Vai al contenuto

persone

Un regalo: la comunanza

La comunanza è una chiave di lettura collettiva di persone che si riconoscono uguali in qualcosa. Sotto l’albero quest’anno vi auguro di trovarne un po’

La chiameremo comunanza anche se è una parola che si è impolverata parecchio in questi anni di verbi ipermuscolari, di termini affilati per tagliare i pochi caratteri dei social e di aggettivi sempre magniloquenti e turbo per dopare il dibattito. Comunanza invece è una parola mite come la presa di coscienza collettiva, che non è mica arrendevole anche se quest’anno ha avuto la tentazione di arrendersi spesso. La comunanza è una chiave di lettura collettiva di persone che si riconoscono uguali in qualcosa: pensiamo che sia il virus, no, non è così semplice, non è così immediato, non è così superficiale.

Sotto l’albero quest’anno vi auguro di trovare un po’ di comunanza, anche una fetta sottile, da dividere come si dividono il pane quelle comunità che vivono degne perché rifiutano e allontanano gli ingollatori, li giudicano indegnamente avari per potere essere membri della comunità.

Abbiamo la comunanza di paure. Ed è un collante straordinario la paura. Pensa se sotto l’albero trovassimo la forza e la lucidità di riconoscersi spaventati per elaborare, ognuno con l’esperienza del proprio spavento, una strategia comune per riconoscere le paure, riconoscerne la dignità e per prendersene cura. Pensa se sotto l’albero trovassimo un vocabolario contrario a quello di chi usa e ha usato le paure per esacerbare gli animi e invece trasformassimo le paure in un’occasione di nobiltà e di gentilezza. La comunanza di paure genera mostri oppure costruisce comunità.

Abbiamo la comunanza di affetti da manutenere difficoltosamente. E quest’anno potremmo avere in regalo l’occasione di capire che gli affetti per sbocciare dignitosamente e per essere innaffiati hanno bisogno di capacità di spostamenti, di avere gli strumenti per poter dire che “andrà tutto bene” perché la frase da sola è uno slogan che non salva nessuno. Gli affetti hanno bisogno di un futuro possibile. Ce ne siamo accorti: il diritto all’affetto non è il diritto all’abbraccio (rifiutarlo può essere una premura) ma è il diritto ad esercitarlo con dignità. Questo Natale non mancheranno i cenoni, mancherà per molti la possibilità di dirsi che sì, ce la faranno.

Abbiamo la comunanza di sperare nel lavoro. E nel lavoro non ci si dovrebbe sperare in un Paese normale. I diritti quando mancano mancano come manca l’aria e ora il reddito spaventa anche chi aveva il lusso di non interessarsene. È una comunanza dolorosa ma su cui si potrebbe costruire uno scenario diverso se non fossimo qui ad accapigliarci per i chilometri da percorrere.

Abbiamo la comunanza della dignità della malattia. Erano così meno i malati che i loro diritti sembravano una fissazione per pochi e invece ora sono diventati terribilmente popolari, tragicamente popolari. Pensa che regalo se ora diventassero un chiodo fisso per molti.

Ecco questo Natale vorrei che la comunanza trovata sotto l’albero non si disperdesse e diventasse lei, lei sì, virale davvero. Pensa come cambierebbe tutto.

Buon venerdì.

L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il Natale di Salvini

Nella bieca rincorsa a ritagliarsi un posto al sole per ottenere un po’ di visibilità e per andare “contro” al governo Matteo Salvini si è inventato un’altra delle sue invitando tutti a disubbidire alla zona rossa natalizia: “tutti fuori a fare volontariato”, dice Salvini, nel tentativo di incastrare con i buoni sentimenti la sua fregola di essere irresponsabile.

