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Sindaco nega la cittadinanza a Liliana Segre, ma invitava Jennifer Lopez a trasferirsi nella sua città

Uno degli atteggiamenti più ridicoli e osceni di una classe politica inetta e in malafede consiste nel tentativo di dare spessore politico a piccoli odi personali, a deprimenti battaglie di quartiere e decisioni prese per posa senza nessun pensiero dietro. Ogni volta che un politico, di qualsiasi grado, si dimena per giustificare prese di posizione con motivazioni vuote appare per quello che è: piccolo, molto piccolo.

Gualdo Cattaneo è un piccolo comune di 5.000 abitanti in provincia di Perugia. Anche qui, come accade in tutte Italia, in consiglio comunale è arrivata la mozione per assegnare alla cittadinanza onoraria a Liliana Segre come presa di posizione nella lotta all’odio, alla violenza e al razzismo. Il sindaco di Gualdo Cattaneo, tal Enrico Valentini, è contrario. Posizione legittima, certo, solo che ogni volta che si nega di prendere posizione verso un certo periodo storico è curioso sentire le più disparate motivazioni e il sindaco e la sua maggioranza si sono superati.

Durante la seduta di consiglio che ha bocciato la mozione il sindaco, tra risate generali, ha spiegato che Liliana Segre “non può essere cittadina onoraria di Gualdo Cattaneo perché non ha legami storici con il territorio, non rappresenta il nostro Comune, non ha vissuto qui”. Ci sarebbe da discutere sul fatto che la cittadinanza solitamente va data a una persona per i valori che incarna e non per il fatto che abbia una casa per le vacanze nella piazza locale, ma Valentini dice che sulla Segre c’è in corso “una strumentalizzazione”: strumentalizzare la libertà, la lotta al fascismo e al nazismo e la democrazia è un chiodo fisso di certi amministratori. Ma tant’è.

L’aspetto grottesco però è che quel Enrico Valentini è lo stesso Enrico Valentini che un anno fa in un suo post su Facebook si era esibito in una lunga lettera a Jennifer Lopez in cui invitava la star americana a trasferirsi nel suo paese elencandole tutte le caratteristiche del luogo, dalla “gianna” che tira, al tartufo bianco e nero, le lumache alla pomontina, la porchetta, la frittella di Pozzo, il presepe di Marcellano. “Per ovvie ragioni legate alla distanza , ‘scelte lavorative e di vita differenti’ non ci conosciamo direttamente anche se ,da qualche parte, credo di averti visto nonostante fatichi a ricordare il dove”, scrive il prode sindaco, tutto barzotto e simpatico (e con evidenti problemi di punteggiatura).

Quindi funziona così: evidentemente Jennifer Lopez incarna lo “spirito” del sindaco, Liliana Segre no. E non c’è altro da aggiungere, mi pare.

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Effetti collaterali del “Governo di tutti”: la Lega blocca la legge sull’omofobia

Solo a marzo, con un Paese in piena pandemia, il quadro è questo: a Brugherio l’auto di Danilo Tota e del suo compagno Sasha Di Cicco viene vandalizzata, sempre lì a Brugherio Danilo Tota era stato aggredito perché gay al parco cittadino, “checchina” e “feminuccia” gli urlavano addosso; il 14 marzo a Vicenza Andrea C. è stato adescato su Facebook e si è ritrovato di fronte 12 ragazzini che l’hanno preso a calci e pugni, è stato salvato da alcune persone di passaggio; il 15 marzo esce la notizia Thomas racconta di essere stato offeso, circondato e preso a sassate da un branco di 15 persone che l’hanno preso di mira per i suoi capelli tinti di rosa e per il fatto di essere gay.

