C’è più di qualcosa che va spiegato alla luce dei verbali che fioccano pubblicati sui giornali in queste ore. Qualcosa che va spiegato per bene perché la politica sta tutta nella responsabilità del prendere decisioni ma anche e soprattutto spiegarle, le decisioni, raccontarne il filo logico, rendere pubblico il dibattito e il ragionamento che sta dietro a certe scelte e motivarle anche, come succede in questo caso, a posteriori. Se c’è stato un tempo delle prese di posizioni urgente ora è il tempo dell’analisi delle responsabilità. È evidente.
Allora partiamo dalla cautela, che per qualcuno è stata troppa e per qualcuno è stata troppo poca, che appare piuttosto schizofrenica su due decisioni contrapposte prese nel giro di pochi giorni. Il 3 marzo nella bergamasca la situazione è ormai precipitata: nella provincia di Bergamo si registrano 372 contagiati, 56 a Nembro e 26 ad Alzano Lombardo e il Comitato tecnico scientifico si riunisce e scrive: “Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Istituto Superiore di Sanità i dati relativi ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Al proposito è stato sentito per via telefonica l’assessore Gallera e il direttore generale Cajazzo che confermano i dati relativi all’aumento. I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molte probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue”.
Il governo e Regione Lombardia non prendono decisioni: rimane tutto aperto. Conte davanti ai magistrati dichiara addirittura di non avere “mai visto” quel documento. La linea è quella del rischio calcolato. Il 7 marzo il Comitato tecnico scientifico propone al governo di “adottare due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus, l’altro sul territorio nazionale”. Due giorni dopo viene deciso il lockdown nazionale. La linea è quella dell’eccesso di cautela.
Cos’è cambiato nella linea del governo? Perché si è deciso di adottare due così diversi comportamenti nei confronti delle osservazioni del Comitato tecnico scientifico? Perché si è deciso di non chiudere ad Alzano e Nembro e invece si è deciso, pochi giorni dopo, di chiudere addirittura tutto il territorio nazionale quando le zone a rischio erano limitate al nord? In sostanza: non notate una diversa cautela nella chiusura delle zone industriali del nord rispetto a un sud che segue a ruota invece il settentrione pur non avendo numeri a alto rischio? Le risposte possono essere molte, molto condivisibili e figlie di due diversi ragionamento. Il tema però è fortemente politico: qualcuno deve spiegare perché il “supporto” del Comitato tecnico scientifico sia stato usato così diversamente. È il senso della politica, questo.
Il pentito Paolo Signifredi (ritenuto il contabile della cosca Grande Aracri) è stato raggiunto in località protetta e pestato da tre uomini che si sono presentati a volto scoperto. Sull’accaduto è stata aperta un’indagine. Continua a leggere
C’è un pentito che spaventa la ‘Ndrangheta e i suoi colletti bianchi, da anni, e che negli ultimi mesi ha deciso di alzare il tiro: un collaboratore di giustizia che molte Procure ritengono “prezioso” perché non si tratta di un semplice affiliato arresosi per guadagno o per paura ma un vero e proprio “capo”. Francesco Oliverio. Continua a leggere
“Compare Mico”. A 28 anni e con una condanna per omicidio ben impressa sul groppone, Domenico Agresta sembrava avviato ad una sicura “carriera” da “santista” di ’ndrangheta. La sua famiglia vantava solide tradizioni di omertà e “rispetto” mostrate prima a Platì e poi in Piemonte e Lombardia. I legami di sangue e di amicizia con gruppi familiari come quello dei Marando offrivano forza e garanzie. E, invece, il “rampollo” degli Agresta nell’autunno dello scorso anno ha deciso di collaborare con la giustizia, lasciando di sasso amici e congiunti. È diventato teste d’accusa nel processo istruito a Milano contro il presunto esecutore dell’assassinio del procuratore di Torino, Bruno Caccia, avvenuto nel capoluogo sabaudo nel giugno del 1983 e s’appresta ad essere l’ariete utilizzato dalle Dda di mezza Italia contro la mafia calabrese. “Compare Mico”, infatti, conosce i segreti rapporti intessuti tra i vari clan operanti nella Penisola e gli affari che hanno sviluppato in giro per il mondo. Ma la cosa che fa più impressione nelle prime pubbliche deposizioni fatte dal pentito è che accusa il padre, gli zii e il sistema pseudo-valoriale nel quale è cresciuto. «Per loro la ’ndrangheta è vita» dice in aula «sono loro che mi hanno educato a quel tipo di mentalità inculcandomi i loro voleri. Voleri ripeto non valori». Agresta interpreta il ruolo del contestatore di condotte e costumi. «Ho la sfortuna di non aver scelto il mio destino. Sono nato in una famiglia in cui non c’è una persona – ma dico non una di numero – che da bambino avrebbe potuto portarmi via da quell’ambiente». E spiega: «Mio bisnonno ha fondato insieme ad altri il locale di Platì. Mio nonno invece è stato responsabile del Piemonte e ha preso il posto di Domenico Belfiore (condannato come mandante del delitto Caccia n.d.r.)». “Compare Mico” accusa poi il padre, Saverio, di gravissimi delitti. «Non posso fare nomi perché ci sono indagini a Torino ma ho già riferito che mio padre ha commesso due omicidi».