Peccato che la frase, nonostante possa fare breccia tra i suoi fan, non significhi assolutamente nulla, che sia assolutamente priva di senso e sia in netto contrasto con il suo modo di agire, di pensare e di parlare. “Fare volontariato” è una cosa terribilmente seria che non ha nulla a che vedere con il farsi foto insieme a qualche senza tetto. Fare volontariato significa impiegare il proprio tempo e il proprio ruolo in attività organizzate che garantiscano la dignità, se non il benessere, delle persone in difficoltà. Fare volontariato ad esempio significa anche riconoscere la povertà, vederla, conoscerla, abitarla: l’esatto opposto di quello che fece il vicesindaco di Trieste Paolo Polidori quando dichiarò di avere buttato via le coperte dei senzatetto “con soddisfazione” (disse proprio così), l’esatto opposto di quello che fece l’assessora leghista di Como che tolse la coperta a un senza tetto pubblicando tutta fiera il video su Facebook (lì a Como dove nel 2017 venne vietato proprio dalla Lega di dare un latte caldo proprio ai clochard).

Se invece vogliamo rimanere su Salvini allora sarebbe da capire come intenda il volontariato se proprio i suoi senatori hanno acceso una gazzarra in Parlamento mentre si archiviavano quegli orrendi decreti sicurezza dell’ex ministro.

Se Salvini vuole fare volontariato allora potrebbe benissimo ascoltare volontariamente i racconti dei pescatori da poco liberati in Libia che raccontano come quella detenzione fosse al di fuori di qualsiasi diritto umano. Proprio quella Libia che Salvini ritiene “un porto sicuro” in cui ammassare tutti i senza tetto del mondo che provano a trovarlo, un tetto.

Oppure potrebbe ammettere che anche la bontà in fondo per lui è solo un feticcio da sventolare alla bisogna. E potrebbe riconoscere che con questa sua uscita da finto filantropo fa sanguinare le orecchie per la contraddizione che contiene. Perché i buonisti sono naturalmente molto aperti ma non sopportano le minchiate.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La stalla e il verme

Dormivano in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Una storia disumana di sfruttamento scoperta in provincia di Viterbo dopo la morte di un bracciante

Ci sono stalle fuori dai presepi che si portano addosso delle storie che sanguinano. Nel piccolo comune di Ischia di Castro, in provincia di Viterbo, dentro la stalla ci stavano uomini, braccianti. Solo che non erano uomini, no, erano cani, vermi, servi, li chiamavano così i loro “datori di lavoro” che li pagavano 1 euro all’ora per giornate che potevano durare fino a 17 ore nei campi.

Dormivano nelle stalle, in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Non esistevano nemmeno i giorni: festivi, straordinari, turni notturni erano compresi nel prezzo, porzioni di lavoro da regalare al proprio padrone. Gli investigatori scrivono che «lo sfruttamento della manodopera è stato reso possibile dalla determinazione con cui la famiglia imprenditrice ha sfruttato le condizioni delle vittime, spesso quasi ai limiti dell’indigenza, fino ad assoggettarli completamente, poiché cittadini stranieri per lo più soli, con le famiglie da mantenere nei loro luoghi di origine, bisognosi della paga che veniva loro elargita come unica forma di sostentamento ed isolati dal resto della comunità, poiché di fatto impossibilitati per mancanza di tempo e di mezzi con cui muoversi ad uscire dall’azienda in cui vivevano e lavoravano».

Qui non c’è nessun bambinello. C’era un 44enne albanese, che si chiamava Petrit Ndreca e che avrebbe dovuto essere morto in auto con alcuni suoi famigliari. Questa è stata la versione dei fatti riportata ai carabinieri dopo la chiamata, solo che le forze dell’ordine si sono insospettite per la presenza sul posto anche dei due imprenditori agricoli e hanno avviato le indagini. Così alla fine la verità è venuta fuori: Petrit è morto in modo indegno all’interno dell’azienda dopo avere accusato un malore e i suoi datori di lavoro con le minacce sono riusciti a convincere i suoi famigliari a trasportarlo lontano da lì avvolto in una coperta. «Il corpo di Petrit è stato trattato come quello di una pecora», ha raccontato il cognato quando è crollato di fronte ai carabinieri. E così si è scoperto che nelle stesse condizioni di Petrit lavoravano altre 17 persone.