Thomas racconta che le Forze dell’Ordine gli hanno perfino sconsigliato di sporgere denuncia; il 24 marzo Aurora e Valentina sono in un parco a Voghera vengono aggredite da un uomo che le rimprovera per essersi date un bacio, il video è uno spaccato di omofobia benpensante; il 26 marzo a Asti Nicholas Dimola viene invitato ad andarsene mentre era seduto su una panchina del parco (“sei un travestito di merda, vattene”, gli dicono) perché quella era “una zona per bambini”. È proprio Nicholas che nella sua denuncia pubblica ricorda che a Asti tre suoi amici omosessuali si siano suicidati; nella notte tra il 28 e il 28 marzo a Perugia l’auto di un giovane viene vandalizzata con la scritta “sono gay” durante la notte.

Questi sono solo i casi di cui si ha conoscenza, quelli che sono diventati pubblici in mezzo ai molti episodi che si ripetono tutti i giorni e che per vergogna vengono taciuti e rimangono nascosti. La questione dell’omofobia è una costante nelle cronache locali, con azioni e esiti più o meno gravi, eppure viene derubricata nella categoria delle “ragazzate” dove si infilano spesso i problemi complessi che non si vogliono affrontare.

Per anni si è nascosta sotto il tappeto ma ora quel tappeto è una montagna che incombe sulle responsabilità della classe politica. Eppure il centrodestra compatto ieri ancora una volta ha incagliato il disegno di legge contro l’omotransfobia (la “legge Zan”) con la solita patetica scusa di “altre priorità”. E fa niente che siano gli stessi che presentano proposte di legge sui crocifissi o sulle canzoni di Casadei: il governo Draghi, piaccia o no, tiene insieme una compagine così larga che non riuscirà mai a trovare la quadra per smuovere qualcosa in tema di diritti. Siamo in zona rossa anche per i diritti, sospesi, in attesa che torni la politica. Non è una buona notizia, no.

Leggi anche: 1. Legge contro l’omofobia: no secco della Lega. Ora il ddl è a rischio al Senato /2. Omotransfobia, il difficile cammino e le polemiche sulla legge che vieta l’odio contro omosessuali e trans /3. Caivano, Zan a TPI: “Meloni strumentalizza l’omicidio, ma è la prima a ostacolare la mia legge sull’omotransfobia”

4. Il linguaggio di certi giornali sul caso di Caivano rivela l’arretratezza italiana sull’omofobia (di G. Cavalli) /5. Il senatore della Lega Pillon condannato per aver diffamato un’associazione Lgbt /6. La legge contro l’omofobia? Serve proprio perché c’è chi non la vuole (di Fabio Salamida)

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Lo Ius Soldi

C’è chi deve aspettare anni per ottenere la cittadinanza italiana, e chi 10 minuti

Il calciatore del Barcellona Luis Suarez, l’avrete sentito ieri sicuramente, aveva bisogno della cittadinanza italiana per brigare il suo trasferimento a un’altra squadra e per facilitare la propria carriera. Aveva la parentela giusta ma avrebbe dovuto sostenere l’esame di italiano. Si presenta all’Università per Stranieri di Perugia e ovviamente è un trionfo.

Peccato che secondo la Procura di Perugia l’esame sia stato concordato e addirittura il voto finale fosse stato stabilito prima ancora di sostenere l’esame. Dalle carte dell’inchiesta si legge che «quello non spiaccica ‘na parola, coniuga i verbi all’infinito, ma te pare che lo bocciamo», si dicono i professori, anche perché dicono sempre loro «con 10 milioni a stagione di stipendio, non glieli puoi far saltare perché non ha il B1». Sui social i professori si sono fotografati tutti sorridenti con il celebre studente.

E dov’è lo scandalo?, direte voi. Semplice. In Italia per prendere la cittadinanza ci vogliono fino a quattro anni, normalmente. Merito, neanche a dirlo, anche del decreto sicurezza del fu Salvini che ha allungato da due a quattro anni i tempi del procedimento. Suarez in 15 giorni ha fatto quello che una persona normale riesce, se riesce, a fare in quattro anni con pratiche molto macchinose che spesso richiedono l’ausilio perfino di un avvocato.