È la prima volta che un giovane e importante esponente della mafia calabrese rende dichiarazioni contro suoi stretti congiunti. Agresta non è uno qualsiasi: la sua famiglia è imparentata con i Sergi di Milano e con i Marando. La mamma è Anna Marando, sorella di uno dei più grandi broker calabresi della droga: Pasqualino Marando, scomparso nel 2002 per lupara bianca. Con il suo pentimento è come se nella ’ndrangheta fosse scoppiata con decenni di ritardo la contestazione giovanile…
Il personaggio
Domenico Agresta, comunemente chiamato “Micu Mcdonald”, ha pure accusato lo zio materno di due delitti avvenuti alla fine degli anni ‘90. In particolare riferisce delòl’uccisione di un uomo avvenuta a Platì con la vittima sotterrata insieme alla sua auto. «Hanno usato un escavatore per fare il buco. Non mi è stato detto dove sia stato seppellito. Questa circostanza del seppellimento del morto con la macchina mi è stata riferita quando ero detenuto».
Riguardo all’altro delitto addebitato allo zio racconta che alla vittima venne lasciato «il fucile in bocca come segno di sfregio, a significare che non avrebbe dovuto parlare. L’omicidio è avvenuto nella zona di Locri».
Il boss Nicola Femia ha affidato ai magistrati dell’Antimafia di Bologna le sue confessioni sugli affari della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna e non solo. Il padrino del processo Black Monkey, che ha sgominato un enorme giro di slot machine truccate tra Bologna e la Romagna, ha intrapreso la strada della collaborazione con la giustizia e lo ha fatto consegnando al pm della Dda bolognese Francesco Caleca quello che sa sui traffici illeciti della ‘ndrangheta, di cui lui è stato personaggio di spicco, con affari dal traffico di droga al gioco d’azzardo.
Per questo le sue rivelazioni, iniziate qualche mese fa, potrebbero far tremare i polsi a imprenditori e politici dall’Emilia- Romagna alla Calabria: Femia sa e conosce molto bene come girano i soldi in molte realtà. Sia per lui che per i suoi familiari sono già scattate le misure di protezione per i collaboratori di giustizia. È iniziato tutto poco prima della sentenza di condanna a 26 anni di reclusione nel processo Black Monkey, pronunciata a febbraio dal Tribunale di Bologna.
In quei giorni, Femia ha maturato la scelta di pentirsi e ha chiesto di poter parlare in carcere con il pm Caleca, che in quel processo ha sostenuto l’accusa, dopo un’indagine complessa che ha incontrato anche ostacoli sul suo cammino, a partire dal reato di associazione mafiosa in un primo momento escluso dal Riesame, ma poi riconosciuto dai giudici di primo grado. A quel primo traguardo per la Dda di Bologna, si aggiungono ora le rivelazioni del boss, che potrebbero aprire altri filoni d’indagine. «Femia ha fatto indicazioni utili — spiega il procuratore Giuseppe Amato — sia a noi che ad altre Procure. Abbiamo inviato a Catanzaro e alla Direzione nazionale Antimafia a Roma i verbali che possono aiutare a far luce su vicende di competenza di quegli uffici».
Contemporaneamente la Dda bolognese sta passando al setaccio le rivelazioni che riguardano l’Emilia-Romagna: dopo le inchieste Black Monkey ed Aemilia, che hanno squarciato il velo su una realtà politicoeconomica che si era sempre considerata immune alle infiltrazioni, presto la Dda potrebbe svelare nuovi affari milionari della mafia in regione. Femia, che a 56 anni ha sul groppone oltre alla condanna per Black Monkey un’altra per traffico di droga a 23 anni e altri processi in Calabria, sa che è destinato a trascorrere il resto della sua vita in prigione.