Quella stalla è il presepe della schiavitù che si consuma e della vita umana cha non vale niente. Se poi lo schiavo è straniero e senza documenti allora il gioco viene fin troppo facile. Auguri, a tutti.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Qualcuno morirà, pazienza

La frase choc del presidente di Confindustria Macerata, secondo cui l’economia viene prima della vita delle persone, indica senza i soliti giri di parole ciò che pensa una buona fetta dell’imprenditoria italiana

Intervenendo all’evento “Made for Italy per la moda” l’imprenditore e presidente di Confindustria Macerata Domenico Guzzini ha detto, in uno stentato italiano: «Ci aspetta un Natale molto magro, stanno pensando di restringere ulteriormente. Questo significa andare a bloccare un retail che si stava rialzando per la seconda volta dalla crisi e lo stanno mettendo nuovamente in ginocchio. Io penso che le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza. Così diventa una situazione impossibile, impossibile per tutti».

Insomma, se muore qualcuno, pazienza, dice Guzzini, riuscendo nella mirabile impresa di dire piatto piatto, senza i soliti giri di parole e senza troppe edulcorazioni quello che pensa una buona fetta dell’imprenditoria italiana. Tra salute e profitto il profitto vince, il profitto interessa, il profitto conta.

Inquietante anche il tentativo di difesa di Claudio Schiavoni, presidente di Confindustria Marche che dice testualmente: «Non scuso le affermazioni di Guzzini, ma dico che oggi anche gli imprenditori sono sotto stress perché, comunque, stiamo portando avanti la carretta, stiamo facendo di tutto e di più per tenere in piedi le nostre aziende e quindi, ripeto, non giustificando queste parole, dico che in momenti di tensione si possono anche dire cose che uno non pensa, magari anche preso dalla foga o inserito in un altro discorso». In sostanza questi imprenditori, poveretti, si fanno prendere dalla foga e inciampano sui morti. C’è da capirli, eh.

Ma alla domanda “come siamo potuti arrivare fino a qui?” c’è una risposta semplice semplice: accettando anche solo di mettere sullo stesso piano salute e profitto, perdendo il senso dell’indecenza di fronte a chiunque usi questa bilancia. Come se avessimo perso il senso della misura. E così nel momento in cui abbiamo accettato la contrapposizione tra le due cose abbiamo sdoganato le vittime collaterali del fatturato, quelli che in questi mesi sono andati in fabbrica, sui mezzi pubblici, nei supermercati. Abbiamo accettato che ci fossero vittime collaterali. Non è mostruoso?

Accade da anni e noi non siamo ancora riusciti a mettere in discussione il nocciolo del discorso. Che è un nocciolo sbagliato. E ci convincono che debba per forza andare così.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Regole, non paternalismi

È un’oscillazione continua, un tira e molla tra due fazioni che evidentemente non hanno il senso di responsabilità di sedersi e parlare ma che si divertono moltissimo a giocare nell’una e nell’altra parte. Nella discussione di questo 2020 di pandemia si sviluppa un gioco sottile di paternalismi da parte di una classe dirigente che non ha il coraggio di mettere regole e che lascia spazio a tutte le ciance possibili immaginarie.

L’ultima in ordine di tempo è la sorpresa (ma davvero ci si può sorprendere?) di aprire negozi, ristoranti e bar a pochi giorni dal Natale e stupirsi che la gente frequenti negozi, ristoranti e bar. E quindi lamentarsene per essere già pronti a trovare i colpevoli in caso di terza ondata. Dopo i runners, dopo i passeggiatori con il cane, dopo le discoteche estive ora arriveranno i camminatori natalizi. E così via, in un continuo paternalismo che diventa insopportabile, solo per mettersi nella posizione poi di poter dire “l’avevamo detto” ma senza il coraggio di averlo fatto.

«I cittadini fanno quello che è consentito loro di fare. Se negozi, bar e ristoranti sono aperti, perché non dovrebbero uscire, andare a fare shopping (in più c’è il cashback), pranzare fuori o prendersi un caffè? Cosa ci si aspettava? Troppo facile prendersela con loro», ha scritto ieri il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, uno che con i morti, molti morti, ha dovuto averci a che fare quest’anno.

