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Arcuri si risveglia dal sonno e lancia una proposta vecchia di mesi…

Fermi tutti, si è svegliato Domenico Arcuri. Il commissario straordinario all’emergenza da Covid-19, quello che ha scambiato il suo ruolo – più di una volta – con quello del moralizzatore spalleggiato dal Governo, ieri ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera, per darci una lunga lezione sulla pandemia e sugli strumenti per riuscire a contenerla. Peccato che siano tutte cose che sui media circolano da mesi e peccato che proprio Arcuri sia la persona incaricata di dovere fare funzionare le cose, mica di continuare a spiegarcele. Così ci ritroviamo a leggere il commissario che dice «il senso di ciò che abbiamo imparato è rintracciare il virus sempre prima, curare le persone a casa sempre di più. I medici di base devono poter fare i test nelle case e curare lì il più possibile i malati, visto che ormai i protocolli sono standardizzati».

Potrebbe sembrare un’intervista valida per maggio-giugno, quando ancora ci si illudeva di poter veramente rispettare le 3 T (tracciamento, tamponi e trattamento) invece Arcuri sembra non essersi accorto di quello che sta accadendo con i tracciamenti, che sono ormai praticamente saltati in tutti Italia. Gli addetti al tracciamento non sono stati assunti e il sistema che si è praticamente sbriciolato. Qualcuno potrebbe fare leggere ad Arcuri le parole del suo collega, lì dalle parti del Governo, Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute che ha dichiarato senza mezzi termini che «un’epidemia si combatte con i comportamenti delle persone e con il tracciamento, ma quando vai oltre 10.000-11.000 casi e non riesci più a tracciare». Ma lui, Arcuri il censore, ci tiene a precisare che «facciamo ormai stabilmente oltre 100 mila tamponi molecolari al giorno e ci stiamo attrezzando per chiudere il gap fra domanda e offerta. Daremo alle Regioni molto presto la possibilità di arrivare a 200 mila. Stiamo chiudendo l’offerta pubblica per i test rapidi antigenici e ne compreremo 10 milioni, non più 5».

E sapete quando dovrebbe essere operativo il nuovo straordinario piano dello straordinario commissario? Tra due mesi. Due mesi: esattamente il picco nero che i numeri sembrano indicare come situazione grave in cui rischiamo di sprofondare. In sostanza ancora una volta ci ritroviamo a rincorrere il virus riuscendo semplicemente a mettere una pezza al futuro prossimo. Intanto in Italia abbiamo una capacità di tracciare fino a 2 mila casi al giorno, quando ormai abbiamo abbondantemente sfondato i 10 mila. Non riuscire a reggere l’impatto però non sembra preoccupare il commissario straordinario, che anzi ne approfitta anche per scrollarsi di dosso qualsiasi responsabilità sulla straripante condizione dei mezzi pubblici che portano gli studenti a scuola: «A me – risponde il commissario al Corriere della Sera – è stato chiesto di aiutare a riaprire le scuole in sicurezza». Stiamo a posto così.

E chissà se ad Arcuri non siano fischiate le orecchie per le dichiarazione di Andrea Crisanti, il virologo celebrato da tutti per come ha gestito la situazione in Veneto a inizio epidemia e poi lasciato ai margini, che dice senza mezze misure: «Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure».

A proposito di Crisanti. Il Governo mesi fa gli chiese un piano per organizzare il sistema di tracciamento. Si chiamava Network Testing e si basava sul fatto che ogni cittadino vive in una rete tridimensionale di relazione i cui piani sono: la scuola, il lavoro, i vicini di casa, gli amici e i parenti con interazioni sia orizzontali che verticali. Lo scopo era di testare tutte le persone che fanno parte di questo spazio di relazioni ogni volta che si identifica una persona contagiata per scoprire colui che ha trasmesso l’infezione e chi ne è stato contagiato bloccando la catena di trasmissione. È esattamente il sistema che ha permesso a Taiwan, Singapore, Cina e Corea del Sud di registrare successi enormi contro il virus. Il piano è stato messo in un cassetto e il Governo se n’è dimenticato.

Fino a ieri, quando Arcuri s’è ridestato dal sonno e ha lanciato una proposta pressoché identica. Solo che nel frattempo è successo di tutto. Il virus è stato dimenticato nella pausa estiva e poi è tornato prepotentemente per ricordarci tutti i mesi persi. Così mentre Arcuri rilancia sui tamponi (e Federlab Italia gli risponde sottolineando «le strutture pubbliche travolte da una totale disorganizzazione» e gli «enormi problemi non solo nel processare i campioni, ma anche nella fase stessa di accettazione e di refertazione») noi ci ritroviamo invece a doversi inventare qualcosa per rallentare la curva dei contagi. Sempre fuori tempo, sempre senza programmazione.