Il blitz del Gico della Guardia di Finanza di Bologna scattò nel 2013 per lui e altre 29 persone, tra cui i figli e il genero: furono sequestrate 1.500 slot machine truccate che avevano permesso all’associazione di macinare profitti milionari. Nelle carte di quell’inchiesta ci sono le intercettazioni delle telefonate in cui il boss minacciava il giornalista Giovanni Tizian, che per primo parlò degli affari del boss. Adesso è lui stesso a parlare dei suoi affari con i magistrati, ma prima di guadagnarsi la fiducia dei giudici dovrà fornire indicazioni utili e circostanziate.
Un articolo importante di Giuseppe Baglivo per Zoom24:
Ci sono anche le dichiarazioni del vibonese Andrea Mantella, esponente di spicco del clan Lo Bianco di Vibo Valentia che da qualche mese ha iniziato a collaborare con la giustizia, a sostegno dell’impalcatura accusatoria messa in piedi dal procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Gaetano Paci e dal pm antimafia Giulia Pantano contro la consorteria dei Ferrentino e dei Chindamo di Laureana di Borrello colpite duramente giovedì dall’operazione denominata “Lex” che ha interessato pure il clan dei Lamari. Sono gli stessi magistrati a spiegare nel loro provvedimento di fermo che il collaboratore di giustizia vibonese, ex intraneo alla cosca Lo Bianco di Vibo Valentia, nell’anno 2006 aveva costituito un autonomo sodalizio mafioso nella città di Vibo Valentia, scisso da quello originario dei Lo Bianco, a base prevalentemente familiare e con omonima denominazione, vale a dire quella di “‘ndrina Mantella”. Ad avviso dei magistrati della Dda di Reggio Calabria, Andrea Mantella nella sua qualità di capo clan ha conosciuto molti esponenti delle altre articolazioni territoriali della ‘ndrangheta, sia da soggetto libero che da detenuto.
Mantella e Alessandro Ferrentino. In un recentissimo interrogatorio reso il 26 settembre scorso, Andrea Mantella racconta di aver conosciuto, e fatto amicizia durante un comune periodo di detenzione a Spoleto, il 43enne Alessandro Ferrentino di Laureana di Borrello, indicato come “capo indiscusso dell’omonima cosca di ‘ndrangheta Ferrentino-Chindamo, all’epoca detenuto per l’omicidio volontario” di Pietro Morfei, il boss di Monsoreto di Dinami ucciso la sera del 17 luglio 1998 ed erroneamente indicato da Mantella come “Morfea Peppe”. Alessandro Ferrentino avrebbe raggiunto nella ‘ndrangheta la dote del “vangelo”.
Secondo quanto appreso da Andrea Mantella, a causa dell’assenza forzosa di Alessandro Ferrentino sul territorio di Laureana di Borrello, il comando della cosca sarebbe stato assunto dal di lui fratello, sulla cui figura aggiungeva che si trattava di persona che faceva la spola con il Nord Italia anche per i traffici di droga. Pure dal carcere, tuttavia, per il tramite del fratello che regolarmente si recava a fargli visita e lo manteneva economicamente, Ferrentino Alessandro “nipote del noto Giosuè Chindamo”, avrebbe dato disposizioni continuando a “comandare” il suo gruppo mafioso, servendosi del congiunto che, dopo il suo arresto, avrebbe preso le redini dell’organizzazione, dedita prevalentemente ad estorsioni e traffici di armi e sostanze stupefacenti, sia di cannabis che cocaina. Su Laureana i Chindamo-Ferrentino, alleandosi al clan dei Lamari, ad avviso di Andrea Mantella (ma ciò risulta anche dalle sentenze definitive relative alle operazioni antimafia “Tirreno” e “Piano Verde”), avrebbero soppiantato nel potere mafioso la famiglia dei Cutellè.
