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Perché è stato condannato Mimmo Lucano, una scandalosa sentenza che criminalizza l’accoglienza

Le sentenze non si commentano ma si rispettano, dicono. Le sentenze non si possono commentare finché non ci sono almeno le motivazioni, dicono ancora. Eppure il processo a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, è diventato per sua sfortuna il simbolo di un’accoglienza che è stata ritenuta pericolosa per il clima politico che governi diversi (di parti addirittura opposte) hanno instillato gradualmente. La condanna di Mimmo Lucano in primo grado di giudizio inflitta dal tribunale di Locri va commentata eccome, raccontata con cura per filo e per segno e perfino divulgata il più possibile perché siamo solo al primo grado di giudizio ma un giudice che quasi raddoppia la richiesta dell’accusa e riesce a infliggere 13 anni e due mesi a un ex sindaco che durante le sue amministrazioni (dal 2004 al 2018) è riuscito a mettere in piedi un modello di accoglienza studiato e elogiato in tutto il mondo è un fatto “politico” enorme e ci riguarda, riguarda tutti noi.

Mimmo Lucano viene arrestato il 2 ottobre del 2018 dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’operazione Xenia. Quel giorno la Procura della Repubblica del tribunale di Locri scrive un festoso comunicato stampa in cui dice che l’operazione «rappresenta l’epilogo di approfondite indagini (…) svolte in merito alla gestione dei finanziamenti erogati dal ministero dell’Interno e dalla prefettura di Reggio Calabria al comune di Riace per l’accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo politico». Nel corso delle indagini, scrivono i magistrati, sarebbero state raccolte prove che hanno permesso di dimostrare come il sindaco e la compagna «avessero architettato degli espedienti criminosi, tanto semplici quanto efficaci, volti ad aggirare la disciplina prevista dalle norme nazionali per ottenere l’ingresso in Italia». La Procura accusa il primo cittadino di favoreggiamento all’immigrazione clandestina: avrebbe promosso una associazione per delinquere, allo scopo di catalizzare fondi destinati al finanziamento dei centri Sprar, Msna e Cas per farli arrivare ad associazioni a lui vicine, come Città Futura.

Tutto bene? Non proprio se è vero che le ipotesi della Procura vengono subito stroncate dal gip Domenico Di Croce che nell’ordinanza ha ridotto la presunta associazione a un «diffuso malcostume che non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delineate dagli inquirenti». Addirittura sette reati, relativi alla turbativa dei procedimenti per l’assegnazione dei servizi di accoglienza, sono stati rigettati e sono ben 14 le richieste di arresto che i magistrati non sono riusciti a ottenere. Per il gip, buona parte dell’indagine – che riguarda fatti avvenuti tra il 2014 e il 2017 – era basata su congetture, errori procedurali e inesattezze. Secondo il giudice, infatti, le ipotesi sui servizi di accoglienza sono così «vaghe e generiche» da rendere il capo d’imputazione «inidoneo a rappresentare una contestazione». Per quanto riguarda l’accusa di truffa aggravata il gip scrive che gli inquirenti «sembrano incorsi in un errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio». Di fatto, scrive il gip, viene individuato l’ingiusto profitto nel totale delle somme incassate dalle cooperative, quando invece andava individuato nella differenza tra il totale e le spese realmente sostenute». Non male come inizio, eh?

Nell’aprile 2019 la Cassazione intanto annulla con rinvio il divieto di dimora a Riace di Mimmo Lucano ma nelle motivazioni depositate la Corte emette anche un giudizio di rilevo sull’indagine: i giudici scrivono che mancano indizi di «comportamenti» fraudolenti che Domenico Lucano avrebbe «materialmente posto in essere» per assegnare alcuni servizi, come quello della raccolta di rifiuti, a due cooperative dato che le delibere e gli atti di affidamento sono stati adottati con «collegialità» e con i «prescritti pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato». Per quanto riguarda il favorire la permanenza in Italia della sua compagna Lemlem gli “ermellini” scrivono che Lucano ha cercato di aiutare solo Lemlem «tenuto conto del fatto» che il richiamo a «presunti matrimoni di comodo» che sarebbero stati «favoriti» dal sindaco, tra immigrati e concittadini, «poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare».

In un processo che sfinisce per qualità e quantità delle imputazioni accade che i magistrati non riescano a trovare un euro, un solo euro per il presunto arricchimento personale di Mimmo Lucano che nel frattempo perde il comune di cui era sindaco (sostituito da un sindaco ineleggibile che decade poco dopo, giusto il tempo di togliere il nome di Peppino Impastato da una piazza del paese) e vive praticamente in condizioni di povertà. Non trovando i soldi allora l’accusa vira in una tesi piuttosto spericolata: Lucano non avrebbe agito per aiutare i bisognosi ma per un presunto movente politico-elettorale. Già nel novembre 2019 il colonnello Sportelli aveva fatto intendere che l’idea di Lucano fosse quella di candidarsi alle elezioni politiche del 2018. Sentito in aula il colonnello elencò i terribili poteri forti dietro a Lucano: i voti dei Tornese (una famiglia di Riace), dell’associazione Riace Accoglie e della cooperativa sociale Girasole. In effetti se ci pensate tutti voti indispensabili per arrivare in Parlamento. Ma quale sarebbe la “prova”? Una telefonata di Lucano a suo fratello in cui tra le altre cose dice «quasi quasi mi candido».