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E alla fine il Re tornò a Palazzo: Salvini commissaria Fontana: “No al coprifuoco in Lombardia”

Aveva la penna in mano pronto per firmare ma la telefonata del suo capo l’ha rimandato a cuccia. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, pronto a firmare il decreto che avrebbe previsto il divieto durante le ore notturne di spostamenti non autorizzati e che avrebbe segnato la stretta sui grandi centri commerciali nei weekend, è stato stoppato da Matteo Salvini, probabilmente spaventato dai logaritmi della sua propaganda che ciancia a vanvera di libertà da mesi nella sua quotidiana lotta contro il governo, che si traduce in una contestazione continua, senza capire bene quali siano le sue proposte.

E quindi? Quindi abbiamo una Regione appesa a Salvini, che “vuole capire” e che, in visita papale, decide di citofonare direttamente alla sede della Regione per farsi dare ripetizioni di pandemia. E fa niente che intanto i numeri salgano e che gli ospedali si riempiano. Deve capire, lui.

Eppure nella frase con cui Salvini annuncia lo stop c’è dentro tutta l’irresponsabilità che si coglie in questi mesi del virus. Ha detto, testualmente, il leader della Lega: “Il Governo respinge tutte le nostre richieste e a noi tocca portare la croce, imponendo misure impopolari che fanno infuriare i cittadini?”. Tradotto significa: perché dovremo prendere noi le misure impopolari a difesa della salute quando potremmo rimbalzarle al governo?

E dentro c’è tutta la strategia di chi antepone il consenso alla responsabilità della salute pubblica e c’è tutto il succo della politica salviniana che continua a essere semplicemente un sondaggio perpetuo che tende a inseguire le sensazioni istantanee dei suoi sostenitori per riuscire a sfamarle. Badate bene: un capo di partito, senza rendersi conto, lamenta “l’impopolarità” delle misure senza nemmeno fare un cenno alla salute pubblica. Non basta come prova evidente?

Poi, volendo, c’è anche tutta la retorica dell’autonomia lombarda sventolata proprio dal presidente Fontana. Quello stesso Fontana che per mesi si è messo di traverso con il governo Conte per speculare un po’ sulla pandemia, proprio nei mesi peggiori, e che ci ha sempre detto che la sua regione non ha bisogno di prendere ordini da nessuno. Ecco, quello lì stamattina si è messo buono buono nel suo ufficio a farsi sgridare dal suo capo per decidere come aggiustare decisioni già prese in nome di qualche like in più sulla pagina Facebook del Capitano.

Davvero, presidente Fontana, ci vuole dare lezioni di autonomia dopo una mattinata del genere? Davvero i pareri e gli studi di tutti i suoi esperti rimangono incagliati sulla riunione di partito? Dai, facciamo i seri, su.

Leggi anche: 1. Salvini stoppa Fontana e fa slittare il coprifuoco in Lombardia: “Prima voglio capire” / 2. Milano, il direttore dell’Ats: “I tamponi non ci salveranno, bisogna stare a casa e tagliare attività non essenziali”

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I numeri parlano

Contagi, tasso di positività, terapie intensive. Leggere i numeri è un esercizio utile per rendersi conto del punto in cui siamo

“Aumentano i positivi perché aumentano i tamponi”, dicono. Semplice così. Dopo mesi di pandemia ancora esistono quelli che contano il totale dei contagi e ci vorrebbero convincere che la situazione vada letta sul bollettino quotidiano. Se i contagi crescono ci si preoccupa, se i contagi calano ci si calma. Nemmeno il coronavirus ha insegnato l’arte della complessità, nemmeno tutti questi mesi, nemmeno tutti questi morti.

Però i numeri parlano, nella loro sostanziale inamovibilità e leggere i numeri è un esercizio utile. Sia chiaro: non si tratta di creare allarme ma si tratta almeno di rendersi conto del punto in cui siamo.

E il punto in cui siamo è sostanzialmente questo: il tasso di positività sulle persone testate (quindi quelle sottoposte a tampone per verificare la presenza del virus) 4 settimane fa era del 3,4%, 3 settimane fa era del 4,6%, 2 settimane fa era del 6,2%, settimana scorsa era del 7,7% e ieri del 14,2%. Qualcuno potrebbe dire: “mirano meglio”. Sul numero di tamponi processati totali ieri l’Italia ha superato la Francia con un tasso del 9,4%. Il giorno precedente era del 7,9%, prima ancora del 6,6%. Il tasso di positività è in crescita marcata da 10 giorni.