Carmelo Lo Bianco
Andrea Mantella ed i Lo Bianco. Andrea Mantella ai magistrati della Dda di Reggio Calabria si qualifica come “imprenditore agricolo” e soggetto che aveva il “monopolio delle carni a Vibo Valentia”. Spiega quindi di aver fatto parte della cosca Lo Bianco di Vibo Valentia, clan “satellite” della potente famiglia di ‘ndrangheta dei Mancuso di Limbadi e Nicotera, avendo raggiunto il grado mafioso di “Trequartino”. “Successivamente ho fondato nel 2006 una mia ‘ndrina – rimarca il collaboratore di giustizia – per l’appunto la ‘ndrina Mantella”, un sodalizio mafioso autonomo a base prevalentemente familiare che “tuttavia è stato stroncato dopo qualche anno”. Il motivo della frizione fra Andrea Mantella e i Lo Bianco era dettato dal fatto che il futuro collaboratore di giustizia non avrebbe tollerato lo strapotere mafioso dei Mancuso anche sulla città di Vibo, con i Lo Bianco che consegnavano loro gran parte dei proventi illeciti delle attività delittuose su Vibo. “Rappresento inoltre – ha fatto mettere a verbale Mantella ai magistrati della Dda di Reggio – che sono stato un killer dei Lo Bianco, avendo commesso nel loro interesse, come diretto esecutore materiale, parecchi omicidi.
Paolo D’Elia
Paolo Lo Bianco
Il controllo sulla città di Vibo ed i legami con il reggino. Il verbale non omissato da parte della Dda di Reggio Calabria permette per la prima volta di apprendere diversi particolari in ordine ad alcune dichiarazioni rese Andrea Mantella che invece i magistrati della Dda di Catanzaro hanno inteso al momento “omissare” per non compromettere le indagini in corso. Si apprende così che l’autonomo gruppo mafioso fondato da Andrea Mantella sarebbe stato “composto da circa 13 persone” e, ad avviso del pentito, sino al giorno della sua collaborazione tale sodalizio avrebbe “dominato incontrastato su Vibo Valentia”. “Dopo il mio avvento mafioso in autonomia rispetto alla ‘ndrina dei Lo Bianco – dichiara Mantella – la città di Vibo Valentia era sotto di me e del mio gruppo, esercitando noi ogni forma di potere mafioso, tramite estorsioni, controllo dei lavori pubblici e droga”. Quindi l’indicazione da parte di Andrea Mantella dei suoi rapporti intessuti con altri sodalizi mafiosi come i Piromalli ed i Molè di Gioia Tauro, i cui esponenti sarebbe andato a trovare direttamente a Gioia Tauro tramite Paolino Lo Bianco(figlio del defunto boss Carmelo Lo Bianco, detto “Piccinni”) e Paolino D’Elia, oggi 87enne, nativo di Seminara ma negli anni ’80 trasferitosi nel Vibonese per sfuggire ad una faida dopo essere stato gravemente ferito in un agguato mafioso a Seminara.
Si tratta dello stesso Paolo D’Elia, oggi imputato a Vibo per usura in un processo istruito dalla Dda di Catanzaro, che avrebbe svolto il ruolo di “paciere” – per come emerso nell’inchiesta “Nuova Alba” – fra le opposte articolazioni del clan Lo Bianco guidate dagli omonimi cugini Carmelo Lo Bianco, l’uno detto “Piccinni”, l’altro “Sicarro”. Gli stessi Mancuso, secondo il Ros, avrebbero tenuto in gran considerazione Paolo D’Elia indicandolo quale esponente autorevole della massoneria deviata ed autore, negli anni, di alleanze con altre famiglie mafiose come gli Alvaro di Sinopoli, i De Stefano di Reggio Calabria ed i Molè di Gioia Tauro.
Andrea Mantella racconta inoltre di aver avuto rapporti pure con i clan di San Luca, con i Pesce di Rosarno ed in particolare con Francesco Pesce, detto “Testuni” (in foto a sinistra), figlio dello storico boss Antonino Pesce, ed anche con Rocco Bellocco, sempre di Rosarno.
I Lo Bianco e le “proiezioni” delle dichiarazioni di Mantella. E’ il traffico di droga quello che potrebbe aprire scenari del tutto inediti sull’asse Vibo-Laureana di Borrello. Andrea Mantella indica in particolare un personaggio del clan Lo Bianco, dedito a compiere usura, danneggiamenti ed estorsioni, il quale avrebbe stretto solidi rapporti in carcere con diversi componenti dei clan mafiosi di Laureana di Borrello. Altri elementi del clan Lo Bianco-Barba, indicato da Mantella come un unico sodalizio criminale, sarebbero stati inoltre particolarmente attivi nel settore del traffico di stupefacenti. Droga che Andrea Mantella spiega che veniva indicata dai mafiosi con i termini di “shweeps”, “stoccafisso” oppure “ciciorfa”. “Spesso poi – conclude Mantella – per indicare la ndrangheta noi utilizzavamo in gergo pure il termine di “pisella”.