Capito che diabolico disegno? Ma c’è un altro punto sostanziale: Lucano ha rifiutato candidature alle elezioni europee e alle elezioni politiche e poiché non si possono processare le intenzioni il disegno della Procura è miseramente caduto. Fino allo scorso aprile quando il pubblico ministero Michele Permunian ha un’illuminazione quando legge un’intervista in cui Lucano annuncia la sua candidatura nella lista di De Magistris per le prossime elezioni regionali in Calabria: «L’annunciata candidatura alle regionali di Mimmo Lucano nella lista di Luigi De Magistris confermerebbe le sue reali ambizioni politiche», dice l’accusa. L’avevamo detto noi: si candida. Al giudice è perfino toccato spiegare che la candidatura di Lucano non ha niente a che fare col processo. Anche sui presunti “matrimoni di comodo” il processo ha riservato momenti di grande imbarazzo: nel fascicolo del processo, aprite bene le orecchie, non c’è un solo matrimonio celebrato a Riace. Ce n’è uno bloccato proprio da Lucano.

Un fatto è certo: la criminalizzazione dell’accoglienza è un vento velenoso che attraversa l’Italia e l’Europa e rovescia la realtà. «Ho speso la mia vita per gli ideali, contro le mafie, ho fatto il sindaco, mi sono schierato dalla parte degli ultimi, dei rifugiati che sono arrivati, mi sono immaginato di contribuire al riscatto della mia terra, è stata un’esperienza indimenticabile, fantastica, però oggi devo prendere atto che per me finisce tutto» ha dichiarato a Lucano subito dopo la notizia della condanna. «È una cosa pesantissima – ha aggiunto -, non so se per i delitti di mafia ci sono queste sentenze così. È un momento difficile, non so cosa farò. Mi aspettavo una formula ampia di assoluzione». La politica intanto fa il suo gioco inevitabile e meschino sventolando la sentenza (di un iter giudiziario ancora lungo) a proprio vantaggio.

Un fatto è certo: il processo a Mimmo Lucano è un processo “politico” come se ne vedono troppi in questo Paese. In attesa delle motivazioni della sentenza non si può registrare che un uomo che ha accolto i migranti per ora ha preso una condanna che supera quella di chi come Traini ai migranti ha sparato. Ma forse più di tutto vale la frase di un’anziana donna di Riace fuori dal tribunale che imbeccata dai giornalisti riesce solo a dire «avreste dovuto vedere Riace prima di Lucano: deserta, non c’era niente, niente». E viene il dubbio che a qualcuno andasse meglio così. C’è un precedente però che lascia uno spiraglio di speranza: in Francia Cédric Herrou fu prima condannato per aver aiutato migranti in difficoltà e poi assolto per la prevalenza del principio di solidarietà: il ritorno della prevalenza del principio di solidarietà sarebbe una buona notizia per tutti.

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Il Green Pass non è un dogma: ecco perché se ne può discutere senza essere no vax

Il tema è complesso, molto più articolato di come spesso viene affrontato e non è certo buono per essere stropicciato per sfamare opposte e radicali tifoserie. L’estensione del green pass nelle prossime settimane, soprattutto nel mondo del lavoro, pone un’importante riflessione sulla libertà. Da una parte c’è chi crede che la libertà sia l’ambiente dell’individualismo spinto, faccio quello che voglio soprattutto finché le regole me lo consentono, mentre dall’altra si insiste sulla libertà che non esiste senza un piano relazionale e che non può slegarsi da una responsabilità collettiva.

Poi c’è il tema della salute, anche questo troppo serio per non essere preso sul serio: il diritto di mettere a rischio la propria salute (non accade forse con il fumo, con l’alcol o con qualsiasi altra sregolatezza?) non ha nulla a che vedere con il diritto di mettere a rischio la salute degli altri: non è vietato viaggiare in autostrada a 200 all’ora con i fari spenti per il gusto di intaccare la libertà personale ma semplicemente per il dovere di evitare per quanto possibile che qualcun altro rimanga coinvolto in un incidente. Il concetto sembra così banale, eppure sfugge.

È anche vero però che il sistema sanitario nazionale (e la Costituzione) prevedono l’obbligo di curare tutti, indipendentemente dalle loro scelte personali (e per fortuna) e quindi avvelenare i pozzi con idee strampalate come quella di addebitare i ricoveri a chi rifiuta il vaccino non porta nessun altro risultato oltre al crollo della serietà del dibattito.

Che l’uscita dalla pandemia avvenga solo grazie al vaccino è il pensiero comune della scienza ed è una lezione della Storia: chi rifiuta il vaccino adducendo misteriosi complotti mondiali o peggio ancora presunti piani di stermini di massa è stupido e pericoloso. La stupidità è da sempre nemica della democrazia e chi la cavalca per interessi politici è un immorale fallito.

Però una riflessione sul green pass che ora sostanzialmente serve per qualsiasi cosa forse conviene davvero farla. Ad esempio, è possibile sapere sulla base di quali analisi tecniche è stata presa questa decisione? Quali sono i criteri, gli studi e i dati sui quali si è deciso di adottare questa misura e poi estenderla? Per essere più precisi: al raggiungimento di quale risultato verrà tolto? A che percentuale di vaccinati? Al raggiungimento di quanti decessi per settimana? Al raggiungimento di che numero di nuovi casi al giorno? Davvero non è pericoloso porre una misura senza chiarire un obiettivo?

Perché le leggi e le regole di una democrazia sono un cosa seria e sentire che l’obbligo di green pass nei luoghi di lavoro “serve a ovviare alla mancata messa in sicurezza dei mezzi di trasporto” (come ad esempio ha dichiarato Lina Palmerini durante una puntata di Otto e mezzo) oppure sentire (come ha detto il ministro Brunetta) che viene adottato un decreto legge che entrerà in vigore solo fra un mese per sfruttare intanto “l’effetto annuncio” è qualcosa che non ha niente a che vedere con il diritto. E noi siamo un Paese fondato sul diritto.

