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Moltiplicano i pani, i pesci e i Salvini

Non serve nemmeno frugare troppo in giro per ritrovare ciò che pensava di Draghi Matteo Salvini fino a dieci minuti prima di diventare draghiano e europeista e addirittura così “responsabile” da chiedere per sé il Ministero dell’istruzione. Il 6 febbraio del 2017 diceva «L’euro non è irreversibile come sostiene Mario Draghi. Mi spiace ci sia un italiano complice della Ue che sta massacrando gli italiani e l’economia italiana». E quando qualcuno gli parlava dello spread e dell’Europa (che sarebbero tra i motivi che oggi hanno convinto il leader della Lega all’ennesima giravolta) disse letteralmente: «Noi vogliamo che l’Italia torni a scegliere, a decidere, a sperare nel futuro. Il ricattino dello spread lo abbiamo già visto 5-6 anni fa, non ci casca più nessuno. Non sono tre banchieri, tre massoni o tre finanzieri a tenere in ostaggio il popolo italiano». E, sempre nel 2017, quando fu Berlusconi a fare il nome di Draghi al governo (questo a dimostrare da quanto il nome di Draghi veleggi e da quei lidi fosse invocato) Salvini rispose: «Non se ne parla nemmeno. Mario Monti bis. E la fotocopia di Mario Monti non mi interessa».

Salvini dunque ha cambiato idea ed è vero che sono gli stupidi che non cambiano mai idea ma ci sono anche quelli che scambiano l’opportunismo per responsabilità e si impegnano in queste ore a esercitare una narrazione che vorrebbe convincerci che sia addirittura un privilegio avere un governo con “tutti dentro” come se la politica fosse davvero una livella che tiene tutti a cuccia, basta trovare l’uomo giusto per zittire. E questi strani frequentatori della democrazia che ritengono il ruolo dell’opposizione semplicemente come quelli “che sono stati fuori dal giro delle poltrone” incensano lo splendore di un governo in cui tutti diventano potabili, in cui tutte le idee accettano di essere piallate e in cui le differenze vengono dimenticate: sognano uno studio associato di segretari del commercialista da poter rivendere come Parlamento. È il loro obiettivo. Che la Lega in Europa si sia astenuta sul Recovery Fund nel dicembre del 2020, che abbia votato no ai Coronabond, no alla condanna di Putin per il caso Navalny (a settembre 2020) e tanto altro rientra semplicemente nelle “gag” leghiste che ora siamo disposti a tollerare.

Lo scriveva bene ieri il blog satirico Spinoza: «Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa farmi entrare nel tuo governo». E ora anche Salvini diventa uno statista poiché è stato bacchettato sulle dita da Confindustria e ha deciso di rimettersi a cuccia, ovviamente solo per il tempo di trovare uno spiraglio per scassare tutto appena i sondaggi gli diranno di andare a elezioni.

Qualcuno nel delirio di questa desertificazione che chiamano “responsabilità” in questi giorni tenta anche irresistibili confronti con il passato. Ieri proprio Salvini per giustificare il suo ingresso al governo ha tirato fuori il governo guidato da Alcide De Gasperi dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946 che teneva insieme Dc, Pci, Partito d’azione, Psiup, Pli e Partito del lavoro. Peccato che abbia dimenticato di dire che tutti quelli avessero lottato contro il fascismo e ne avessero subito la persecuzione. Ma anche l’antifascismo, se notate bene in giro, è un argomento “disturbante” per l’unità nazionale. Avanti così.

Ma il vero capolavoro politico sono quelli che esultano per l’operazione in corso che poi sono gli stessi che esultavano per la scorsa operazione politica “capolavoro” che ci avrebbe dovuto liberare da Salvini: il capolavoro, lo scrivevamo qualche giorno fa ora è Matteo che ha riabilitato Matteo. Segnatevelo: sono gli stessi che fra poco si stupiranno delle differenze che usciranno in Parlamento e le chiameranno intralci. Del resto qualcuno sogna da tempo una politica senza Parlamento, senza partiti, che semplicemente vada tutte le mattine sullo zerbino di Draghi per lasciare giù i voti e ritirare le comande.

