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Cosa è successo ad Hakimi? Pestato in carcere è morto ma la salma è sparita…

Il 4 maggio 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere muore il detenuto Lamine Hakimi. È passato solo un mese dai violenti pestaggi e dalle torture degli agenti della Polizia Penitenziaria in seguito alla protesta dei detenuti dopo la notizia di un caso di positività al Covid-19. Per quella violenze sui detenuti sono state notificate le misure cautelari a 52 tra agenti di Polizia Penitenziaria e funzionari accusati a vario titolo di tortura, lesioni aggravate, maltrattamenti aggravati, falso, calunnia, favoreggiamento, frode processuale e depistaggio.

Nell’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, complessivamente, sono oltre 110 le persone indagate. La politica si è mossa indignata (quasi) tutta e la stessa ministra Cartabia ha definito inaccettabile quanto accaduto. Lamine Hakimi è «stato vittima delle gravissime azioni di violenza commesse dagli agenti di polizia penitenziaria in occasione della “perquisizione”» un mese prima di morire e sulla sua morte il deputato Riccardo Magi, presidente di +Europa, ha presentato un’interrogazione parlamentare a risposta scritta alla ministra di Giustizia Marta Cartabia per fare luce.

Di Hakimi si sa solo quello che raccontano i suoi compagni di cella: era nato in Algeria il 26 giugno 1992, forse soffriva di patologie psichiatriche e subito dopo l’autopsia la sua salma è stata rispedita in fretta e furia in patria. Ma dove è stata mandata? A chi? In che modo? A chi è stato riconsegnato il corpo? Sono tutte domande che Magi pone nella sua interrogazione. E poi: l’autopsia è «stata effettuata alla presenza di un difensore delle persone offese oppure no»? E dopo quel 6 aprile è «stato sottoposto a visita medica, e di quali patologie soffriva»?

Secondo le testimonianze degli altri detenuti Hakimi sarebbe stato prelevato dalla cella e poi preso a calci in bocca, pugni e bastonate. Come scrive Magi nella sua interrogazione «altri detenuti hanno riportato alla stampa le seguenti dichiarazioni: “Gli davano calci, cazzotti e manganelli. E l’altro poliziotto mi lasciò a me e andò dietro a dire: “No, no, no, a calci no, non lo uccidiamo perché se no lo paghiamo” e: “È stato picchiato da un agente il quale ha schiacciato la testa di Lamine contro il pavimento, facendogli uscire sangue da occhi, naso e bocca e poi lo colpiva alle costole e gambe». Dopo le violenze, ricostruisce il deputato di +Europa «Lamine sarebbe rimasto sei giorni in cella con un altro detenuto, per poi essere trasferito in un’altra cella, da solo, con la sola compagnia di un piantone per tre ore al giorno. Dopo il 1° maggio sarebbe stato trasferito presso la cella 19 del primo piano del Reparto Danubio; in questo periodo – dal 6 aprile al 4 maggio – Hakimi avrebbe richiesto più volte la presenza fissa di un piantone e lamentato forti dolori alla nuca».

«La storia di Lamine – dice Magi a Il Riformista – è la tragedia più grossa e indicibile di tutta quella vicenda per la sofferenza che viene fuori da tutte le carte dell’inchiesta e dalle testimonianze dei compagni. Quello che noi vediamo è che è scomparso nel nulla, non se ne sa più nulla. Il garante della Campania ha chiesto l’esito dell’autospsia e non ha avuto risposta su questo. Come sempre». Magi rivendica anche il valore politico, oltre che penale, di cui farsi carico: «Noi di solito quando presentiamo un’interrogazione parlamentare – spiega Magi – ci sentiamo sempre rispondere che siccome c’è un’inchiesta non possono dire nulla. Io saluto con grande favore quello che ha detto la Cartabia qualche giorno fa: non c’è stata capacità di indagine e nemmeno la volontà all’interno del Dap. Ha riconosciuto quindi un livello politico e amministrativo parallelo, diverso dal giusto accertamento. Noi vogliamo risposte anche da questo livello? Responsabilità amministrative e politiche, oltre che penali. Leggendo quello che diversi testimoni è qualcosa dal punto di vista umano, sofferenza e dolore nell’ultimo mese di vita ma anche qui: altra domanda perché un ragazzo che soffre di schizofrenia tanto da dover avere una terapia sta in carcere? Anche questa è un’altra questione enorme».

Le carte dell’inchiesta sui pestaggi raccontano che i più massacrati dall’azione della Polizia Penitenziaria sono quelli su cui il medico ha mentito: i referti sono prodotti in serie e dopo l’elenco delle diverse ecchimosi si legge sempre di ferite “procuratesi durante il contenimento da parte delle forze dell’ordine”. Tra quelli c’era Lamine Hakimi. Adesso è morto e non c’è più nemmeno il corpo. E forse oltre a Riccardo Magi una risposta ce le meriteremmo anche noi.