Il sogno recondito di questi è che le attività commerciali possano incassare senza gente in giro, riuscire a trovare un algoritmo per cui le persone escano solo giusto il tempo per riempirsi il carrello, ridisegnare la socialità completamente appiattita sul fatturato, solo quello.

Mentre in Germania si prendono decisioni impopolari qui da noi ora è un rincorrersi alla “responsabilità dei cittadini” come se il compito della politica fosse eccitarla piuttosto che regolamentarla e governarla. Ci sono molte persone senza mascherina? Benissimo, ci sono regole da fare rispettare e che si facciano rispettare. Ci sono assembramenti? Si controllino gli assembramenti. Si multino gli irregolari e gli irresponsabili.

Ma la politica deve decidere le regole e deve trovare i modi per farle rispettare, troppo facile limitarsi alle ramanzine.

Tutto questo, ovviamente, con l’aggiunta di un pezzo di popolo che del senso di responsabilità se ne fotte da sempre, mica solo con il Covid.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Ingiusti perfino nel vaccino

Nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito, denuncia People’s vaccine alliance

Ne dovevamo uscire migliori ne usciremo probabilmente vaccinati. Noi. Noi saremo vaccinati perché il caso ha voluto che nascessimo in quella parte di mondo che se lo può permettere, eppure proprio durante la pandemia (che è stata e che continua a essere globale) abbiamo scritto, ascoltato e discusso centinaia di volte sull’esigenza di garantire una copertura vaccinale che fosse solidale e non seguisse solo secondo le logiche di mercato. I dati, per ora, dicono tutt’altro.

I numeri ce li dà People’s vaccine alliance, l’organizzazione formata da Amnesty international, Frontline aids, Global justice now e Oxfam: secondo le loro stime nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito.

Il ruolo del razziatore, manco a dirlo, spetta ovviamente all’Occidente che è riuscito ad accaparrarsi in tempo tutte le dosi che servono. I Paesi ricchi con appena il 14% della popolazione mondiale si sono già assicurati il 53% dei vaccini più promettenti: il Canada addirittura è riuscito a ottenere dosi in tale quantità da poter vaccinare ogni cittadino cinque volte, mentre l’Unione europea 2,3 volte.

Ben 67 Paesi a reddito medio-basso e basso rischiano di essere lasciati indietro sebbene 5 – Kenya, Myanmar, Nigeria, Pakistan e Ucraina – abbiano registrato quasi 1,5 milioni di contagi. «A nessuno dovrebbe essere impedito di ottenere un vaccino salvavita a causa del Paese in cui vive o della quantità di denaro che possiede», dice Sara Albiani di Oxfam Italia: «Senza un’inversione di marcia, miliardi di persone in tutto il mondo non riceveranno un vaccino sicuro ed efficace contro il Covid-19 negli anni a venire».

E a proposito di vaccini ha ragione Heidi Chow, di Global Justice Now quando dice che «tutte le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca che stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino devono condividere i dati, il know-how tecnologico e i diritti di proprietà intellettuale in modo che sia prodotto un numero sufficiente di dosi sicure ed efficaci per tutti. I governi devono anche garantire che l’industria farmaceutica anteponga la vita delle persone al profitto».

Non è una questione da poco: sull’equità della distribuzione del vaccino si gioca la credibilità mondiale e lo spirito di solidarietà mondiale. Quello che qualcuno diceva che sarebbe arrivato e invece, non è una sorpresa, non c’è. Oppure quello che gli altri dicono che non sia importante, sempre per quella vecchia storia di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Notate: un argomento così enorme viene discusso pochissimo, proprio nel momento in cui tutti discutono delle loro piccole facezie. Tutto così gretto, tutto così basso, tutto così ingiusto.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

“No al Sala bis”: il M5S Lombardo chiude le porte alla ricandidatura del sindaco di Milano

Il sindaco di Milano Beppe Sala annuncia la sua candidatura per il secondo mandato alla guida del Comune di Milano ma dal Movimento 5 Stelle in Regione Lombardia arriva subito una netta e decisa presa di distanze. TPI.it ha intervistato Dario Violi, consigliere regionale del M5S e candidato presidente nel 2018.