Sempre rimanendo sui numeri: la crescita dei posti occupati in terapia intensiva (a proposito di chi dice “sono tutti asintomatici”) negli ultimi giorni è stata esponenziale. Negli ultimi 12 giorni segue la formula x=(1,075^t)*358. In sostanza secondo la curva ci dice che le terapie intensive raddoppiano ogni 9,6 giorni.

Poi ci sono i fatti: i tracciamenti ormai sono sostanzialmente persi. Ieri l’Ats di Milano, solo per fare un esempio, per bocca del suo direttore sanitario Vittorio De Micheli ha dichiarato: «Non riusciamo a tracciare tutti i contagi, a mettere noi attivamente in isolamento le persone. Chi sospetta di aver avuto un contatto a rischio o sintomi stia a casa». Siamo a questo punto, ancora. Ieri Walter Ricciardi, ordinario di Igiene all’Università Cattolica del sacro Cuore di Roma e consulente del ministro della Salute ha detto «un’epidemia si combatte con i comportamenti delle persone e con il tracciamento, ma quando vai oltre 10.000-11.000 casi e non riesci più a tracciare». Crisanti lo spiega bene: «È saltato completamente il sistema di tracciamento. Le misure di contenimento sono inutili senza un piano organico per dotare l’Italia di un sistema che mantenga basso il numero dei contagi. È la vera sfida. Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure. Quest’estate – ricorda – eravamo arrivati a 300 contagi al giorno, avremmo dovuto porci il problema e organizzarci per evitare che quel dato tornasse a salire mettendo in campo un reale ed efficace sistema di tracciamento e tamponi. Invece non abbiamo fatto nulla.»

Stiamo discutendo dell’ultimo Dpcm quando è già superato dai fatti. E la sensazione, ascoltando anche dalle parti del governo dove con questa situazione ancora si discute di “movida”, è che la situazione attuale abbia bruciato tutti i mesi di vantaggio accumulati. E che non ci sia nemmeno il coraggio di dirlo chiaramente.

Buon martedì.

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Rimozione collettiva fallita

In fondo è un atteggiamento psicologico che si conosce bene, in cui si cade spesso, convincersi che qualche pericolo sia passato senza che nessun fatto lo dimostri, solo per quella sensazione di passeggero benessere che incrociamo in un momento e che ci invita a deresponsabilizzarci per essere più leggeri. Così è accaduto quest’estate in cui il Covid era sparito mica solo nei numeri ma anche e soprattutto nei pensieri, negli affanni, negli interessi e, ancora peggio, nella programmazione di quello che sarebbe venuto.

La sensazione, a vederla oggi con i numeri che ricominciano a risalire, si direbbe che la rimozione collettiva della pandemia sia miseramente fallita e sia stata una vacanza che forse non ci si doveva concedere, soprattutto quelli che si ritrovano a essere classe dirigente e responsabile di un Paese che affronta la cosiddetta “seconda ondata” di cui tutti parlavano, già prima dell’estate, di cui molti scrivevano e che da alcune settimane era già negli accadimenti degli Stati vicini a noi.

Se davvero lo Stato decide di essere paternalista con i suoi cittadini, ancora una volta, allora risponda anche ai dubbi che sorgono di fronte alla situazione attuale, ci spieghi esattamente come può accadere che già ora sia rientrato in crisi il sistema dei tamponi, ci dica dov’è finito quel benedetto piano di Crisanti che è rimasto inascoltato (e che di tamponi ne prevedeva 300.000 al giorno), perché è accaduto (lo dice il consulente del ministro Speranza Walter Ricciardi) che molte regioni del sud si siano “addormentate” facendosi trovare impreparate di fronte al prevedibile, ci diano per favore i numeri esatti dell’aumento di terapie intensive che era stato promesso e che non si riesce a verificare, ci dicano come pensavano di risolvere il tema dei trasporti pubblici.

È vero che ci sono alcuni cittadini incauti ed è vero che ora da parte di tutti serve una maggiore attenzione ma questi mesi estivi dovevano essere il tempo utile per essere pronti a quello che accade in queste ore ed è troppo facile, troppo banale e perfino offensivo raccontarci che il problema siano gli alcolici dopo le 24. La rimozione collettiva (fallita) non è solo opera dei dubbiosi e dei negazionisti ma è stata anche una superficialità di pezzi di governo e di regioni e la sensazione di essere arrivati impreparati scotta terribilmente. Sentire il presidente della Lombardia Fontana che parla di “movida” mentre non è riuscito a procurarsi il vaccino antinfluenzale che serve per tutti i fragili della sua regione rilancia un vecchio adagio che sarebbe il caso di non ripetere: se ci ammaliamo è colpa nostra e se non ci ammaliamo è merito loro. Basta, dai, un po’ di serietà, su.