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Il dramma di Moussa: pestato in strada e incarcerato, si toglie la vita a 23 anni

Innanzitutto diamogli un nome, perché ieri per quasi tutto il giorno il ventitreenne proveniente dalla Guinea Moussa Balde che si è suicidato domenica 23 maggio nel Centro permanenza rimpatri di Torino è stato solo un “immigrato”, per alcuni “un clandestino”, un “irregolare”, comunque “uno straniero” e come cappello di ogni cronaca della sua vicenda si leggeva di quanto fosse depresso, malato, dedito all’alcol e un’altra decina di altre caratteristiche che tornavano utile a cannibalizzarlo, a trasformarlo in “altro” così quel morto suicida poteva essere facilmente disinnescato, interessarci solo di sguincio, una notizia del solito straniero fuori di testa da mettere in pagina.

Invece la storia di Balde Moussa va raccontata per intero perché c’è dentro tutto il fallimento di questo Paese (e questa Europa) che non solo non tende la mano ai morituri ma non si prende nemmeno la briga di salvare i salvabili, che getta nel sacco dell’umido tutti i periferici che non hanno nemmeno una porta a cui bussare per diventare visibili.
Il 9 maggio Balde Moussa ha fatto capolino nei giornali per essere stato massacrato di botte nei pressi del Carrefour di Ventimiglia. Tranquilli, anche in quel caso è andato tutto come previsto: nonostante girasse un filmato chiarissimo in cui si vedeva il bastone sulla carne, si sentivano le urla terrorizzate dalle finestre, si scorgeva una donna chiedere aiuto urlando “lo ammazzano” mentre tre baldi uomini si accanivano su di lui anche in quel caso la notizia è stata trattata come si tratta un pestaggio di uno straniero: “era ubriaco”, si sono affrettati a scrivere tutti, “aveva litigato qualche minuto prima con uno dei tre”. Come se da qualche parte esistesse una legge (anche morale) che consenta la lapidazione come legittima difesa.

Le forze dell’ordine, rispettando questo infame ordine delle cose che ha preso piede dalle nostre parti, si sono premurati di verificare l’irregolarità del ragazzo nel territorio italiano e hanno raccontato il pestaggio estraendo dal cilindro il presunto movente del presunto furto del presunto telefono di uno dei tre aggressori. Capito? Allora tutto a posto, allora la violenza criminale condita con un po’ di razzismo è passata in secondo piano. Lui, Balde Moussa, raccontava ai compagni di cella del Cpr di Torino (perché noi abbiamo carceri per persone non condannate sul nostro territorio, un abominio giuridico che continuiamo a fingere di non vedere) che in realtà era tutto un tentativo di zittirlo e invisibilizzarlo. Ora vai a sapere la verità, tanto è morto e si è risolto il problema. Il comunicato ufficiale dice che Balde Moussa sia stato trovato morto impiccato con delle lenzuola mentre si trovava in isolamento nella sua cella. Nel Cpr era stato con alcuni compagni di cella e poi (senza una motivazione specifica) in isolamento per non meglio precisati “motivi sanitari”. Qualcuno parla di una depressione: che per i depressi sia meglio star soli deve essere una nuova scintillante teoria che sarebbe curioso farsi raccontare.

Di certo alcuni testimoni raccontano che gli erano state negate richieste di aiuto e di soccorso per i dolori e che, nonostante la prognosi rilasciata dai medici dell’ospedale, quelle botte erano state ignorate dagli operatori, dalle guardie e dallo staff medico del centro di detenzione. Non è difficile crederlo: al di là del caso specifico che nei Cpr non vengano rispettati i più basilari diritti è una non notizia che ogni volta coglie impreparati solo coloro che fingono (male) di non sapere. Il girone infernale dei Cpr è fatto di militarizzazione estrema, di mancanza delle più basiche regole di igiene, di nessuna comunicazione ai detenuti (che non conoscono nemmeno i propri diritti), di udienze su fascicoli che spesso non sono mai nemmeno stati letti e, poiché il sistema dei rimpatri è completamente farlocca, di “liberazioni” con inviti a tornarsene al proprio Paese autonomamente.

Balde Moussa ha affrontato il viaggio per arrivare in Europa, non riusciva a passare il confine a Ventimiglia (non voleva rimanere in Italia, voleva andare verso nord), è stato pestato ed è finito in un carcere dopo essere stato vittima di un reato. Tecnicamente si è suicidato, certo, ma siamo sicuri di non sapere chi siano i mandanti e i fiancheggiatori?