Avanti così.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Referendum, Nespolo (Anpi) a TPI: “Tagliare i parlamentari per risparmiare? No, si riducano gli stipendi”

Carla Federica Nespolo, 77 anni, ex parlamentare del Pci e del Pds, è la prima donna a presiedere l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Con lei discutiamo del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, in calendario il 20 e 21 settembre. L’Anpi si è schierata per il No.
Nespolo, come risponde al movimento anti-casta, secondo cui il No è la posizione dell’arroccamento?
Più che di “movimento anti-casta” io parlerei esplicitamente e francamente di pensiero populista. Al fondo del quale, inutile girarci attorno, c’è il rifiuto della democrazia come partecipazione e diritto del popolo a scegliersi i propri rappresentanti. Se per “uomini rinchiusi nei palazzi” i fautori del Sì intendono anche i 183 costituzionalisti italiani che si sono dichiarati per il No, dimostrano di non aver capito nulla di quello che, nel colpevole silenzio di tanti, oggi è in gioco.

Cosa c’è in gioco?
Si tratta, sostanzialmente, di un attacco alla democrazia rappresentativa. Non dimentichiamoci che uno dei primi atti del Governo, dopo il 25 Aprile 1945, fu quello di dare a tutti (uomini e donne) il diritto di voto. E dopo 75 anni si vorrebbe tornare indietro e privare persino alcune Regioni del diritto di essere pienamente rappresentate in Parlamento? Inaccettabile. Altro che “casta”: la “casta” è proprio dei “notabili” di partito che, non a caso, sembrano tutti uniti  – ma con molti problemi interni – a votare Sì.

I motivi principali per cui l’Anpi ha deciso di esprimersi per il No: quali sono i valori da difendere?
La difesa della democrazia per cui, 75 anni fa, un’intera generazione si è sacrificata, ha combattuto e vinto. E oggi troppi se ne dimenticano. Mi lasci citare un terribile verso di Giorgio Caproni: “I morti per la Libertà, chi l’avrebbe mai detto, i morti. Per la Libertà, Sono tutti sepolti”. Ecco. L’Anpi è in campo per questo. Perché la democrazia, che tanto sacrificio e tante lotte è costata, non venga oscurata e vilipesa da chi la considera un ostacolo alla propria ascesa politica.

Si insiste molto sul risparmio dei costi, come già avvenuto nell’ultimo referendum costituzionale. Non teme che questo argomento possa essere una spinta difficile da arginare?
Quella dei costi è una sciocchezza che non merita neppure una risposta. Vogliono davvero ridurre i costi del Parlamento? I parlamentari si riducano lo stipendio. Punto e basta. Ma non possiamo nasconderci che questo tema ne nasconde un altro. E cioè la poca stima che l’opinione pubblica ha verso un certo ceto politico. In questo senso condivido la frase del comandante De Falco: “Non voglio essere rappresentato meno, voglio essere rappresentato meglio”.

Il Pd sembra non volersi esprimere o esprimersi molto blandamente a proposito di questo referendum. Che consiglio darebbe al partito di governo?
Non è compito dell’Anpi dare un consiglio ad alcun partito. E tanto meno al Pd. Certo la contraddizione tra aver votato per tre volte contro e ora votare a favore è lampante. Insomma, non sempre sacrificare sull’altare della governabilità la propria coerenza è un buon calcolo. Comunque ho grande rispetto per il travaglio che sta attraversando il Pd. Ma non è un tema che ci vede protagonisti.

In questi giorni circola molto un’intervista in cui Nilde Iotti dichiara che il numero dei parlamentari italiani è eccessivo e dal fronte del Sì sono in molti a ripetere che la riduzione del numero dei parlamentari sia una battaglia storica della sinistra. Come risponde?
Alla citazione di Luigi Di Maio rispetto alla posizione di Nilde Iotti ha già risposto esaurientemente Livia Turco, presidente della Fondazione Iotti. Quello che la presidente Iotti proponeva era un intero nuovo impianto istituzionale, a cominciare da una nuova legge elettorale. Separare la rappresentanza dalla sua funzione è quanto di più volgarmente tattico si possa fare. Mai la presidente Iotti lo avrebbe affermato.

Come ha intenzione l’Anpi di occuparsi di questa campagna referendaria? Con quali mezzi? Come arrivare a più gente possibile, tra l’altro in un periodo difficile come questo in piena pandemia?
L’Anpi sta facendo il suo dovere. Le nostre sezioni territoriali stanno illustrando in ogni parte d’Italia le nostre ragioni e il 10 settembre alla Sala della Protomoteca in Campidoglio, a Roma, faremo il punto con importanti giuristi sulle ragioni del nostro No. Prevediamo anche un intervento di un rappresentante delle Sardine. Inoltre, siamo e saremo attivi anche sui social network. Invitiamo tutti ad andare a votare No. E mi lasci chiudere con una nota di ottimismo.
Prego.
Ce l’abbiamo fatta nel 2016. Ce la faremo anche nel 2020.