Buon giovedì.

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Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare…

Per il suicidio del detenuto Valerio Guerrieri, suicidatosi nel carcere di Regina Coeli il 24 febbraio del 2017 all’età di 21 anni, si dovrà perseguire penalmente anche la direttrice del carcere in quel periodo, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap. L’ha deciso il gip Claudio Carini che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Attilio Pisani. Ora si valutano le accuse di omissione di atti d’ufficio e reato di morte come conseguenza di un altro delitto, oltre all’indebita limitazione di libertà personale. Valerio Guerrieri non doveva essere in carcere, c’era scritto a chiare lettere perfino nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione in cui il giudice indicava chiaramente di trasferirlo in una Rems, la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza che accoglie chi ha gravi disturbi mentali. Insieme alla direttrice del carcere e alla dirigente del Dap, il procedimento va avanti anche per sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, tutti già imputati. Il medico è accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto «alla misura della grande sorveglianza».

La vicenda di Valerio Guerrieri, ennesimo morto per malagiustizia, inizia alle dieci di sera di venerdì 2 settembre del 2016. Valerio è fermo con la sua moto ai bordi del Grande raccordo anulare di Roma, una pattuglia della Polizia lo nota e accosta ma il ragazzo non risponde e riparte immediatamente: un inseguimento che dura 30 chilometri e che coinvolge cinque volanti della Polizia e che si conclude con la caduta del motociclista. Trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per «resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato». Il ragazzo dice di non ricordare nulla e di non avere la patente. Viene condannato agli arresti domiciliari.
Non è una vita facile quella di Valerio: già a cinque anni i genitori decidono di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia perché le maestre dell’asilo osservano strani comportamenti.

Nel 2009 era stato ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma dove gli viene diagnosticata «una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali». A quattordici anni comincia a prendere psicofarmaci, viene mandato alla comunità terapeutica Casetta Rossa di Roma e segue un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo. Poi nel 2010 viene trasferito alla comunità Lilium, in provincia di Chieti, nel 2011 è a Villa Letizia, un centro romano che si occupa di problemi psichiatrici. La sua è una vita passata tra farmaci e le evidenti difficoltà famigliari. Il 1 maggio del 2012 lo arrestano mentre cerca di rubare una Vespa e viene portato al carcere minorile di Casal Del Marmo e poi ai domiciliari a Villa Letizia. Secondo il racconto della madre sarebbe proprio lì che il figlio conosce uno dei capi della banda della Magliana che gli insegna a rapinare i supermercati. La sua vita continua tra ricoveri, arresti e Tso affidato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), fughe e nuovi arresti.

Nel 2015 gli tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, il manicomio criminale, a Secondigliano. Esce il 1° dicembre del 2015 perché tutti gli Opg in Italia devono chiudere per legge. Finisce in una comunità aperta a Rocca Canterano, nei pressi di Subiaco, ma scappa di nuovo. In quel periodo prende 9 psicofarmaci al giorno. Valerio interrompe le cure, di nuovo, e di nuovo è Tso. È una storia piena di dolore. In un’intervista rilasciata a Internazionale l’anno scorso la madre raccontava che Valerio «passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie». Arriviamo alle battute finali di questa storia: dopo l’arresto del settembre 2016, nonostante le disposizioni del giudice, Valerio viene spedito a Regina Coeli, 946 carcerati in quel periodo, il doppio di quelli per cui c’è spazio.

Il 16 febbraio scrive una lettera al fratello: «Ciao frate’ ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?». Otto giorni dopo si uccide impiccandosi in bagno.

I compagni di cella raccontano che aveva preparato il cappio nel giorno precedente. Nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di due medici e sette agenti di polizia penitenziaria il pm Pisani chiede la condanna per omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane. Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap): secondo il magistrato avrebbero agito con negligenza ma non con dolo ma ora arriva la decisione del gip. Una cosa è certa: il suicidio di Valerio Guerrieri è l’ennesima storia di uno Stato che usa il carcere come discarica sociale, un luogo dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti fino ai malati psichiatrici. E così le carceri scoppiano e si moltiplicano i casi di suicidi di persone che avevano bisogno di cure, prima che di detenzione, e invece sono state lasciate sole. Come racconta la storia di Valerio.

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Sucidi in carcere: 20 volte in più della popolazione libera, ma la politica fa finta di niente…

L’ultimo è di qualche giorno fa: un ragazzo ventiduenne suicida nel carcere di Brescia in una vicenda da chiarire in molti suoi particolari. Il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo avere denunciato le violenze sessuali subite da un imprenditore che gli offriva capi d’abbigliamento in cambio di prestazioni sessuali. La Procura di Brescia proprio in questi giorni stava chiudendo le indagini ma il giovane si è tolto la vita nella sua cella.