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Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata

È stata Cira, anzi no, è stato Ciro che però era Cira e che era una trans, poi si correggono è stato un trans, poi qualcuno che scrive che fosse un amore gay, addirittura un telegiornale nazionale in prima serata, quello spicchio di tempo che dovrebbe essere pedagogico oltre che informativo e l’attenzione di troppi giornali e telegiornali e troppi commentatori va a finire tutta lì, sulla transizione di Ciro Migliore e la morte di Maria Paola Gaglione, morta a causa di un inseguimento che ha ribaltato la motocicletta su cui Maria Paola viaggia finisce quasi in secondo piano, è troppo ghiotto il piatto del trans per fermarsi alla cronaca e alla narrazione dei fatti e così, ancora una volta, oltre al lutto si aggiunge il dolore e la sofferenza di una stampa che sembra non avere le parole per raccontare la realtà che ci circonda, che ancora incespica nel raccontare il presente e che ancora punta il dito sulla vittima piuttosto che sul presunto colpevole.

I fatti, intanto: Maria Paola Gaglione, 22enne di Caivano, ama Ciro Migliore, un uomo trans, nato biologicamente donna ma in transizione verso il sesso maschile. I due sono in motorino e il fratello Michele comincia a inseguirli. Il fratello non sopportava la relazione tra i due: «Non volevo ucciderla, ma solamente darle una lezione», dice il fratello agli inquirenti che lo accusano di morte in conseguenza di altro reato e di violenza privata. Ieri il gip ha convalidato l’arresto. «L’aveva infettata», dice lui parlando della sorella e del suo amore. Mentre li inseguiva urlava minacce di morte. Quando avviene l’incidente (le cause sono tutte ancora da accertare e al vaglio degli inquirenti) Maria Paola Gaglione rimane uccisa sul colpo mentre Ciro è sanguinante a terra e comincia a essere pestato dal fratello. A completare il quadro ci sono poi le voci della famiglia, i genitori di Maria Paola giustificano il fratello dicendo in diverse interviste che il giovane sicuramente non voleva speronare ma che il gesto era di “aiuto” per quella sorella e la sua relazione non accettata.

Si tratta, per l’ennesima volta, di una donna che viene vissuta come proprietà privata (in questo caso dal suo fratello maggiore) e che non viene considerata libera di vivere la sua relazione perché l’amore che nutriva per il suo compagno non rientrava nei canoni tradizionali di una famiglia che, lo dice bene don Patriciello che conosce i protagonisti, «non avevano gli strumenti culturali» per affrontare una situazione del genere. Siamo di fronte, una volta ancora, a un femminicidio (quanto preterintenzionale e quanto volontario lo deciderà ovviamente il processo) in cui perde la vita una donna che è stata giudicata da un contesto che non ha l’educazione sentimentale per affrontare la complessità dell’amore che spesso segue linee ben diverse dai canoni tradizionali.

Per questo in molti in queste ore continuano a chiedere che arrivi al più presto quella legge contro l’omotransfobia che giace da mesi in commissione (e che ha diviso il Parlamento): le associazioni Lgbt locali tra l’altro sottolineano come Ciro fosse vittima dell’odio e delle minacce da parte della famiglia di Maria Paola. Il tragico evento accaduto qualche giorno fa è solo la coda di un odio che parte da lontano e che si è perpetrato per mesi. Poi c’è la questione, sempre poco raccontata e spesso raccontata in modo piuttosto distorto di queste famiglie che si ritengono proprietarie della vita e delle scelte dei propri figli: Sana Chhema, una 25enne pakistana viveva a Brescia dove aveva studiato e dove lavorava ed è stata uccisa dal padre e dal fratello che non accettavano il fatto che si fosse innamorata di un ragazzo italiano, era l’aprile del 2018 e nel 2016 Nina Saleem, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre, dallo zio e da due cugini perché aveva un fidanzato italiano e perché vestiva troppo all’occidentale. In quel caso fu facile addossare le colpe degli omicidi all’arretratezza delle famiglie straniere e sentirsi assolti come se fossero fatti di cronaca lontani da noi eppure la trama, il nocciolo della storia anche in questo caso è lo stesso, con cognomi italianissimi.

E a proposito di arretratezza forse sarebbe il caso anche di ricordare che Caivano, luogo in cui si è consumata la tragedia, è uno dei luoghi con i più alti indici di dispersione scolastica e con il più basso indice di presenza di nidi a tempo pieno d’Italia. Perché forse oltre alla legge servirebbe anche un’educazione sentimentale e una formazione culturale di cui si continua a discutere e che continua a non essere un serio progetto politico. Serve la legge, certo, ma serve la cultura. E ancora una volta siamo qui a ripetercelo.

E allora ci si chiede se non sia il caso di allargare lo sguardo, al di là del brutto giornalismo che si ferma su Cira che è diventato Ciro, e domandarsi quanto tempo ancora debba passare perché il diritto di amare, amare senza creare nessun danno agli altri, diventi finalmente una libertà da praticare senza paura e senza ritorsioni. Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria.