Per questo bisognerebbe essere molto cauti nell’additare come “no green pass” tutti coloro che pongono dei dubbi. Roberto Perotti (economista e accademico bocconiano) a Radio1 ha detto quello che tutti pensano e che non hanno il coraggio di dire: “Il green pass è un modo per obbligare le persone a vaccinarsi senza introdurre un obbligo vaccinale”.

Ecco allora lo snodo fondamentale: se si ritiene che il vaccino sia la migliore soluzione per uscire dalla pandemia (e su questo quasi tutti sono d’accordo) allora la politica dovrebbe prendersi la responsabilità di fare politica senza paternalismi e senza misure che servono per “indurre a”. Che l’Italia adotti un’estensione del green pass che non è presente per ora in nessuno Stato è un fatto politicamente rilevante, oltre che sanitario.

Sì, è vero che non c’è soddisfazione più grossa che vedere i pericolosi no vax costretti a correre a vaccinarsi per non perdere il reddito, ma siamo sicuri che sia la strada più intellettualmente onesta? Siamo d’accordo che l’obbligo vaccinale sia (come dice Selvaggia Lucarelli) un privilegio gratuito per continuare a vivere in salute? Sì, perfetto. Allora non si abusi di strumenti collaterali.

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“Gino Strada morto piace a tutti perché non parla”, l’accusa della figlia Cecilia

«Ci dicono: “soffriamo la sofferenza”. Hanno sofferto in Africa e dover aggiungere sofferenza alla sofferenza è difficile da spiegare e da capire»: Juan Gil, il capo missione della Resq People, al telefono racconta la difficoltà di tenere sulla sua nave 166 persone raccolte nel Mediterraneo in 4 differenti operazioni di soccorso. «Abbiamo 24 donne, 17 minori di cui 3 con meno di 5 anni, un bambino di 9 mesi e una bambina di un anno». La nave italiana è in attesa di un porto e per ora riesce a gestire le persone a bordo ma, come ci dice Gil, «oggi vediamo il mare più mosso, non è più come nei giorni precedenti e stare in mare non è certo il posto adatto per chi ha sofferto patimenti, detenzione, estorsioni e violenze». Malta ha rifiutato il porto mentre dall’Italia non è giunta ancora nessuna risposta. «Siamo sempre in attesa. Abbiamo qualche giorno di autonomia per quanto riguarda il cibo ma la situazione preoccupante sono le persone che non capiscono quando sbarcheremo e ogni giorno inevitabilmente cresce l’ansia e ogni giorno ci è più difficile riuscire a spiegare».

Sulla stessa nave è impegnata anche Cecilia Strada, figlia di Gino Strada il fondatore di Emergency che è mancato nei giorni scorsi e che per anni si è impegnata con l’associazione in Afghanistan. «In questo momento trovarmi qui è uno strazio – dice Cecilia Strada – perché non riesco a seguire granché dovendoci occupare della navigazione e delle persone a bordo. Penso però ai molti amici, i colleghi, alle molte persone che ho incrociato negli ultimi anni. Prima mi è capitato di prendere per 5 minuti il telefono in mano mentre ero in pausa, e ho scoperto che è ancora pieno di foto della mia ultima volta in Afghanistan. Guardando quei volti mi viene naturale chiedermi se quelle persone oggi siano ancora vive».

Così mentre scoppia l’emergenza in Afghanistan Cecilia Strada si ritrova nel mezzo di un’emergenza in mezzo al mare: «ma non dobbiamo parlare di “emergenza profughi”: l’emergenza sono i profughi, la tragedia di queste persone, la loro emergenza di persone in mezzo al mare o nei centri di detenzione in Libia o qualsiasi altro luogo di violenza. Quello che sta accadendo è il naturale risultato di ciò che accade, è la Storia che chiede il conto: vivere in un sistema sbagliato e violento sicuramente non farà piovere pasticcini. Se si vive in una sistema che chiude i canali d’accesso legali la gente muore nel deserto, in mare o nei centri di detenzione e così come accade in Afghanistan se si usa la guerra per fare finire la guerra è naturale che si continui con la guerra». Cecilia Strada dice che «in Afghanistan è andato storto tutto e l’incubo peggiore oggi è diventato realtà».

Nel giorno in cui è mancato il padre Cecilia ha detto di essere dove “doveva essere”, “a salvare vite umane”: «Noi tendiamo a piangere sempre quando è troppo tardi – ci dice – a commuoverci quando ormai la gente è fottuta. Ci impressiona il cadavere del bambino sulla spiaggia, ci provoca angoscia e disagio. Ci impressionano le persone aggrappate alla carlinga dell’aereo a Kabul ma sono le stesse persone del giorno prima: dobbiamo muoverci prima e non commuoverci dopo».

Sul lutto piuttosto ipocrita dopo la morte del padre dice di non avere «fatto in tempo a vedere niente ma sono sicura che non avrei avuto nemmeno troppa voglia. Ho saputo di gente che l’ha pianto dopo non avere mai perso l’occasione per attaccarlo. Del resto Gino morto piace a tutti perché un morto non parla. Se stava zitto e curava la gente piaceva ma quando apriva la bocca e raccontava il perché della guerra e delle armi allora non piaceva più. Gino Strada doveva stare zitto in sala operatoria, solo così».