Ma i suicidi in carcere continuano a essere una tragedia silenziosa che si ripete con feroce regolarità. Il 2 ottobre scorso si è tolto la vita Carlo Romano, detenuto a Rebibbia da sei mesi: aveva 27 anni e conclamati problemi psichici che l’avevano già spinto a tentare il suicidio e per questo era passato alla sorveglianza a vista che gli era stata revocata proprio il giorno precedente. La Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni sottolinea che si tratta dell’ennesimo caso di una persona «che forse poteva essere curata all’esterno». Lo scorso 28 settembre è toccato a un uomo di origini albanesi che era in attesa di giudizio nel carcere di Bologna, il compagno che condivideva la camera con lui non si sarebbe accorto di nulla. Solo il giorno precedente, il 27 settembre, nel carcere di Castrovillari (CS) un detenuto marocchino ha approfittato del cambio turno della polizia penitenziaria per impiccarsi con un lenzuolo. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto si è impiccato nella sua cella, dove si trovava solo, Omar Araschid, di origini marocchine, era recluso nell’area dei “sex offenders” e avrebbe nuovamente guadagnato la libertà nel 2021.

Il 27 agosto nel carcere di Pescara il 63enne Dante Di Silvestre aveva ricevuto da due giorni il diniego di lavorare fuori dal carcere dal magistrato dell’Ufficio di sorveglianza, per lui è stato un colpo durissimo, ha messo da parte gli effetti personali e un biglietto per la moglie e approfittando del regime di semilibertà che gli era stato riconosciuto per il suo comportamento esemplare, nel cortile del carcere ha utilizzato una corda che usava per il lavoro e si è impiccato a una sbarra. Di Silvestre era in carcere dopo la sentenza definitiva a 11 anni, con i benefici di legge aveva già scontato quasi metà della pena e aveva ottenuto la semilibertà. Poi, ancora: a Milano un 42enne algerino era stato fermato per tentato furto, era in una stanza da solo in Questura in attesa di fotosegnalamento. Si è tolto la maglietta, l’ha legata alle grate della finestrella della stanza vuota e l’ha stretta al collo. Quando gli agenti l’hanno trovato era già troppo tardi. Il 20 agosto si è impiccato al carcere Pagliarelli di Palermo Roberto Faraci, 45 anni, entrato in prigione da pochi giorni, anche lui sfruttando il fatto si essere stato lasciato solo.

È una moria di storia e di persone impressionante, che si ripete con cadenza mostruosa. Il 19 agosto un suicidio nel carcere di Lecce, il 17 Giuseppe Randazzo a Caltagirone, il 12 agosto sempre al Pagliarelli di Palermo (dove sono avvenuti ben 3 suicidi nel solo mese di agosto) si è impiccato (il solito drammatico cliché) Emanuele Riggio. Il 30 luglio nel carcere di Fermo si è suicidato un 23enne, di cui dalle cronache non si riesce nemmeno a risalire al nome. Aveva 23 anni anche Giovanni Cirillo che si è ammazzato il 26 luglio a Salerno e ne aveva 24 invece il detenuto che si è ammazzato a Como nello stesso carcere dove un mese prima in un’altra sezione si è tolto la vita, impiccandosi con la corda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita. La conta dal 17 gennaio di quest’anno (quando si verificò il primo suicidio nel carcere di Monza) a oggi è incivile: 45 suicidi dall’inizio dell’anno, tutti per impiccamento tranne 4 casi di suicidi per asfissia provocata da gas. A questi numeri si aggiungono 27 casi di morti da accertare, tutt’ora al vaglio degli inquirenti.

Secondo il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, sarebbero 1100 i tentativi di suicidio ogni anno evitati dagli agenti. Il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, adottato il 21 luglio del 2017, non ha rallentato la catena di suicidi: 52 nel 2017, 67 nel 2018, 53 nel 2019. La frequenza dei suicidi in carcere è di 20 volte superiore alla norma, mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine. Secondo il sito ristretti.it «è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine».

Ma la notizia fatica sempre ad arrivare ai giornali e fatica infilarsi nel dibattito pubblico. Rimangono le brevi di cronaca date ogni tanto su qualche sito locale: la politica fa spallucce (se addirittura non invoca ancora meno diritti) e l’opinione pubblica è colpevolmente distratta. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri – sosteneva Voltaire – poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione»: qui la situazione è sempre nera, nerissima ma i palazzi sembrano non accorgersene.

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Chi votava il clan Di Silvio?