Ne ha per tutti, il pentito Carmelo D’Amico, che nell’aula della Corte d’Assise, dove si celebra un processo per un omicidio di mafia, ha detto, ancora una volta, le ‘sue’ verità. Verità che adesso sono al vaglio degli inquirenti, e non quelli del tribunale di messina, ma quelli del tribunale di Reggio calabria, perchè D’Amico, stavolta, ha tirato in ballo giudici messinesi, e competenza territoriale vuole che a indagare non sia il distretto coinvolto dalle dichiarazioni.
Ha parlato con disinvoltura di fatti che, se davvero fossero accertati, sarebbero di una gravità assoluta.
“Abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale, e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante”. Così, come parlasse di quisquilie, Carmelo D’Amico, ex boss, oggi pentito, di Cosa Nostra barcellonese, ha parlato al processo che vede imputato Enrico Fumia per l’omicidio di Antonino “Ninì” Rottino, avvenuto nell’agosto 2006. Un delitto che per gli inquirenti ha segnato l’ascesa al potere del gruppo mafioso dei Mazzarroti capeggiato da Tindaro Calabrese.
Delle dichiarazioni di D’amico ne parla Nuccio Anselmo su Gazzetta del Sud.
Il pentito risponde alle domande del Pm Massara:
“Guardi – ha detto l’ex boss – io ho deciso di collaborare con la giustizia, perché sono stato sempre chiuso al 41 bis, da quando mi hanno arrestato dal 2009. Il 41 bis mi ha fatto riflettere tantissimo stando da solo, anche perché il 41 bis è un carcere duro, e niente ho deciso di cambiare vita, anche se avevo la possibilità può darsi, di uscire dal carcere, perché io ho esperienza nei processi perché abbiamo aggiustato, la nostra organizzazione ha aggiustato diversi processi, abbiamo corrotto qualche giudizio di cui ne ho parlato, abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante e quindi c’era possibilità che io potessi uscire dal carcere”.
Il processo ‘molto importante’, a detta del pentito, sarebbe stato quello scaturito dal triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino, avvenuto la notte del 4 settembre 1993 alla stazione di Barcellona: le vittime, tre ragazzi di Milazzo, furono giustiziate perchè superavano i confini territoriali del loro comune nel commettere reati, spingendosi sino a Barcellona.
D’Amico ha toccato anche l’Arma dei carabinieri con le sue ‘rivelazioni’:
“ Ho avvisato pure Carmelo Bisognano dell’operazione Icaro, l’ho avvisato io che c’era l’operazione in corso, perché avevamo saputo praticamente, tramite carabinieri corrotti che noi avevamo, che pagavamo sul libro paga dal ’90, carabinieri corrotti che era uno.. uno apparteneva alla.. alla squadra catturando latitanti, un altro era nella Dda… nella Dda che faceva la scorta.. e tanti altri carabinieri e poliziotti che sono sui libri paga, che ne ho parlato purtroppo”.
Infine, il passaggio alla Cassazione: “La nostra associazione – ha detto D’Amico – era molto ramificata a livello politico, a livello istituzionale, era una delle più potenti che c’era in Sicilia, diciamo la cosca barcellonese e anche molto sanguinaria. Noi siamo arrivati anche sino alla Cassazione a sistemare un processo molto noto. Abbiamo corrotto un giudice di Cassazione, che sono andato personalmente io insieme a Pietro Mazzagatti Nicola, e abbiamo corrotto questo giudice nativo di Santa Lucia del Mela e che risiede a Roma, abbiamo comunque per questo le dico che io ero sicuro di uscire, perché sapevo che avevamo anche l’appoggio in Cassazione di questo giudice corrotto che era in Cassazione”.
E alla fine il pentito Carmelo D’Amico ha fatto il nome di Mister X: si tratta dell’ex vicepresidente del Senato Domenico Nania, già sottosegretario alle Infrastrutture, ex An, poi Pdl. Per il nuovo collaboratore, è lui il ”personaggio potente e misterioso”, ma soprattutto interno alle istituzioni, che avrebbe guidato una loggia massonica occulta, attiva tra la Sicilia e la Calabria, capace di condizionare le trame della politica e dei grandi affari, senza essere mai stato sfiorato dalle indagini.