Violi, Beppe Sala annuncia la sua candidatura…
“Ah. Quindi alla fine non ha trovato niente di meglio?” (Sorride)
In che senso?
“È un’evidenza dei fatti: Sala ha preso tempo solo perché gli andava stretta la sua candidatura a sindaco. Qui a Milano lo sanno tutti.”.
E voi come Movimento 5 Stelle cosa ne pensate della sua ricandidatura?
“A noi cambia davvero ben poco. I gruppi locali stanno lavorando da mesi a un programma con tanti punti importanti, per una città che sia più verde e molto diversa da quella che ha in testa Sala. I gruppi locali lavoreranno sicuramente in quella direzione”

Però al governo nazionale siete con il Partito Democratico, perché non dovrebbe ripetersi quello stesso paradigma anche su una città importante come Milano?
“Io sono autonomista nell’anima, soprattutto in queste cose. Va rispettato il territorio e le decisioni che prendono i gruppi del territorio. Con Sala abbiamo discusso politicamente e in modo acceso per l’opera di cementificazione che ha in mente in zona Porta Romana, sarebbe incoerente: lo contestiamo fino a un giorno prima e poi ci andiamo insieme? E poi anche se coì fosse la scelta deve essere dei territori e non deve essere una scelta di comodo e di Palazzo che arriva da Roma”.
Quindi voi avete un giudizio negativo sull’operato di Sala come sindaco?
“Questo andrebbe chiesto ai consiglieri comunali, io direi molto negativo. Le nostre sensibilità su ambiente, sviluppo sostenibile, mobilità sono molto distanti”.

Calenda e Richetti hanno fatto gli auguri a Sala chiedendo al PD di non allearsi con voi. Che ne pensa?
“Quelli dello zero virgola devono parlare male del Movimento 5 Stelle per esistere. Se dicessero “in bocca al lupo a Sala” e basta non se li filerebbe nessuno”.
Quindi nessuna possibilità nemmeno di trattativa con il Partito Democratico?
“Per me è un tema di territorio e non un tema di persone e di partiti. Per me e per tanti di noi. Noi non “trattiamo” con nessuno ma al massimo valutiamo la condivisione dei programmi. Sala l’abbiamo contrastato per 5 anni. La vedo dura. Anche se non sono mai stato uno che dice di no a prescindere”.
E se da Roma vi chiedessero di farlo per la tenuta del governo?
“Sarebbe ridicolo che un governo dipenda da un’alleanza in un comune, anche se importante come Milano. Quel governo non avrebbe senso di esistere”.
A proposito, e gli accordi per le elezioni su Roma?
“Noi andiamo avanti con Virginia Raggi. A quanto pare il PD non vuole. Quegli altri (Calenda e soci) vogliono che vadano con loro. Per noi Virginia Raggi ha lavorato bene in una città in cui si fa molta fatica e con molti interessi anche esterni. Noi abbiamo cercato di portare la città e i suoi conti sulla buona strada”.

Leggi anche: 1. Beppe Sala a TPI: “Se tornassi indietro, parlerei di meno. Non so se mi ricandido a sindaco di Milano” / 2. Esclusivo TPI – Beppe Sala risponde alla lettera del M5S: “Dialoghiamo per la Milano del futuro” / 3. Esclusivo TPI – Milano, la lettera del M5S a Sala: “Confrontiamoci sui programmi contro le destre”

L’articolo proviene da TPI.it qui

993

Ieri, 3 dicembre, sono morte 993 persone di Covid. La cifra più alta in un solo giorno in Italia. Ma i numeri sono diventati muti, non condizionanti, si sommano e si continuano a sommare come cifre nude e vuote

Ieri 993 famiglie hanno pianto la morte di un loro famigliare. Non l’hanno potuto salutare, non lo possono vedere nemmeno da morto perché quei 993 sono stati sigillati e ora vengono messi in coda per la cremazione. Ieri 993 famiglie hanno smesso di pensare alle feste, agli addobbi, ai menù, a tutto.