Leggi anche:  1. Taglio parlamentari, il costituzionalista Ceccanti a TPI: “Chi votò Sì alla riforma Renzi dovrebbe rifarlo oggi. Ma preferisce attaccare il M5s” / 2. La politologa Urbinati a TPI: “Taglio dei parlamentari? Così il M5S favorisce la casta” / 3. Taglio dei parlamentari: ecco cosa prevede la riforma e come funziona il referendum

L’articolo proviene da TPI.it qui

«Dissi: ingegnere, vada subito dal pm»

Poiché non sono “tutti uguali” vale la pena leggere l’intervista di Daniela Preziosi a Diego Novelli, ex sindaco di Torino che denunciò la corruzione nella sua giunta, era il 1983:

«In con­fronto a quello che leggo oggi la nostra era una cor­ru­zione da goliardi. Io sco­prii che un impren­di­tore pagava ad alcuni asses­sori le pro­sti­tute ceco­slo­vac­che. Li por­tava a Praga in albergo all inclu­sive. Offriva week end. Un lunedì mi arrivò un asses­sore tutto abbron­zato in pieno inverno. ‘Sei andato a sciare?’. ‘No’, mi disse, ‘ho fatto un viag­getto in Kenya’». Diego Novelli, classe ’31, pre­si­dente ono­ra­rio dell’Anpi tori­nese, una lunga car­riera da gior­na­li­sta dall’Unità degli anni 50 alla al set­ti­ma­nale Avve­ni­menti negli anni 80, oggi dirige il quo­ti­diano online Nuo­va­so­cietà. Ma Novelli è soprat­tutto il mitico sin­daco comu­ni­sta di Torino nel decen­nio 75–85. Quello che nel 1983, dieci anni prima dell’esplosione di Tan­gen­to­poli, di fronte a un sospetto di cor­ru­zione nella sua giunta mette tutto in mano alla pro­cura. Finì con le con­danne. Ma da lì per Novelli la vita poli­tica non fu facile.

Come hai sco­perto che alcuni tuoi asses­sori erano corrotti?
Era venuto da me un impren­di­tore che mi denun­ciava dei fatti ille­citi sugli appalti però senza fare i nomi. La terza volta che viene gli dico: inge­gnere’, era un inge­gnere, si chia­mava Di Leo, ‘o lei fa i nomi o io la denun­cio per calun­nia’. Lui risponde: ‘non mi rovini, ho fami­glia’. ‘Lei è venuto a dirmi che io sono quello del rigore ma non si fida di me. Si fida dei magi­strati?’. Mi fac­cio chia­mare il pro­cu­ra­tore della Repub­blica e gli dico: ‘Le mando que­sto signore, non me lo spa­venti e fac­cia quello che crede’. Poi però, per paura che l’ingegnere uscito dal muni­ci­pio cam­biasse idea, gli metto appresso un vigile della mia scorta, si chia­mava Bar­bero, che lo accom­pa­gni in pro­cura. Dopo tre mesi sono arri­vati gli arresti.

Cosa era successo?
Sco­pri­rono un giro di cor­ru­zione mise­ra­bile. Ave­vamo un appalto da cen­ti­naia di milioni di lire, allora una cifra da capo­giro, per l’informatizzazione di tutto il comune, ana­grafe, bilan­cio, ser­vizi sociali. A pagare tan­genti e viaggi di pia­cere era una ditta di infor­ma­tica ame­ri­cana. Fu arre­stato il mio vice­sin­daco socia­li­sta. Alla fede­ra­zione del Psi fecero let­te­ral­mente piazza pulita: teso­riere, il segre­ta­rio, alcuni asses­sori. Bec­ca­rono anche due dei nostri, due comu­ni­sti che si erano limi­tati a farsi pagare viaggi di pia­cere. Sco­prii che nella lista degli alle­gri viag­gia­tori c’era anche il mio nome, ma con me non ci ave­vano nean­che pro­vato, al mio posto ave­vano offerto il week end a un democristiano.

Ma qui ini­ziano i tuoi pro­blemi politici.
Craxi venne a Torino e chiese in piazza la mia testa. Disse: ‘Novelli non può più fare il sin­daco, non gode più della fidu­cia del Psi’.