Il nome di Nania, coperto dagli omissis, era già contenuto in due verbali depositati nei giorni scorsi, ma stamane in aula davanti alla Corte d’appello di Messina che processa l’avvocato Rosario Pio Cattafi, condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa, D’Amico per la prima volta lo ha accusato pubblicamente, facendo esplodere una vera e propria bomba nella palude di Barcellona Pozzo di Gotto, ma anche nei salotti buoni della provincia messinese, crocevia di molteplici interessi criminali finora sempre protetti da una granitica omertà.
Le accuse di D’Amico
Nei suoi verbali, il neo-pentito aveva raccontato: ”Sam Di Salvo (boss italo-canadese condannato per associazione mafiosa, come uno dei capi del clan barcellonese, ndr) mi disse che Cattafi apparteneva, insieme a Nania, ad una loggia massonica occulta, di grandi dimensioni, che abbracciava le regioni della Sicilia e della Calabria. Sempre Di Salvo mi disse che Saro Cattafiinsieme al Nania erano fra i massimi responsabili di quella loggia massonica occulta”.
Ma non solo. Ai pm della Dda di Messina Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio, il pentito D’Amico aveva fatto anche un altro nome: quello di Giuseppe Gullotti, boss e mandante dell’uccisione del giornalista Beppe Alfano, nonché consegnatario (secondo il pentito Giovanni Brusca) del telecomando che nel ’92 servì ai corleonesi per commettere la strage di Capaci. ”Sam Di Salvo mi disse – racconta ancora D’Amico – che il Nania che apparteneva a questa loggia massonica, era un amico di Gullotti ma non in senso mafioso. Era cioè un conoscente di Gullotti ma non un soggetto organico della famiglia barcellonese; ciò a differenza di Cattafi. Aggiungo che Nania era un amico di Marchetta”.
A Barcellona, Maurizio Marchetta è un personaggio conosciutissimo. Architetto e titolare di un’impresa di costruzioni, dall’inizio del Duemila ha ricoperto la carica di vicepresidente del Consiglio comunale, quota An, sotto l’ala protettiva di Maurizio Gasparri. Nel 2003 fu coinvolto nell’indagine denominata “Omega”, per concorso in mafia, inchiesta poi archiviata dalla procura di Barcellona. Nel 2009 si trasformò in un ”dichiarante”, provocando l’apertura dell’indagine ”Sistema” e facendo rivelazioni sulla presunta loggia massonica ”Ausonia” che, secondo le sue accuse, Sarebbe stata coinvolta in un sistema di controllo di tutti gli affari pubblici. Marchetta denunciò anche di essere vittima di estorsioni commesse, tra l’altro, dagli uomini d’onore Carmelo Bisognano e dallo stesso Carmelo D’Amico, entrambi oggi pentiti. Le accuse di estorsione nei confronti dei mafiosi, confluirono in un processo denominato ”Sistema”, concluso in primo grado con le condanne degli imputati, poi assolti dalla Corte d’Appello di Messina in seguito alla collaborazione di Bisognano. Quest’ultimo dichiarò che Marchetta era associato al clan e che mai era stato vittima di estorsioni.
Nania, il Mister X e la ”Corda Fratres”
Ma chi è Domenico Nania? 64 anni, avvocato civilista, negli anni Settanta dirigente del Fuan, viene eletto deputato per la prima volta nell ’87 nelle file del Msi. Riconfermato nel ’92 e nel ’94, diventa sottosegretario ai Lavori Pubblici nel primo governo Berlusconi. E’ vice-capogruppo alla Camera di An tra il ’96 e il 2001, quando trasloca al Senato. Nel 2008 confluisce insieme a tutto il gruppo di Fini nel Pdl e viene eletto vice-presidente di Renato Schifani alla guida di Palazzo Madama. Arrestato a 18 anni e condannato in via definitiva a 7 mesi per lesioni, in seguito a scontri tra studenti per motivi ideologici, nel 2004 viene condannato in primo grado per abusi edilizi nella sua casa di Barcellona Pozzo di Gotto, sentenza poi annullata senza rinvio dalla corte di Cassazione.