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Scambiare un omicidio per una rissa

Pregiudizi razzisti e agiografia dei violenti: nel raccontare l’uccisione di Willy Monteiro Duarte una parte del giornalismo italiano ha dato di nuovo il peggio di sé

Insuperabile il Corriere della Sera che descrivendo uno degli arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte scrive: «Ma Gabriele Bianchi, uno dei quattro fermati (insieme al fratello Marco e altri due) per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, nei mesi di lockdown si era posto anche un problema più concreto: come tirare avanti, mettere insieme pranzo e cena. Da giovanotto sveglio e concreto lo sapeva: non potevano essere gli sport da combattimento a dargli una sicurezza economica. Così s’era inventato una vita meno bellicosa, quella del fruttivendolo».

Giovanotto sveglio e concreto: l’agiografia dei violenti ultimamente va per la maggiore e ogni dettaglio utile per sminuire l’accaduto sembra ricercatissimo da certi giornalismi per farci un bell’articolo. Eppure si sta parlando di pregiudicati, conosciuti da tutti come violenti, simpatizzanti dell’estrema destra e che si dedicavano volentieri alle risse. Questo piccolo dettaglio viene omesso.

Del resto i fatti raccontano che Willy Monteiro Duarte sia stato ammazzato di calci e di pugni, ovviamente in molti contro uno, come si conviene ai vigliacchi e sia rimasto lì, morto per terra. “Rissa”, scrivono certi giornali: come se fosse una “rissa” massacrare di botte un ragazzetto che pesa la metà di te insieme ai tuoi amici e contro cui usi le tue tecniche di combattimento imparate per diventare ancora più efficace nella tua violenza.

Poi c’è il racconto che ci dice che Willy Monteiro Duarte e la sua famiglia fossero “ben integrati”. Di grazia, qualcuno vorrebbe dirci che informazione è? Se non fossero stati “bene integrati” sarebbe stato più immaginabile un omicidio del genere?

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, e aveva proprio ragione.

Infine c’è la narrazione di chi vorrebbe farci credere che Willy si sia trovato “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”. Anche questo è un falso: Willy ha ritenuto opportuno difendere un amico dalla foga e dalla violenza di questi picchiatori professionisti. Willy ha deciso di essere altruista e solidale in un territorio in cui evidentemente è un lusso che non ci si può permettere. Willy ha incocciato uno di quei quartieri presidiati dalla violenza di qualche gruppetto di pestatori professionisti che vorrebbero comandare il territorio. Willy ha fatto la cosa giusta. Siamo noi che gli abbiamo fatto trovare il Paese sbagliato.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Non ne indovina una: eterofobia

Per Matteo Salvini se si vota una legge contro l’omofobia allora bisogna pure fare una legge contro l’odio verso gli eterosessuali. Una cretinata talmente colossale che fa tremare le vene e i polsi solo a commentarla

Quel gran geniaccio di Salvini si vergogna di dire che vuole prendersi i voti di quelli che odiano i gay e allora ha studiato un’incredibile invenzione per dichiararsi quel poco che è facendo un giro larghissimo: dice che se si vota una legge contro l’omofobia allora bisogna anche correre subito a scrivere una legge contro l’eterofobia. Ci deve avere messo ore a imparare una parola nuova ma alla fine ci è riuscito, innanzitutto.

Del resto a chi di noi non è mai capitato di essere insultato perché eterosessuale, mano nella mano del marito o della compagna, mentre cammina in una via del centro dove ci sono cartelli con scritto “non si affitta agli eterosessuali” oppure a chi di noi non è mai capitato di avere un amico che è stato disconosciuto dalla famiglia o ghettizzato sul lavoro per avere detto di essere eterosessuale. È una cretinata talmente colossale che fa tremare le vene e i polsi solo a commentarla.

Poi ci sono quelli che la buttano sulla “libertà di pensiero”: sono quelli che vogliono esercitare il diritto di offendere un gay in quanto gay e non sanno che si può liberamente esprimere la propria opinione senza grossi rischi. Per me, ad esempio, quelli che hanno paura di perdere il diritto di urlare in mezzo alla strada “fai schifo, gay!” sono degli emeriti imbecilli e mi prendo anche la briga di difendermi nel caso in cui mi quereli qualcuno. Scambiare la libertà di espressione con la libertà di essere cretini va parecchio di moda, di questi tempi.

Infine c’è la chicca delle chicche: una legge che punisce chi discrimina in base all’orientamento sessuale in realtà difende anche qualcuno che viene pestato in quanto etero. Quindi la legge che vorrebbe scrivere Salvini è proprio quella in discussione, non deve nemmeno fare fatica.

Ben fatto, Matteo!

Buon venerdì.

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