Ora Resq aspetta con urgenza un porto. «Quel porto che se avessimo a bordo dei francesi soccorsi dopo un incidente su una barca a vela arriverebbe immediatamente e che invece a questi che non sono bianchi diventa difficile dare. Eppure chi ha un problema in mare ha diritto a scendere prima possibile a terra. Questa notte andiamo a riparare tra Capo Passero e Siracusa per proteggerci dal vento e dalle onde e intanto aspettiamo fiduciosi una risposta».

E quando le si chiede se davvero è fiduciosa, Strada risponde: «Io ho fiducia nel genere umano, una fiducia smisurata. Solo che se fosse una quindicenne bianca che racconta quello che abbiamo ascoltato oggi da una quindicenne che abbiamo a bordo, allora aprirebbero i porti, gli aeroporti e perfino le astronavi. Noi aspettiamo»

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Perché odiano il reddito di cittadinanza

Nemmeno lo spiffero del presidente Draghi che ha difeso con forza il principio del reddito di cittadinanza (ma i migliori, si sa, sono migliori solo quando dicono concetti che tornano utili) ha fermato la battaglia a testa bassa di Matteo Renzi e compagnia cantante contro la misura.

C’è innanzitutto una riflessione da fare: il reddito di cittadinanza ci permette, giorno dopo giorno, di riconoscere con maggiore facilità da che parte stiano i diversi esponenti politici, se sono appiattiti sul reddito di cittadinanza alle imprese (li chiamano sussidi perché fa più figo) o ai poveri. Meglio così. Chissà che qualcuno prima o poi si svegli e la smetta di ritenersi di centrosinistra.

Italia viva in testa, con la Lega poco dietro (sempre per quella vecchia storia degli amorosi sensi tra i due Mattei) insistono nella visione moraleggiante di una gioventù italiana che preferisce “stare sdraiata sul divano” a prendere sussidi invece di “soffrire, rischiare, provare”.

Ma c’è un punto sostanziale che va ribadito con forza: a Renzi e compagnia cantante (Confindustria in testa) disturba che il reddito di cittadinanza (che per il 30% finisce a chi ha meno di 20 anni) permetta ai giovani di dire no a contratti di miseria che sono ben al di sotto di qualsiasi soglia di sopravvivenza. Una certa imprenditoria italiana impazzisce all’idea di non poter pescare schiavi e non è un caso che tra le proposte di modifica ci sia quella di avere l’obbligo di accettare lavori anche al di sotto dell’assegno del reddito di cittadinanza con un’eventuale integrazione a carico dello Stato. Per farla breve si tratterebbe di uno schiavismo di cittadinanza non solo tollerato ma addirittura in concorso con lo Stato. Un capolavoro, insomma.

L’assegno medio percepito dai beneficiari del Rdc è di 586 euro: credere che quella cifra possa essere minimamente gratificante dal punto di vista professionale, umano e di realizzazione significa non avere nessun contatto con la realtà. Nella sua replica a Italia viva pubblicata da La Stampa la sottosegretaria al Lavoro Maria Cecilia Guerra lo dice chiaramente: «Si può essere poveri anche senza essere pigri». Sempre Guerra nel suo intervento smonta anche una retorica truffaldina sul reinserimento nel mondo del lavoro dei percettori di reddito: «È molto difficile collocare persone che, nel 67% dei casi (Inps), non hanno avuto nessun rapporto col mercato del lavoro nei due anni precedenti l’introduzione del Rdc e che hanno un tasso di scolarità molto basso. Ma lo è ancora di più in un periodo in cui l’occupazione è calata, dal febbraio 2020 al febbraio 2019, di 846 mila unità. In questo contesto, per legge, dall’aprile del 2020 si è deciso di sospendere gli obblighi relativi all’accettazione di offerte di lavoro per i percettori di Rdc».

«I numeri dei nostri istituti pubblici – dice Guerra -, davvero inoppugnabili, ci dicono altro anche sul rapporto Rdc-lavoro: circa metà delle persone che ricevono il Rdc non sono attivabili al lavoro. Anche perché spesso già lavorano: nel 57% dei nuclei beneficiari sono presenti persone occupate»: in sostanza in Italia si è poveri anche lavorando. E questo sarebbe il punto vero di cui bisognerebbe avere il coraggio di parlare. Tutto questo in un Paese dove gioiellieri o titolari di stabilimenti balneari (solo per citare due delle categorie che regolarmente sono in fondo delle classifiche Mef sulle dichiarazioni dei redditi, ben al di sotto dei pensionati) beneficiano di agevolazioni che non spettano invece ad un operaio neo assunto.

Il reddito di cittadinanza può essere migliorato? Eccome. Ma prima di qualsiasi discorso conviene comprendere bene chi è strumentalmente critico perché disinteressato alla povertà. È una questione di onestà intellettuale e onestà politica. Ed è una questione anche di ecologia del dibattito.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il paradosso della Figc: gli azzurri si inginocchieranno perché lo faranno anche gli avversari

No, quello di Chiellini non è stato un “lapsus”: in questi Europei la Figc ce la sta mettendo tutta per apparire stupida, vigliacca, ignorante e confusa. Se c’era un modo immaginabile per sbagliare tutte le scelte, comunicarle male e riuscire a scontentare tutti la Nazionale di calcio ci sta riuscendo perfettamente.

Comincia tutto il 19 giugno quando prima della partita con il Galles in cinque decidono di inginocchiarsi per esprimere solidarietà al movimento Black Lives Matters e più in generale all’antirazzismo mentre gli altri se ne stanno beatamente in piedi. Il presidente della Figc Gravina scrive un comunicato stampa in cui ci fa sapere che la Figc non c’entra e che aderire alla campagna antirazzista sia stata una scelta personale di quei cinque. Non sia mai che l’Italia possa essere associata ai diritti, avranno pensato dalle parti della federazione.