Una sentenza della Corte d’Appello di Roma conferma che il clan Di Silvio, che quattro anni fa si occupò della campagna elettorale a Latina e a Terracina, è un clan mafioso

C’è una sentenza che è sparita dai giornali e dai telegiornali ma è piuttosto interessante: l’altro ieri la Corte d’Appello di Roma ha confermato ciò che disse la Direzione distrettuale antimafia romana e ciò che scrisse a Roma lo scorso anno la giudice per l’udienza preliminare Annalisa Marzano: il clan Di Silvio, che quattro anni fa si occupò della campagna elettorale a Latina e a Terracina è un clan mafioso. La Squadra Mobile arrestò 25 persone tra esponenti di primo piano e picciotti del clan e nove imputati, tra cui tre figli del presunto boss Armando Di Silvio, hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato: 74 anni di carcere in primo grado, ridotti a 50 in appello.

Ma qui viene il bello: nell’inchiesta “Alba Pontina” sono state descritte attività di estorsioni, prestiti usurai, intestazioni fittizie di beni, traffici di droga ed episodi di corruzione elettorale e proprio tra gli episodi di corruzione elettorale si legge che il cosiddetto clan dei Di Silvio di Campo Boario, avrebbe fatto affari nelle campagne elettorali, con l’attacchinaggio di manifesti per la Lega e comprando anche voti.

Chi hanno votato?

Secondo la sentenza di primo grado Latina è una città “strategica negli affari illeciti”, dove la collettività sarebbe “assoggettata all’egemonia dell’associazione che è indubbiamente di tipo mafioso”, e l’associazione mafiosa sarebbe stata “capace di controllare il territorio anche influenzando il voto della comunità locale”, con “una straordinaria forza intimidatrice, che ha assoggettato intere categorie di professionisti e di imprenditori locali”.

Ora Salvini è impegnato a fare la vittima sacrificale per il suo prossimo processo, quello in cui si illude di avere difeso “la Patria” non si capisce bene da chi, ma la domanda al leader leghista è una e semplice: per chi votavano i Di Silvio? E che ne dice? Siamo curiosi.

Buon martedì.

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Elly Schlein a TPI: “Io segretario Pd? Sto bene dove sto. Sui migranti troppe ambiguità, ci vuole più coraggio”

Vicepresidente della Regione Emilia Romagna ed ex europarlamentare, Elly Schlein fondato le liste “Coraggiosa” hanno corso alle ultime elezioni amministrative con buoni risultati. TPI l’ha intervistata su Ue, politiche migratorie e futuro del governo.
L’Europa dice “superiamo gli accordi di Dublino” e poi esce con questa solidarietà invertita tra stati del Migration Pact. Che ne pensi?
È un errore strategico perché, al di là della dichiarazione del volere abolire il regolamento di Dublino, non risolve il nodo fondamentale che solo la riforma approvata dal parlamento nel 2017 risolveva: cioè un ricollocamento automatico per condividere equamente tra gli stati la responsabilità sull’esame delle richieste di asilo, valorizzando i legami delle persone. Quello è il tema. Mi sembra un piano deludente perché in questo modo mette da parte il lavoro fatto dal parlamento e approvato dalla maggioranza e che poteva essere utilizzato anche per convincere i governi dentro al consiglio a votare, anche a maggioranza qualificata. E invece ripropone l’idea molto vecchia della solidarietà flessibile. Un’operazione culturalmente molto pericolosa è mettere sullo stesso piano i ricollocamenti (e quindi la condivisione dell’accoglienza) e la sponsorizzazione dei rimpatri. Mi sembra che lasci le mani libere a quei governi che si sono dimostrati molto interessati alla solidarietà europea quando vuol dire fondi strutturali e assolutamente indisponibili quando si tratta di un’altra forma di responsabilità europea che è quella che già i trattati chiedono sull’asilo e sull’accoglienza. Mi sembra anche un errore strategico perché anziché farsi forte di una posizione già approvata dal parlamento si riparte da zero con una proposta che non risolve il tema della solidarietà obbligatoria.

L’Europa dice che è solidarietà obbligatoria perché comunque devi dare un contributo…
Cosa sceglieranno i paesi del blocco di Visegrad tra i ricollocamenti e tra il dare un po’ di soldi per fare i rimpatri o dare altro supporto operativo? C’è poi un’altra preoccupazione che sono le procedure accelerate alle frontiere che sembrerebbero aumentare il carico di lavoro ai paesi di confine come l’Italia e soprattutto non si capisce basate su cosa. La convenzione di Ginevra chiede un pieno esame individuale delle domande d’asilo e se tu fai una procedura accelerata – magari basata sul concetto molto discrezionale di paese terzo sicuro – rischi di costituire un filtro d’ingresso che nega il permesso di asilo a seconda del paese da cui provieni. Non mi sembra un passo avanti. Mi sembra un passo indietro. Perfino la commissione Junker, anche se con soglie altissime, faceva scattare un obbligo di ricollocamento per tutti i paesi europei. Al governo italiano spetta un difficile negoziato in cui trovare alleati sui ricollocamenti obbligatori.