Scrive una professoressa: «In qualità di docente di italiano L2 conosco le lungaggini burocratiche, legate alla richiesta della cittadinanza, le quali inducono spesso molti stranieri a evitare di farne richiesta; fatto salvo il caso di taluni che pare godano di corsie preferenziali».

Poi c’è l’esame: quello di Suarez è durato qualche decina di minuti. Un mostro, in pratica. Scrive Gavin Jones, corrispondente Reuters in Italia che l’ha sostenuto: «Leggo che #Suarez ha ottenuto il certificato B1 di conoscenza dell’italiano ieri in mezz’ora. Per caso anch’io ho dato lo stesso esame ieri (per ottenere la cittadinanza). Dura 2 ore e 45’. Farlo in mezz’ora è impossibile – anche per Dante, ma sicuramente per Suarez».

E quindi cosa è successo con Suarez? Semplice: l’attaccante del Barcellona ha ottenuto lo Ius Soldi, ovvero un diritto che, come troppo spesso accade, non viene attribuito per merito ma per interesse economico. E non capita solo agli stranieri, e non capita solo nelle questioni di cittadinanza. E sarebbe interessante aprire un dibattito sulla ricchezza (e la notorietà) che unge i gangli della burocrazia. Siamo sempre lì. Siamo sempre qui.

Buon mercoledì.

(la geniale definizione di Ius Soldi è di Matteo Grandi)

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il caso Suarez ci dice che in Italia gli immigrati ricchi si accolgono e quelli poveri si odiano

È la fotografia della distorsione di un paese e, per questo, la vicenda del calciatore del Barcellona Luis Suarez va raccontata per bene e va tenuta a memoria. Non tanto per le dimensione di un’indagine, quella della Procura di Perugia, che forse ha scovato i soliti furbi fare i furbi per mettersi a disposizione del luccicante mondo dei ricchi, ma perché le disuguaglianze sono talmente evidenti che basta mettere in fila i fatti per comprendere come in Italia ci siano diverse velocità (e forse anche regolarità) di procedura per ottenere un diritto.

E cosa c’è di più schifoso di un diritto che dovrebbe universale e invece è accessibile solo a chi può permetterselo? Un calciatore del Barcellona nato in Uruguay briga per ottenere la cittadinanza italiana (ha sposato un’italiana) in poche settimane. È la stessa cittadinanza che, lo dicono le statistiche, tanti attendono in media in quattro anni. Anni contro settimane, tanto per rendere l’idea.

Suarez doveva ottenere la cittadinanza per firmare per venire a giocare in Italia e sostiene, come tutti, un esame di italiano. Secondo le intercettazioni Suarez “non coniuga i verbi”, “parla all’infinito” e quindi concordano l’esame “perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare”, dicono gli esaminatori e quindi il calciatore “sta memorizzando le varie parti d’esame” e addirittura il voto finale è stato comunicato in anticipo al candidato. Prima di un esame che è durato una manciata di minuti quando di solito dura circa due ore e mezza.

Così ora la Procura di Perugia indaga, tra gli altri, il Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giuliana Grego Bolli, e il direttore Generale dell’università, Simone Olivieri. Ma in fondo, se ci pensate bene, Suarez ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un italiano, un italiano di quelli che sono convinti che questo Paese appartenga ai furbi, ai ricchi, agli amici degli amici, alle raccomandazioni, al servilismo di certi funzionari, al seguire gli interessi prima ancora delle regole e alla prepotenza di chi può permettersi di comprare risultati che andrebbero conseguiti per merito.

In questa sua predisposizione Suarez ha dimostrato di essere perfetto per diventare un italiano di quelli. Resta solo da spiegare ai tanti che sono italiani di fatto, ma che lottano per anni per vedersi riconosciuti, che gli immigrati qui pesano in base al loro reddito. Si accolgono i ricchi e si odiano i poveri, semplice semplice. E così quella che era già una farsa ora diventa ancora più vergognosa.