Il Pci, il tuo par­tito, come reagì?
Qual­cuno si è schie­rato subito con me, come l’allora segre­ta­rio di fede­ra­zione Piero Fas­sino. Craxi mandò alla fede­ra­zione tori­nese del Psi un com­mis­sa­rio straor­di­na­rio (fu scelto Giu­liano Amato, ndr), fui accu­sato di non aver «risolto poli­ti­ca­mente la que­stione». I socia­li­sti usci­rono dalla giunta, io mi dimisi e for­mammo una giunta mono­co­lore comu­ni­sta con qual­che indi­pen­dente. I socia­li­sti in teo­ria ci davano l’appoggio esterno, ma mi fecero venire l’esaurimento: ogni giorno non sapevo nean­che se in con­si­glio avevo il numero legale. Siamo andati avanti fino a novem­bre ‘84 quando hanno con­vinto, diciamo così, due com­pa­gni comu­ni­sti di pas­sare al gruppo socia­li­sta. Il 25 gen­naio dell’85, a tre mesi dalle ele­zioni, ci fu un ribal­tone. E venne eletto un sin­daco socia­li­sta soste­nuto da una giunta pen­ta­par­tito. Così quello che aveva chie­sto Craxi in piazza nel marzo dell’83, e cioè la mia testa, si era avverato.

Poi però il Pci tori­nese alle ele­zioni dell’85 ti ricandidò.
Ma il Pci era rima­sto iso­lato, fummo bat­tuti dal pentapartito.

E dal Pci nazio­nale quali segnali arrivarono?
Al con­gresso d Milano, che si svol­geva pro­prio in quei giorni, inter­venni e spie­gai che l’iniziativa era par­tita dal sin­daco quindi non dove­vamo temere nulla: noi ci siamo sem­pre com­por­tati con rigore. Quando la com­mis­sione ristretta del comi­tato cen­trale discusse i nomi della dire­zione del par­tito, nell’elenco c’era il mio nome. Ma quel nome fu tolto.

Chi lo tolse?
E’ pas­sato molto tempo, lasciamo stare. I pro­ta­go­ni­sti si saranno emen­dati. Partì lan­cia in resta il segre­ta­rio regio­nale dell’Emilia che diceva: atten­zione, noi abbiamo tutte le giunte con i socia­li­sti, se ora met­tiamo Novelli in dire­zione sem­bra che lo abbiamo pre­miato per­ché ha fatto que­sta cosa con­tro il Psi. Ricordo che Nilde Jotti dalla tri­buna del comi­tato cen­trale si rivolse a me con que­ste parole: com­pa­gno Novelli, quando si hanno inca­ri­chi così deli­cati biso­gna saper can­tare e por­tare la croce. Molti anni dopo, leg­gendo il libro di Luciano Barca, Cro­na­che dall’interno del ver­tice del Pci (Rubet­tino, 2005, ndr) ho sco­perto com’è andata. Barca scrive così, rac­con­tando del con­gresso: «La rive­la­zione di Novelli mette subito allo sco­perto che nella Dire­zione del Pci con­vi­vono ormai due posi­zioni oppo­ste: c’è chi con­si­dera il sin­daco un giu­sto che ha fatto il suo dovere e chi, come Maca­luso, un “povero cre­tino mora­li­sta”». Barca rac­conta anche che poi in com­mis­sione elet­to­rale sulla pro­po­sta di por­tare me in dire­zione, soste­nuta da Minucci, Pec­chioli e Pajetta e con il favore di Ber­lin­guer, «la pro­po­sta è respinta sotto l’attacco della destra» (si tratta ovvia­mente della destra del Pci, ndr).

Ma come può suc­ce­dere che in un par­tito non ci si renda conto che il pro­prio com­pa­gno è un mascalzone?
Non so spie­gar­melo. Un par­tito deve sem­pre tenere alta l’attenzione. Io avver­tii i primi sin­tomi di inqui­na­mento all’inizio degli anni 80. A Torino furono le prime avvi­sa­glie di Tan­gen­to­poli, che però arrivò molto dopo. Ma nes­suno poteva cadere dal pero: il primo segnale cla­mo­roso lo dette pro­prio Ber­lin­guer, nel luglio dell’81, nella famosa inter­vi­sta a Euge­nio Scal­fari sulla que­stione morale. Dove dice: «I par­titi hanno dege­ne­rato».

Dice ‘i par­titi’, non ‘gli altri par­titi’. Era chiaro il segnale di allarme che stava lan­ciando era anche verso il suo Pci.

(Il manifesto, 9 dicembre 2014)