Poi ci fanno sapere che non si inginocchieranno perché “la politica deve restare fuori dal calcio” come se esistesse una politica divisa tra razzisti e antirazzisti. Una roba indecente e folle. Sabato è il turno di Chiellini che ci dice che no, che loro il “nazismo” lo combattono in un’altra maniera. Quale sia la maniera non si capisce bene ma i razzisti possono esultare per i loro patrioti che stanno in piedi, pur strisciando.

Ora siamo al punto più basso: la Figc ci fa sapere che nella prossima partita con il Belgio cambia tutto (contrordine compagni!) e ci si inginocchia. Qualcuno potrebbe perfino sperare che ci sia stata una riflessione sulla responsabilità pubblica e sul valore di certi simboli e invece questi ci fanno sapere che si inginocchieranno per solidarietà al Belgio. Anzi, ancora più puerili: si inginocchieranno perché si inginocchiano anche gli avversari, probabilmente hanno paura che vengano male le foto da bordo campo. E ancora: dicono che non si tratta di un’adesione alla campagna Black Lives Matter contro il razzismo.

In sostanza il messaggio della Nazionale è “mi inginocchio ma rivendico il diritto di fregarmene”. Fuori dal campo la strategia è quella dell’ignavia, del dilettantismo comunicativo e dell’inettitudine. Prendono una “non posizione”, si inginocchianicchiano, fanno finta. Vorrebbero essere eroici e invece ballano la danza macabra dei pavidi.

No, il problema non era Chiellini. Il tema è una Figc che si dimostra perfetta rappresentazione della classe dirigente italiana: inadeguata, fuori dal tempo e concentrata a non scontentare nessuno. E infatti finisce per collezionare pessime figure con tutti.

Leggi anche: L’occasione mancata dagli Azzurri che scelgono di non inginocchiarsi contro il razzismo

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Adil Belakhdim ucciso perché sindacalista: non è stato un incidente, c’è lo squadrismo

Com’era prevedibile è già cominciata la rincorsa a ridurre tutto a un incidente. La narrazione di un Paese pronto a correre sulla coda dell’epidemia e ad affrontare un nuovo “miracolo economico” è un’occasione di smacchiamento troppo golosa per farti rovinare la festa dalla morte di Adil Belakhdim, italiano di 37 anni che a Biandrate, nel novarese, è stato ucciso da un camion che ha forzato il blocco del sindacato Si Cobas che stava manifestando all’ingresso del deposito territoriale della Lidl in via Guido il Grande.

Belakhdim è stato trascinato per un decina di metri e lasciato a terra esanime all’altezza di un attraversamento pedonale mentre altri due dipendenti dell’azienda sono rimasti feriti e curati all’ospedale di Novara. Ex lavoratore alla Tnt di Peschiera Borromeo in questi giorni Adil Belakhdim insieme ai compagni del sindacato stava provando a dare copertura allo scoperto nazionale della logistica. Aveva 2 figli che in questi giorni sono in Marocco e che avrebbe dovuto raggiungere tra poco. Oramai non più. I testimoni sul posto hanno raccontato di un diverbio che ci sarebbe stato tra i manifestanti e il camionista nel momento in cui avrebbe manifestato l’intenzione di forzare il blocco, sono volate accuse, quello ha ingranato la marcia e li ha stesi come birilli. Di certo c’è che il mezzo si è allontanato senza prestare nessun soccorso e solo grazie alle immagini della videosorveglianza le forze dell’ordine l’hanno potuto rintracciare in autostrada: ora si trova in arresto con l’accusa di omicidio stradale e resistenza.

Ma il sangue di Biandrate non è un episodio, solo un miope potrebbe pensarlo, dietro il corpo di Adil Belakhdim si sentono nemmeno troppo lontani i rumori dei bastoni sulle ossa a Tavazzano, in provincia di Lodi, anche questa volta di fronte ai magazzini di una logistica, la Zampieri, dove il presidio organizzato per protestare contro i licenziamenti da parte di una ditta che lavora per Fedex sono stati attaccati da un gruppo di operai e di bodyguard dell’azienda a colpi di bastoni, pezzi di bancali e di sassi. Per circa 10 minuti, come mostrano anche le immagini rese pubbliche da Si Cobas, i picchiatori hanno potuto agire indisturbati mentre le forze dell’ordine rimanevano inermi a godersi lo spettacolo. Quella volta non ci era scappato il morto ma Abdelhamid Elazab, lavoratore Si Cobas della FedEx di Piacenza, era rimasto ferito alla testa colpito da un pezzo di bancale, in una pozza di sangue, arrivano all’ospedale San Matteo di Pavia privo di conoscenza. Oltre a lui altre otto persone erano rimaste ferite dagli scontri. L’aspetto inquietante, come denunciato da alcuni testimoni, è che alcune guardie private si sarebbero travestite da lavoratori per confondersi tra la folla.

Pochi giorni fa un episodio simile era avvenuto a San Giuliano Milanese. Anche a Lodi la Procura ha aperto un’inchiesta mentre il Prefetto ha convocato un tavolo per chiarire la questione ma la direzione della Zampieri non si è presentata, delegando la ditta che in subappalto gestisce il sito lodigiano e scontentando non poco tutte le autorità presenti. Ancora: qualche giorno fa a Prato alcuni operai della Textprint che sono in agitazione da mesi (come molti altri dipendenti di aziende del settore) si sono presi dei pugni in faccia e dei mattoni in testa dai vertici dell’azienda. Nel video si vede addirittura l’amministratore della Textprint colpire uno degli operai in presidio con un mattone mentre i suoi scherani pestavano gli altri. Tre feriti.