Leggi anche: Suarez, cittadinanza italiana ottenuta con truffa: il punteggio attribuito prima della prova

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‘Ndrangheta a Perugia: i fatti e i nomi

La droga arrivava su dalla Calabria fino a Perugia occultata nei trolley a bordo di autobus di linea privati. Ogni due settimane fino a dieci chili della polvere magica che poi immessa sul mercato umbro fruttava ai calabresi centinaia di migliaia di euro. A finire in manette nell’operazione condotta dagli uomini del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, un gruppo di ‘ndranghetisti crotonesi impiantanti a Perugia, tutti ritenuti appartenenti alla cosca dei Farao-Marincola di Cirò, operante da tempo sul territorio umbro. Un traffico di stupefacenti sul quale gli uomini del Ros sono riusciti a mettere le mani partendo dalle carte del processo a carico di Gregorio Procopio, attualmente in attesa della sentenza di Cassazione, il cui imputato è ritenuto responsabile dell’omicidio di Roberto Provenzano, muratore 37enne originario di Maida, in provincia di Catanzaro, ucciso da un colpo di pistola alla tempia la notte tra il 28 e il 29 maggio del 2005 e ritrovato in un lago di sangue nel bagno della sua abitazione di Ponte Felcino alle porte di Perugia. Secondo quanto illustrato dal Pm della Dda di Perugia Antonella Duchini le intercettazioni già oggetto del dibattimento processuale, sono state rilette e rivisitate, incrociate con le carte dell’inchiesta ”Acroterium”, anche alla luce di nuove tecniche investigative, grazie alle tecniche di filtraggio operate dalRIS dei Carabinieri di Roma, hanno portato all’individuazione degli altri presunti responsabili, convincendo il Gip ad emettere la nuova ordinanza cautelare per altre sei persone. A finire in manette in relazione all’omicidio sono stati Antonio Procopio, Elia Francesco e Platon Guasi, indicati come esecutori materiali, e Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Giuseppe Affatato, che avrebbero invece ordinato il delitto. Soggetti ritenuti appartenenti al gruppo criminale dei calabresi che teneva praticamente il monopolio del traffico di cocaina nel perugino. Secondo quanto emerso dalle indagini, una volta giunta in Umbria, la coca veniva venduta sul mercato locale attraverso una fitta rete di spacciatori. “Dobbiamo andare dal dottore“, “sono pronte le patate rosse“: queste le parole d’ordine che servivano a pusher e ganci per capire che la droga era arrivata a Perugia ed era pronta per essere spacciata. L’asse Calabria-Umbria garantiva una fiorente attività di narcotraffico, attraverso la distribuzione di ingenti partite di cocaina nelle province di Perugia e Terni. Venivano poi stabiliti i compensi per le attività illecite: spezzare le gambe o appiccare un incendio costava circa 7 o 8 mila euro. Un gruppo criminale che, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, costituisce la naturale prosecuzione della locale di ‘ndrangheta, già capeggiata dai pregiudicati Salvatore Papainni, Vincenzo Bartolo ed Francesco Elia, che nei primi anni 2000 gestiva il traffico di sostanze stupefacenti nel capoluogo umbro e che aveva ordinato l’omicidio di Roberto Provenzano. Circostanza, quest’ultima, ricostruita anche grazie alle dichiarazioni del testimone di giustizia Giuseppe Affatato, uno dei mandanti dell’omicidio, che nel settembre del 2013 aveva ricordato ai complici che eventuali “sgarri” nei pagamenti della droga avrebbero comportato “un colpo in fronte”, esattamente come avvenuto era avvenuto per Provenzano.