In Italia qualche giorno fa hanno bloccato la Mare Jonio ed è la sesta nave ferma in porto per questioni burocratiche anche piuttosto discutibili. I decreti sicurezza rimangono sempre lì e Lamorgese ha parlato di possibili profili penali per le Ong. Come siamo messi qui da noi a criminalizzazione della solidarietà?
Evidentemente male. Mi sembra che ci sia ancora troppa ambiguità in relazione all’obbligo di ricerca e soccorso in mare e non mi sembra che si sia risolto il tema facendo la guerra a coloro che cercano di sopperire alle mancanze istituzionali. Non si sta discutendo di rimettere in mare un’operazione di ricerca e soccorso istituzionale come è stata Mare Nostrum, no, e a fronte di questo a maggior ragione è sbagliato criminalizzare chi si sta occupando di salvare vite in mare che è un obbligo giuridico e morale. Male.

Troppe ambiguità anche da parte di questa maggioranza. Spero possa risolverla in modo diverso anche con la modifica di questi decreti sicurezza che davvero stiamo aspettando da troppo tempo. Era il primo segnale necessario di discontinuità del governo Conte e ne stiamo parlando ancora dopo un anno. È importante che arrivi in fretta e che corregga non solo la criminalizzazione delle Ong ma anche gli altri profili gravissimi come quello che tendeva a smantellare l’unico sistema di buona accoglienza che è quello diffuso, che rifiuta la grande concentrazione di persone dove spariscono i diritti e spesso si infila l’ interesse economico, quello che privilegia le piccole soluzioni abitative distribuite sul territorio con adeguati servizi di inserimento nella società e con adeguati controlli da parte delle amministrazioni locali e con trasparenza sull’utilizzo dei fondi. Chi ha scritto i decreti sicurezza privilegiando le grandi concentrazioni rispetto all’accoglienza diffusa è proprio chi vorrebbe fare dell’accoglienza un business, calpestando i diritti. Con un po’ di coraggio in più questa maggioranza dovrebbe riscrivere complessivamente le leggi sull’immigrazione rimediando ai disastri delle destre che hanno prodotto irregolarità e ingiustizia, non certo inclusione e sicurezza per le comunità.

Molti ti vorrebbero segretaria del Pd ma le tue liste “Coraggiosa” hanno corso alle amministrative ottenendo ottimi risultati. Hai intenzione di continuare su questa linea o pensi che si possa pensare a un partito di centrosinistra che tenga insieme tutto?
Noi stiamo bene dove stiamo. Anzi, in una tornata che ha segnato dei risultati importanti ma non brillanti per le forze progressiste e la sinistra siamo rimasti positivamente sorpresi che le liste di coraggiosa abbiano avuto una crescita significativa. a Faenza abbiamo fatto il 7,22 per cento, a Vignola abbiamo avuto una crescita del 145 per cento rispetto alle regionali di 8 mesi fa. A Imola è andata bene, siamo cresciuti al 5 per cento. Quindi in una tornata in cui il centrosinistra si è difeso bene ma non c’è stata una crescita in valori assoluti, “Coraggiosa” è in controtendenza forse perché stiamo provando a dare una chiarezza di visione che in questo momento a livello nazionale manca. Stiamo cercando, dentro le coalizioni, di contribuire a fermare la destra ma qualificando la nostra proposta sui temi della lotta alle disuguaglianze e alla transizione ecologica, due temi su cui chi si sta mobilitando anche fuori dalla politica è stufo di titubanze e di ambiguità. Questo può essere anche uno spunto importante per le forze che formano questa maggioranza. Sui temi del clima, dell’immigrazione e del lavoro di qualità bisogna che si sblocchi questo governo. Su giustizia sociale e transizione ecologica questo governo può fare fronte comune e fare un balzo in avanti. “Coraggiosa” non ha mai avuto l’ambizione di essere un nuovo partito o una sigla in più, ha sempre avuto l’ambizione di scuotere l’intero campo delle forze ecologiste e progressiste pretendendo chiarezza nella visione condivisa di futuro. Unità sì ma non ha senso se non è accompagnata dalla coerenza di un progetto condiviso. Quindi per ora noi continuiamo a stare dove stiamo e continueremo su questa strada.