No, la morte di ieri di Adil Belakhdim non può essere derubricata a un “incidente”, non si può fare finta di non sentire le assonanze cupe con i periodi nella storia in cui gli sfruttati venivano messi all’indice e aizzati l’uno contro l’altro, non si può fingere di non vedere la tensione e la violenza delle parole che sta sfociando nella violenza degli atti. Se ne deve essere accorto perfino il presidente del Consiglio Mario Draghi se ieri si è sentito in dovere di intervenire a margine della consegna del “Premio alla costruzione europea” a Barcellona dicendosi «molto addolorato per la morte di Adil Belakhdim» e augurandosi «che si faccia subito luce sull’accaduto». Il ministro del Lavoro Andrea Orlando dal canto suo definisce «gravissimo quello che è accaduto» e ricorda che «nel settore della logistica stiamo assistendo ad una escalation intollerabile di episodi di conflittualità sociale che richiedono risposte urgenti».

Il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni commenta: «In una settimana il pestaggio a Tavazzano, l’aggressione squadrista alla Texprint di Prato e ora una vittima in Piemonte. Ma è normale che nel 2021 si finisca in ospedale o all’obitorio per difendere i propri diritti sul posto di lavoro?». Per Mauro Rotelli, deputato di Fdi e componente della commissione Trasporti della Camera, «la morte del sindacalista dei Cobas travolto da un tir, questa mattina, durante una manifestazione a Biandrate (Novara) è solo la punta dell’iceberg di quanto accaduto nelle ultime settimane. Una escalation di episodi di tensione che vedono coinvolti lavoratori impegnati in proteste per vedere loro riconosciuto il diritto al lavoro. Ci chiediamo se, come annunciato dal ministro del Lavoro dopo i recenti fatti di Lodi, sia in via di definizione una task force volta a risolvere i fenomeni di conflittualità che stanno interessando il settore della logistica».

Ma lo scontro sociale e lo sdoganamento della violenza non si fermeranno con le dichiarazione e nemmeno con le promesse di un futuro migliore per tutti. Interi settori nel mondo del lavoro italiano sono schiacciati da crisi profonde che hanno sdoganato lo squadrismo per tenere a bada il dissenso da parte delle aziende e con l’appoggio dei crumiri. Basta scriverlo per rendersi conto che il pericolo di cadere in epoche infauste è dietro l’angolo. Non è solo una questione di “lavoro”: è il tessuto sociale che si ritrova ad essere messo a dura prova. E in questo caso le classi dirigenti, tutte, sono chiamate a uno sforzo che richiede lucidità, etica e tempismo. Si sta giocando con il fuoco e il fuoco forse è già qui.

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Perché non si ascoltano gli sconsigli?

Perché, se il vaccino era stato consigliato dagli scienziati agli over 60, sono stati autorizzati gli open day AstraZeneca per gli under 30?  Questa è una risposta che spetta alla politica

Intervistato da Radio 24 il generale Figliuolo ieri a proposito di AstraZeneca si è lanciato in una arzigogolata risposta: «Polemiche sugli Open Day per vaccinare i giovani? Oggi noi sappiamo che questo tipo di vaccini sono consigliati agli over 60, dopodiché possono esse usati per tutte le classi di età. È bene fare un’anamnesi molto approfondita, ma ovviamente le riflessioni le devono fare gli scienziati. E io sono sempre pronto a recepire qualsiasi riflessione che venga fatta in ambito ufficiale, quindi le raccomandazioni che poi daranno sono da applicare». Una risposta che sembra avere un senso ma che non ne ha.

Le raccomandazioni sono già state date: l’Aifa (l’agenzia italiana del farmaco) ha detto e ripetuto che quel vaccino è raccomandato per gli ultrasessantenni. La “scienza” di cui parla Figliuolo ha già chiarito da tempo che le trombosi cerebrali sono eventi rarissimi ma sotto quella soglia di età conveniva iniettare Pfizer o Moderna. E forse non è un caso che in Gran Bretagna (là dove AstraZeneca è stato inventato) si è deciso di non darlo sotto i 40 anni e in Germania non viene somministrato sotto i 55 anni.

La morte della 18enne a Sestri Levante, dopo una trombosi al seno cavernoso e operata per la rimozione del trombo e ridurre la pressione intracranica, vaccinatasi durante gli open day in Liguria dello scorso 25 maggio è un duro colpo per la fiducia nella campagna vaccinale ed è inevitabilmente un enorme assist per no vax e complottisti. In questo scenario non aiuta anche il fatto che le Regioni continuino ad andare in ordine sparso, c’è chi annulla tutto e chi continua imperterrito, mentre i ragazzi si interrogano sulla seconda dose. In tutto questo AstraZeneca continua a tacere, riuscendo perfino a far perdere la pazienza a Burioni a cui tocca riconoscere che «talvolta le priorità di una immensa multinazionale non coincidono con quelle della sanità pubblica».

Si torna però sempre allo stesso punto: è responsabilità della politica declinare in scelte i dati della scienza. Troppo comodo ora ributtare la palla nell’altro campo come se improvvisamente il “governo dei migliori” sia un mero esecutore delle scelte degli altri. Altrimenti a che serve un governo? E non stupisce per niente che i soliti noti, pur facendo parte della maggioranza, ora abbiano cominciato a bombardare con fuoco amico fingendo di essere l’opposizione, con il solito trucco di usare il ministro Speranza come Malaussene della situazione.