(clic)

“Ammazzalo”: a Perugia la mafia non esiste


Anche una condanna a morte pronunciata dal boss nelle intercettazioni finite nell’inchiesta che ha colpito a Perugia un gruppo criminale collegato alla cosca di ‘Ndrangheta dei Farao-Marincola, capeggiato dai pregiudicati Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Francesco Elia. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia perugina, hanno fatto luce su un traffico di cocaina dalla Calabria al capoluogo umbro, ma hanno anche permesso di individuare mandanti, organizzatori ed esecutori materiali di un omicidio avvenuto nel maggio del 2005: Roberto Provenzano fu ucciso con un colpo di pistola alla testa per uno “sgarro” nei pagamenti della droga. Le ordinanze cautelari eseguite dai carabinieri del Ros hanno riguardato 20 persone, non solo in Umbria, ma anche nelle province di Catanzaro, Crotone, Terni, Prato e Roma. I carabinieri hanno diffuso alcune delle conversazioni tra gli indagati che sono state intercettate.

Le mani della mafia su Perugia

Sotto l’ala del Grifo si nasconde la mano della ‘ndrangheta calabrese. Una spaventosa “holding del malaffare” quella scoperta due settimane fa dai carabinieri di Perugia, che ha portato a 54 arresti e un sequestro di beni per 30 milioni di euro. Così viene definito il sistema messo in piedi dalla criminalità organizzata nella insospettabile Umbria. Un sistema costruito ad arte su minacce, estorsioni e usura con tassi al 10 e al 20% e che si serviva «della copertura garantita dalle imprese sottoposte a estorsione per acquisire appalti e/o sub appalti nel settore edile e del fotovoltaico».

Gli atti di intimidazione sono quelli “classici”. Dalle auto incendiate fino alla testa di agnello davanti casa. «Mi hanno detto – si legge in una delle tante dichiarazioni raccolte nell’ordinanza – che era meglio aderire alle loro richieste per evitare che potesse accadermi qualcosa di brutto, come succede in Calabria. Mi facevano presente che giù in Calabria è accaduto tante volte che qualcuno sparisce e i familiari lo cercano e non lo trovano più. Mi parlavano con un linguaggio mafioso». Si presentano così i malavitosi perugini, dai forti legami con le famiglie di origine, con un linguaggio che rievoca colate di cemento e pallottole sparate. Ma accanto alle intimidazioni c’è pure lo spaccio.

Non poteva essere altrimenti, d’altronde, nella città che già da tempo la Dia ha definito “crocevia” del traffico di stupefacenti. Eppure un aspetto che finora non emerso è proprio il massiccio controllo e la capillare gestione del mercato di droga che partiva da Ponte San Giovanni per ramificarsi appunto a Perugia e nelle regioni circostanti. Il tutto condito da una strettissima alleanza. Quello che infatti emerge dalle carte è un vero e proprio sodalizio che si era creato tra famiglie calabresi e clan albanesi.

IL SISTEMA – La cocaina a Perugia c’è, si spaccia e si consuma. E non è dunque solo appannaggio dei nordafricani, il cui canale preferito è quello camorrista, che viaggia sulla E45, giungendo da Napoli, da Cesena o dagli aeroporti internazionali vicini. Nelle intercettazioni i calabresi la chiamano “neve”, “schioppo”, “ragazzetti” da portare a cena e da dividere prima di smerciarla. La nascondono nel riso, «perché si mantiene meglio». A capo del sistema Cataldo Ceravolo, ritenuto dagli inquirenti il “boss” della criminalità perugina, insieme a Cataldo De Dio e Vincenzo Martino. Ma non è tutto. Secondo quanto appurato dagli inquirenti, infatti, spunta una «una sinergia fra il sodalizio indagato e cittadini albanesi stanziati sul territorio perugino».