Per dare un’idea delle proporzioni, negli Usa il dato più alto di morti in un solo giorno, in tutti gli Usa, è di 2.880.

Questa seconda ondata che per alcuni non doveva arrivare è arrivata e si rivela più mortifera della prima. In Italia non ci sono mai stati così tanti decessi. Novecentonovantatré morti mentre ancora qualcuno gioca a dipingere come disfattisti quelli che parlano di Covid. Novecentonovantatré morti in un Paese che ci diceva che avevamo imparato la lezione, che ora sappiamo come curarli, che sono state migliorate le prestazioni, le cure e l’assistenza sanitaria.

Dal 10 ottobre sono morte 21.898 persone. Dall’inizio della pandemia sono morte 58.038 persone. È sparita una città come Agrigento.

Ma i numeri sono diventati muti, non condizionanti, si sommano e si continuano a sommare come cifre nude e vuote, una sopra all’altra. Anche di fronte a questa pandemia continuiamo a non riuscire a restare umani, a sentire le store che ci sono dietro, a leggere con un vocabolario che non sia burocratico, medico, politichese.

Sono 760mila gli attualmente positivi al virus; 760mila.

Se ci fosse un segreto perché i numeri non cancellino le storie bisognerebbe usarlo ora, subito. Restituire il dolore, su numeri così grossi, diventa un’impresa così titanica che sembra non volerla fare nessuno. Superare i lutti scavalcandoli senza farsene carico è la reazione meno consapevole e meno etica, anche se viene facile facile. Chissà se troveremo le parole per raccontare questo tempo. Chissà se conieremo parole nuove per descrivere la levità con cui siamo passati attraverso un giorno così.

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La pornografia dello svago

Ogni giorno in Italia cade un Boeing e muoiono tutti i passeggeri. I numeri sono gli stessi e ce n’è perfino qualcuno in più. Ogni giorno in Italia qualcuno non sa quando potrà concedersi il lusso di amare una persona fuori regione, l’amore non è considerato una giusta causa. Ogni giorno in Italia qualcuno guarda la serranda della propria attività che si è arrugginita a rimanere troppo abbassata (o è ancora abbassata) e si domanda che lavoro si ritroverà a fare domani, se ci sarà un lavoro, e se non ci sarà un lavoro come ci si inventerà un reddito. Ogni giorno qualche centinaio di famiglie piange un morto. Decine di migliaia di persone cadono nella preoccupazione di essersi ammalati e i loro famigliari e i loro frequentatori si arrabattano per cercare un tampone in giro.

Eppure mentre durante la prima ondata si assisteva a una riflessione ampia su ciò che accadeva (addirittura con furbe derive preoccupazionali) questa seconda ondata ha un sapore diverso, niente di buono, qualcosa che cammina sul filo della rimozione e della narrazione populistica. Si racconta delle attività chiuse (e delle loro evidenti difficoltà) prendendola al contrario: non vorrete mica un governo cattivo che vi vieti il cenone di mezzanotte? Dicono così. Non vorrete mica dover scegliere gli ospiti del cenone di Natale? Si reclama a gran voce il diritto dello svago e non lo si fa con il pensiero a chi quello svago lo produce e lo distribuisce (il che avrebbe almeno qualcosa di solidale) ma come affermazione del proprio bisogno fottendosene del resto. Ma attenzione, non è un atteggiamento solo di alcuni cittadini, no, è proprio una discussione che inonda anche i giornali e le televisioni: discussioni orrende e inutili sull’orario di nascita del bambinello e nessuna riflessione un po’ più approfondita sulla manutenzione degli affetti che di questi tempi sono così difficili da mantenere e da reinventare.