Perché, se il vaccino era stato consigliato agli over 60, sono stati autorizzati gli open day AstraZeneca per gli under 30?  Questa è una risposta che spetta alla politica.

Buon venerdì?

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L’assurdità della sindaca indagata perché un bambino si è rotto un dito a scuola…

Mi raccomando, continuiamo a fingere di non sapere perché qui in Italia quasi nessuno voglia fare il sindaco, quasi nessuno che abbia un ruolo professionale di un certo spessore, nessuno di quelli che hanno capito benissimo l’antifona: perché andare ad infognarsi in un ruolo in cui hai un avviso di garanzia dietro l’angolo (con conseguenze economiche oltre che penali importanti)?

Così accade che a Crema la sindaca Stefania Bonaldi si ritrovi con un avviso di garanzia perché un bambino si è schiacciato due dita in una porta tagliafuoco (con effetti non irreversibili) in una scuola materna. Dice la legge che sia lei che avrebbe dovuto controllare che quella porta non si chiudesse. La vicenda fa il paio con il recente caso del sindaco di Lodi Simone Uggetti con una vita rovinata per un appalto da 5mila euro e un’assoluzione arrivata anni dopo ma fa anche il paio con le storie di molti altri sindaci che si sono ritrovati a dover fronteggiare più questioni giudiziarie che politiche.

A Torino la sindaca Chiara Appendino è stata condannata a un anno e mezza per la tragedia di piazza San Carlo quando il 3 giugno 2017 si scatenò il panico per dei delinquenti che spruzzarono spray urticante e provocarono due morti e 1500 feriti: la colpa della sindaca è stata di non averlo impedito. Lo stesso è accaduto con il sindaco di Mantova, con Pizzarotti a Parma (6 indagini in 9 anni finite in niente), con l’ex sindaco grillino di Livorno, i casi sono centinaia e si ripetono ogni giorno. Il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, presidente delle Autonime locali italiane, non le manda a dire: «È assurdo, basta con queste pazzie contro i sindaci. Come si può indagare un Sindaco per una cosa del genere? Siamo al ridicolo. Davvero poi ci sorprendiamo che scarseggiano i candidati a sindaco? È quanto mai urgente che il legislatore intervenga sulle eccessive responsabilità oggettive che hanno i sindaci, perché non possono ridursi a capro espiatorio di tutti i mali del Paese».

«Ogni volta che un sindaco firma un atto rischia di commettere un abuso d’ufficio. Se non firma, rischia l’omissione di atti d’ufficio», aveva sintetizzato bene il presidente dell’Anci Antonio Decaro in una recente intervista. Il tema della responsabilità dei sindaci è un nodo politico grande come una casa e sarebbe davvero uno dei punti da affrontare per un rilancio reale del Paese. E forse questo sarebbe davvero il momento buono visto che praticamente tutti i partiti sono d’accordo.

L’articolo L’assurdità della sindaca indagata perché un bambino si è rotto un dito a scuola… proviene da Il Riformista.

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Brusca torna libero perché lo dice la legge sui pentiti. E cambiarla sarebbe un regalo alla mafia

Sapete cosa sognava la mafia? Una revisione della legge sui pentiti. Era un chiodo fisso di Totò Riina, era una delle richieste che Cosa Nostra aveva intenzione di fare allo Stato, è il cruccio di molti boss che hanno dovuto fare i conti con le rivelazioni di collaboratori di giustizia in grado di aprire squarci fondamentali per le indagini e per le condanne.

Non serve nemmeno studiare troppo per sapere che la delegittimazione dei testimoni di giustizia sia il miglior favore che si passa rendere alla criminalità organizzata e basterebbe studiare la storia recente del nostro Paese per scorgere tra i politici poi condannati per reati di mafia un enorme dispendio di energie per mettere mano alla legge sui pentiti.

Che la scarcerazione di Brusca sarebbe stata il gancio perfetto per una sponda più o meno consapevole alle mafie si capiva fin dall’inizio: l’enorme squilibrio di attenzione sui reati commessi da un pentito mentre ci si ostina a giustificare criminali conclamati in tutti i gradi di giudizio ha lo stesso profumo di quell’Italia che puntava il dito sui picciotti mafiosi fingendo di non vedere i colletti bianchi.

È la solita prevedibile dinamica semplicemente un po’ più evoluta nei modi e nei toni: racconta al mondo che l’eliminazione di Falcone sia opera di Giovanni Brusca e intanto stendi un velo sui mandanti. Così è perfettamente funzionale un Salvini che si dice preoccupato che Brusca possa passeggiare libero per strada mentre nessuno gli chiede cosa ne pensi di un Paese in cui i mandanti possano essere addirittura classe dirigente del Paese.

Pochi intanto si prendono la briga di chiedere agli odiatori dei pentiti come possano contemporaneamente dichiararsi cultori di Falcone e Borsellino: furono proprio i due giudici a intuire per primi l’enorme ruolo dei pentiti. Venerare Falcone e volere i pentiti senza sconti in galera è una contraddizione cretina, strumentale, populista e ignorante. Decidetevi, mettetevi d’accordo. 