Il rifornimento avveniva sulla linea direttrice Napoli-Umbria. In un’intercettazione è lo stesso Ceravolo ad affermare: «andiamo a Napoli e la carichiamo». Né è un caso che tra gli arrestati anche Bledy, «un tizio che veniva chiamato ‘lo zio’». Un «albanese di Napoli», come lo si definisce in un’intercettazione, per il lungo periodo passato in Campania. Un periodo che gli aveva permesso, ora, di fare da collante tra le vecchie e le nuove amicizie. Il centro di raccordo era il bar “Apollo 4” di Ponte San Giovanni, gestito da Salvatore Facente e da Letizia Gennari (compagna di Cataldo De Dio). Tutti potevano tranquillamente recarsi lì e fare “compere”. L’importante, per calabresi e albanesi, era vendere.

Le cose cambiavano quando uno non pagava. Si poteva aspettare qualche tempo (ma ovviamente gli interessi crescevano), finchè poi non cominciavano – anche qui – le vere e proprie minacce. Come capitato a uno degli acquirenti, Vladimiro Cesarini, che aveva accumulato un debito di 6mila euro. Avrebbe avuto bisogno di più tempo. Ma gli albanesi non glielo consentono tanto che, come risulta dalle intercettazioni, si barrica in casa «chiuso» perché «teme per la sua incolumità». Alla fine Cesarini riesce a pagare. Prendendo spunto dai suoi stessi strozzini: estorcendo a sua volta il datore di lavoro, dicendogli che «lo avrebbe sparato con il fucile».

“PERCHÉ NON FACCIAMO UN LABORATORIO?” – Un sistema, dunque, vasto e articolato. Talmente vaso che l’idea, stando alle intercettazioni, era quella di ampliarsi ulteriormente. Di tecnologizzarsi. In un’intercettazione, infatti, altri due affiliati, il cirotano Natalino Paletta e il crotonese Francesco Manica (entrambi impiantati da anni a Perugia) dialogano della possibilità di organizzare un laboratorio per la preparazione di cocaina chimica con l’ausilio di un terzo, un “amico” colombiano: «chimicamente, hai capito qual è il discorso? – dice Manica – la vendiamo a 80 euro Nata (Natalino Paletta, ndr)… allora ti vuoi fare il laboratorio?».

L’idea, insomma, è quella di espandersi. Soprattutto per meglio fornire il mondo dabbene del perugino che si riforniva da calabresi e albanesi (spuntano tra le dichiarazioni anche proprietari di alberghi, piccoli imprenditori, uomini d’affari). Senza, ovviamente, dimenticare la rete di pusher minori che arrivava fino al mondo universitario.

L’OMICIDIO POLIZZI – Non solo. Nelle intercettazioni compaiono anche due nomi già tristemente noti alla cronaca perugina e italiana: sono Julia Tosti e Valerio Menenti, rispettivamente la fidanzata e il tatuatore presunto mandante dell’omicidio di Alessandro Polizzi, ucciso nell’appartamento di Via Ricci mentre era con la sua ragazza. I loro nomi spuntano proprio in riferimento al traffico di droga nel perugino gestito da Ceravolo.

La stessa Tosti, in una sua dichiarazione del luglio 2013, dichiara: «posso dire che a volte ho acquistato la cocaina da un tale Cataldo (Ceravolo, ndr), un uomo calabrese, che abita a Ponte San Giovanni (…). Ho conosciuto Cataldo perché me lo ha presentato Valerio. In alcune circostanze, in periodo compreso fra l’estate scorsa e l’ottobre-novembre scorsi, mentre avevo una relazione con Valerio, (i due ragazzi infatti convivevano, ndr) sia io che Valerio abbiamo acquistato cocaina da lui». Julia racconta anche del loro consumo di cocaina, dai 2 ai 5 grammi la volta, per un prezzo di 80 o 90 euro al grammo. E parla anche delle intimidazioni che Valerio riceveva, con l’auto rigata per i debiti accumulati nel tempo.