Tutto superficiale, tutto raccontato come se fosse solo un rispetto delle tradizioni, tutto declinato in una commedia nazionalpopolare in cui scompare la paura, la solitudine, la lontananza, la sofferenza e tutto diventa lustrini, lucine, panettoni e tute da sci. Ma siamo sicuri di trattare questo tempo cupo con la complessità che merita? Siamo sicuri di rispettare il nostro ruolo di narratori della realtà? Oppure viene più facile agitare simboli senza volere nemmeno approfondire un po’?

È un’epoca profondamente dolorosa che viene trattata con lo stesso vocabolario di una simpatica accidentale caduta con le risate finte. Le ferite (fisiche, sociali, economiche, affettive) non si supereranno con un bicchiere di spumante in compagnia. Noi invece siamo lì, fermi lì, protesi su quel bicchiere lì. Ed è uno spreco di attenzioni, anche piuttosto irrispettoso.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’omofobo seguace di Orban beccato nell’orgia gay: il lato oscuro (e represso) dei moralisti

Uomo e donna, famiglia tradizionale, valori cristiani, una dichiarata omofobia sventolata con fierezza: Joseph Szajer, eurodeputato ungherese del partito di Orban, è uno di quelli che ha puntato tutta la sua carriera politica sugli orientamenti sessuali degli altri, uno di quelli convinti che il compito della politica sia quello di gestire gli aspetti più personali degli elettori come se fossero affare di Stato e addirittura indice di salute pubblica. Peccato che il contrappasso sia degno di un film, uno di quei film dove il protagonista vien sonoramente sbugiardato secondo l’antico adagio “fate quello che dico ma non fate quello che faccio”.

Szajer è stato beccato dalla polizia in un pub nel pieno centro di Bruxelles mentre brigava in un festino sessuale con altre 24 persone, un’ammucchiata in piena regola con un alto tasso alcolico e di droghe. Con lui diversi diplomatici e funzionari della Commissione europea: due degli arrestati hanno addirittura invocato l’immunità diplomatica mentre la polizia li denunciava per avere violato le norme sanitarie disposte per il Covid e per possesso di stupefacenti.

Sono spesso così i moralizzatori: pretendono di giudicare gli altri confidando di non essere giudicati. Ma basta grattare poco poco sotto la superficie per scoprire, spesso, che sono semplicemente dei repressi che ardentemente desiderano ciò che condannano, si costruiscono intere carriere su principi (spesso retrogradi e restrittivi delle libertà degli altri) che infrangono nel buio della propria cameretta e interpretano il ruolo dei conservatori professando una fede che loro stessi riconoscono restrittiva.

Immaginatevi la scena: la polizia ha fatto irruzione nel locale e Joseph Szajer, codardo come sono spesso codardi da quelle parti ideologiche, ha tentato di fuggire (pure ferendosi una mano) per poi invocare un’immunità parlamentare che invece per legge non gli spetta (perché loro sono dei gran saggi dei comportamenti ma spesso fallaci sulla conoscenza delle leggi).

Parliamo di un uomo di punta di Orban, quell’Orban che ha voluto aggiungere alla Costituzione la frase “L’Ungheria proteggerà l’istituzione del matrimonio come unione di un uomo e una donna …”. Complimentoni, davvero.

Ma c’è un altro punto interessante in tutta la vicenda: nel suo comunicato con cui annuncia le proprie dimissioni dal Parlamento europeo, il moralizzatore decaduto Joseph Szajer chiede scusa alla sua famiglia, ai suoi colleghi e ai suoi elettori chiedendo loro “di valutare il mio passo falso sullo sfondo di trent’anni di lavoro devoto e duro” e dicendo di avere tratto con le sue dimissioni “le conclusioni politiche e personali”. Capito? Sono fatti suoi. E quello che ha giudicato tutti ora chiede di essere giudicato secondo il suo metro di giudizio: niente, non ce la fanno proprio, fino alla fine.

Leggi anche: Orgia in un bar di Bruxelles durante il lockdown: denunciato Joseph Szajer, europarlamentare di Orban

L’articolo proviene da TPI.it qui