto quell’istanza al ministro Alfano senza consultarmi”. L’alto prelato prende le distanze dal ricorso di don Giuseppe Svanera. E nello stesso tempo lo difende: “L’unico divieto è che queste celebrazioni non avvengono in maniera solenne. Ma una messa sobria e senza la salma è una cosa ordinaria. La chiesa prega anche per il peccatore”.