LA RETE PARALLELA E IL TRAFFICO DI ARMI – Ma non è finita qui. «L’attività di indagine – scrivono gli inquirenti – ha altresì consentito di individuare una diversa organizzazione», composta da albanesi e dagli italiani Simone Verducci e Michaela Cavalieri (che peraltro veniva sistematicamente picchiata da Verducci – le aveva rotto anche il naso – il quale in alcune circostante l’aveva letteralmente “imprigionata” in casa). Questa rete parallela, si legge ancora nell’ordinanza, «riforniva di droga e di armi l’organizzazione di matrice ‘ndranghetista riconducibile a Ceravolo Cataldo, Martino Vincenzo Mario, De Dio Cataldo ed altri sodali, dall’altro risultava effettuare per proprio conto attività di cessione di cocaina a terzi».

Insomma, accanto al traffico “ufficiale”, ce n’era anche un altro parallelo messo in piedi in prima linea da albanesi e calabresi insieme. Non è un caso che in una delle tante dichiarazioni rilasciate da coloro che si rifornivano dai calabresi, si legge che Verducci «dalla fine del 2012 si era messo in affari con alcuni albanesi che trafficavano con lui nella droga». «Personaggi pericolosi», vengono definiti. Ma questo non spaventa Verducci, tanto che diceva in giro di averceli in pugno. Tutti sotto il suo controllo, dunque. Il che non era cosa da poco dato che gli albanesi avevano un potere enorme in mano.

Uno degli arrestati, Ervis Lyte, in una conversazione telefonica con Ceravolo, dice addirittura che, quando era stato in carcere, riusciva a procurarsi la droga anche lì, tramite un afgano. Che Ervis fosse un tipo pericoloso, d’altronde, lo si capisce anche dall’arsenale a sua disposizione. Un arsenale che gli permetteva di fare soldi anche con il traffico di armi. C’è, nell’ordinanza, un intero capitolo sulla disponibilità di armi in mano ai clan. In un’intercettazione è Vincenzo Martino ad affermare di avere nella sua disponibilità (e in quella dell’organizzazione) numerose armi da fuoco e munizioni. E la trattativa di acquisto veniva intavolata sempre con Lyte per l’enorme possibilità di acquisto che offriva. Non solo pistole o fucili. Ma anche lo “sniper” o la TT-33 Tokarev, arma da guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in Albania e Russia. Tutte armi utili e indispensabili per la ‘ndrangheta. Soprattutto in Calabria. Martino lo dice chiaramente: «servono veramente giù, giù mi servono veramente».

I RAPPORTI CON LA CASA MADRE – Uno degli aspetti maggiormente di peso che emerge dalle carte perugine, però, è l’autonomia di gestione assicurata alla consorteria ‘ndranghetista installatasi in Umbria. Ovviamente, però, i rapporti con la Calabria erano più che frequenti: «è stato documentato nel corso dell’indagine – scrivono gli inquirenti – come la consorteria di tipo ‘ndranghetista operante in Umbria mantenga contatti qualificati, specie attraverso Paletta Natalino e Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr), con autorevoli esponenti della ‘ndrangheta di Cirò». Parliamo soprattutto della famiglia dei Farao, il cui esponente di vertice, Giuseppe, è condannato all’ergastolo ed attualmente detenuto in regime di 41 bis.

Non è un caso allora che «ogni qualvolta Farao Vittorio si reca a Perugia, e ciò avviene con costante periodicità, è spesso in compagnia o del fratello Vincenzo o degli omonimi cugini Farao Vittorio e Farao Vincenzo (entrambi figli di Farao Giuseppe) e si incontra con Paletta Natalino, Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr) ed altri componenti dell’associazione operante in Perugia». In un’intercettazione, d’altronde, è Cataldo Ceravolo stesso a parlar chiaro: i Farao salgono per «riscuotere». E, anche in questo caso, c’era il luogo apposito, di rito. Un pub in pieno centro a Perugia. In una traversa del famoso Corso Vannucci. Un pub spesso popolato da studenti. Mentre a un tavolo, in silenzio, la locale di ‘ndrangheta faceva affari, vendeva armi, smerciava droga.

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