Anche perché il paradosso è dietro l’angolo: equiparare un pentito a un mafioso omertoso significa inevitabilmente indurre i criminali a non collaborare. Tutte le posizioni sono legittime ma almeno non bestemmiate la memoria di Falcone. Mentre i giornali si riempiono di notizie su una possibile riforma della legge sui pentiti i mafiosi brindano. Intanto sullo sfondo c’è la riforma sul carcere duro, il ponte di Messina, la liberalizzazione dei subappalti è una montagna di soldi che arrivano dall’Europa. Nemmeno Riina avrebbe potuto sognare un’epoca così.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Perché il processo a Mimmo Lucano è “politico”

L’inchiesta non é riuscita a dimostrare che Lucano si sia appropriato di un singolo centesimo con l’accoglienza dei migranti. Dunque la Procura di Locri ha estratto dal cilindro l’inconsistente ipotesi del movente politico-elettorale

Alla fine arriverà la sentenza e da lì potremo provare a trarre alcune conclusioni ma il processo “Xenia” a Mimmo Lucano sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti a Riace presenta alcune singolarità che vale la pena raccontare, almeno per diradare la nebbia che certi giornali stanno spostando in giro, trasformando come al solito le richieste di condanna dei pm in una sentenza, basandosi su un’ignoranza giudiziaria che torna comoda a chi fomenta la politica con il tintinnare di manette.

Primo aspetto curioso, fuori dal tribunale di Locri: i sempiterni garantisti su Lucano appaiono piuttosto timidi, svelandosi ancora una volta garantisti a fase alterne, garantisti con gli amici e indifferenti (se non addirittura giustizialisti) con i nemici, tanto per rimarcare ancora una volta quanti danni al garantismo abbia fatto la collusione travestita da garantismo.

Il procuratore Luigi D’Alessio (che ha aperto con il pm Michele Permunian la requisitoria con cui la Procura di Locri ha richiesto 7 anni e 11 mesi di carcere per l’ex sindaco di Riace e 4 anni e 4 mesi alla sua compagna Lemlem Tesfahun) ci ha tenuto a spiegarci che questo non è un processo politico: «Nel corso di questi anni – ha detto intervenendo in aula – si sono succeduti ben quattro governi. Personalmente ho anche incontrato i massimi rappresentanti di questi governi, da Renzi a Salvini, ma mai è venuta alcuna pressione sulle indagini». Fingiamo di non essere interessati ai contenuti degli incontri del pm con Renzi e Salvini e vediamo invece quale sarebbe secondo la procura il movente di questi terribili reati. I soldi? No, evidentemente no. Inchiesta e processo non sono riusciti nemmeno lontanamente a dimostrare che Lucano si sia appropriato di un singolo centesimo.

E allora? In netta difficoltà la Procura ha estratto dal cilindro l’ipotesi del movente politico-elettorale. Già nell’ottobre 2019 il colonnello Sportelli, in mancanza di soldi, aveva fatto intendere che l’idea di Lucano fosse quella di candidarsi alle elezioni politiche del 2018 (come se candidarsi da liberi cittadini poi fosse un reato) e quindi non perdere voti. Sentito in aula il colonnello elencò i terribili poteri forti dietro a Lucano: i voti dei Tornese (una famiglia di Riace), dell’associazione Riace Accoglie e della cooperativa sociale Girasole. In effetti se ci pensate tutti voti indispensabili per arrivare in Parlamento. Ma quale sarebbe la “prova”? Una telefonata di Lucano a suo fratello in cui tra le altre cose dice «quasi quasi mi candido». Capito che diabolico disegno? Ma c’è un altro punto sostanziale: Lucano ha rifiutato candidature alle elezioni europee e alle elezioni politiche e poiché non si possono processare le intenzioni il disegno della Procura è miseramente caduto. E quindi? Lo scorso aprile il pubblico ministero Michele Permunian ha un’illuminazione quando legge un’intervista in cui Lucano annuncia la sua candidatura nella lista di De Magistris per le prossime elezioni regionali in Calabria: «L’annunciata candidatura alle regionali di Mimmo Lucano nella lista di Luigi De Magistris confermerebbe le sue reali ambizioni politiche», dice l’accusa. In pratica la candidatura di oggi dovrebbe dimostrare la bontà delle intercettazioni di anno fa che non hanno retto alla prova dibattimentale. Una tesi che sembra un delirio: non si processano gli atti contestualizzati e circoscritti ma si processa la personalità dell’imputato e, di rimbalzo, la sua visione politica.

C’è un altro pezzo che molti giornali si sono dimenticati di raccontare: Lucano è sotto processo pure per abuso d’ufficio, truffa, falsità ideologica, turbativa d’asta, peculato e malversazione a danno dello Stato, tutti reati per i quali il gip Domenico Di Croce, nell’ottobre 2018, aveva rigettato la richiesta di arresto della Procura sottolineando «la vaghezza e la genericità del capo d’imputazione». Nell’aprile 2019 la Cassazione aveva ripreso la Procura anche sui “presunti matrimoni di comodo” tra immigrati e cittadini italiani che sarebbero stati “favoriti” dal sindaco. Nel fascicolo del processo, aprite bene le orecchie, non c’è un solo matrimonio celebrato a Riace. Ce n’è uno bloccato proprio da Lucano. L’accusa «poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare», scrive la Cassazione. Il Riesame di Reggio Calabria, da canto suo, scrisse di «quadro indiziario inconsistente» e «un’assenza di riscontri alle conclusioni formulate dall’ufficio di Procura, fondate su elementi congetturali o presuntivi».

Un altro punto: il giudice Fulvio Accurso durante il processo ha chiesto più volte agli investigatori se ci fosse indizi del fatto che l’accoglienza a Riace fosse portata avanti «per lo specifico fine di avvantaggiare sé stesso», cioè di Lucano. La risposta degli investigatori è netta: «Se parliamo da un punto di vista economico, no»·

Ecco, vedete che raccontato così ha tutto un altro aspetto questo processo? Attendiamo la sentenza.

Buon mercoledì.

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