Negli anni passati i nomi di Nania, Gullotti e Cattafi, ma anche quello del pg Franco Cassataerano saltati fuori dagli elenchi degli iscritti all’associazione culturale ”Corda fratres” spesso assimilata ad una vera e propria lobby di potere a Barcellona Pozzo di Gotto. Oltre a Nania, all’associazione risultano appartenere il cugino, l’ex sindaco barcellonese Candeloro Nania, ma anche l’ex di Pg di Messina oggi in pensione Franco Cassata e l’ex presidente della Provincia di Messina, Giuseppe Buzzanca. Una iscrizione che queste alte autorità dividono con due boss di prima grandezza: il primo è Gullotti, la persona che, secondo i magistrati, ha ordinato di uccidere il giornalista Beppe Alfano e ha consegnato il telecomando della strage di Capaci a Giovanni Brusca; il secondo è Cattafi, indicato come l’anello di congiunzione fra Cosa nostra, la massoneria e i servizi segreti deviati.
D’Amico ha parlato di 45 omicidi, a molti dei quali avrebbe partecipato in prima persona, ma anche dell’uccisione di Alfano e dell’esecuzione dell’editore Antonio Mazza, autoaccusandosi di quest’ultimo delitto, e, a quanto pare, contraddicendo addirittura la sentenza della Corte di Cassazione, che ha indicato Antonino Merlino quale killer del giornalista. Ma la parte più ”blindata” delle dichiarazioni del pentito barcellonese riguarderebbe proprio il patto tra mafia e massoneria, con tutte le coperture istituzionali fornite al sistema criminale, che finora è stato solo sfiorato dalle indagini.
“Giuseppe Cimarosa e’ un giovane che cittadini onesti, associazioni e istituzioni non devono lasciare solo in questo percorso di riscatto intrapreso dopo la collaborazione del padre Lorenzo con la giustizia”. Lo ha detto il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, dopo averlo incontrato ed essersi intrattenuto a parlare con il trentunenne, cugino del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. Il padre Lorenzo, 54 anni, e’ stato arrestato nell’operazione “Eden” e oggi e’ un collaboratore di giustizia.
Giuseppe ha detto al vescovo che tutti i componenti del suo nucleo familiare hanno condiviso la scelta della di passare dalla parte dello Stato e di voltare definitivamente le spalle a Cosa nostra.
A determinare la scelta dell’imprenditore in direzione del pentimento e’ stato proprio il figlio dopo avergli parlato la prima volta in carcere. Al vescovo, Giuseppe Cimarosa (che ha preso una dura posizione pubblica contro il superlatitante Matteo Messina Denaro), regista di teatro equestre e fondatore della “Compagnia del centauro”, ha raccontato la sua solitudine, la sua paura e quella che vive la sua famiglia: il fratello Michele, la mamma Rosa Filardo e la nonna Rosa Santangelo (zia del superlatitante Matteo Messina Denaro) che vivono con lui senza tutela.
Il pentito Iovine parla. Hanno esultato tutti, giustamente, per potere ascoltare le parole del capo dei Casalesi. Qualcuno ha (ovviamente) preso i meriti perché da Maroni in poi si può magnificare un arresto di latitante semplicemente per il fatto di essere parlamentare, nell’antimafia elettorale funziona così. Anche le gomorriadi hanno beneficiato dell’arresto nonostante non si sentano più quelli che con faciloneria (e sono tanti illustri antimafiosi) ci dicevano che Roberto Saviano e Rosaria Capacchione non rischiassero nulla mentre Iovine conferma il contrario. Però Iovine non sta parlando solamente di quegli elementi funzionalissimi di merda e sangue così buoni da dare in pasto all’opinione pubblica, no, ha dichiarato di avere dato soldi a destra e a sinistra ai sindaci del territorio e ultimamente ha aggiunto altro:
«C’era tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli che riusciva ad aggiustare i processi. Me lo ha detto l’avvocato Michele Santonastaso. Mi disse che occorrevano 250mila euro. I soldi servivano per corrompere i giudici. E non era la prima volta che Santonastaso mi chiedeva soldi per aggiustare i processi in Corte d’Appello»
Questi, i giudici o gli avvocati o i magistrati o i membri delle forze dell’ordine corrotti, rimangono sempre sotto traccia, sotto voce, come se fossero una malattia passeggera mentre i fatti dimostrano (e non mi stancherò mai di scriverlo) che ci vogliono parecchi corruttibile per rendere possibile uno Iovine e abitabile per lui l’ambiente tutto intorno.