Come vedi il futuro del governo?
I risultati elettorali danno un respiro ampio ma non per stare fermi, guai a sedersi sui risultati. Quei risultati consegnano la responsabilità alle forze di governo di rilanciare in avanti. Abbiamo un’occasione straordinaria, le risorse in arrivo vanno utilizzate coinvolgendo i territori e le parti sociali, non è un sfida di governo, è una sfida che riguarda il paese. Quelle risorse ci danno l’occasione di ricostruire il paese su basi nuove, possiamo risolvere alcuni ritardi accumulati nei decenni.
Quali sono le priorità?
Transizione ecologica, su cui bisogna investire il 37 per cento delle risorse del Recovery Fund, la trasformazione digitale, su cui bisogna investire il 20 per cento e la coesione sociale. Le priorità indicate dalla commissione europea centrano proprio la congiunzione tra lotta alle diseguaglianze e transizione ecologica che sono i temi su cui insistiamo da tempo. Se il governo avrà la capacità di progettare il nuovo e non semplicemente aprire cassetti polverosi per accontentare qualcuno, si potranno spendere bene. Nei vecchi cassetti ci sono progetti scritti troppi anni fa per riuscire a interpretare i cambiamenti che servono. Io credo che la tenuta di questo governo si misurerà se le forze che lo compongono, piuttosto che continuare a distinguersi, proveranno a lavorare concretamente sui temi che li uniscono. E questi sono i temi su cui possono provare a fare un passo avanti insieme.

Transizione ecologica significa investire su un nuovo modo di spostarsi, una mobilità dolce e sostenibile puntando su ferro, intermodalità e ciclabili, vuol dire creare occupazione di qualità nelle rinnovabili, nell’efficientamento energetico degli edifici e nella prevenzione del dissesto, perché l’unica grande opera che serve al paese è la cura del territorio così colpito dai cambiamenti climatici. E poi investire sulla trasformazione digitale per rimediare i ritardi enormi che abbiamo a partire dalle pubbliche amministrazioni, ma vuol dire riuscire a governare anche processi di innovazione tecnologica per metterli al servizio delle persone, perché non governati hanno prodotto un’enorme concentrazione di ricchezze e saperi. Si dovrà assicurare pari accesso alla rete per chiudere i divari territoriali, e per il privato investire nel digitale vuol dire innovare e contribuire all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.

Coesione sociale significa anche fare un enorme investimento sulla scuola, sul capitale umano, sulla formazione a partire dagli asili nido. Investire sui nidi vuol dire rendere più solidi i percorsi educativi contrastando povertà educative e dispersione scolastica, ma significa anche fare politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro indispensabili per colmare il divario occupazionale delle donne, favorendo una migliore distribuzione del carico di cura. Dopo la crisi del 2008, le ricette hanno reso il lavoro più precario, specie per donne e giovani. Oggi dobbiamo evitare quegli errori e ricostruire su basi diverse. Non abbiamo più scuse, le risorse ci sono.

Leggi anche: TPI intervista Elly Schlein, campionessa di preferenze in Emilia-Romagna: “Vi racconto la nuova sinistra che può battere Salvini”

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Solidali a respingere

C’era grande attesa per il il nuovo Patto europeo per le migrazioni e l’asilo, il Migration pact che ieri Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha presentato in pompa magna. C’era anche molta attesa visto che proprio la presidente nei giorni scorsi aveva annunciato il superamento del Regolamento di Dublino che da tempo rende iniquo l’approccio degli Stati europei nei confronti delle migrazioni.

La presidente ha parlato di “un nuovo inizio” (che è una frase che qui in Italia risuona con l’odore stantio dei decreti sicurezza che continuano a rimanere in vigore) parlando di “solidarietà europea”. In cosa consiste?

Rimane il principio del Paese di primo ingresso che dovrà svolgere tutte le pratiche burocratiche e sanitarie. Dice l’Europa che però nel giro di pochi giorni saranno prese “veloci decisioni di asilo e di rimpatrio”, con l’intento di velocizzare l’esame delle domande d’asilo. Diventa difficile pensare che la ricerca di rapidità non comprima ulteriormente i diritti che già spesso vengono calpestati. Ma tant’è.

E allora dov’è la solidarietà? È una solidarietà al contrario, la solita, dell’Europa che si chiude. Il vicepresidente della Commissione, Schinas, ha ripetuto più volte la definizione di “sponsorship sui rimpatri”. Spiega Schinas: «La nuova idea di sponsorizzazione dei rimpatri servirà a riequilibrare interessi concorrenti: non tutti gli Stati membri accetteranno la ricollocazione dei migranti con questo sistema offriamo un’alternativa percorribile: se non si decide di accogliere si può aiutare nel rimpatrio». In sostanza: se un Paese non vuole accogliere deve aiutare gli altri a rimpatriare. Una nuova solidarietà europea che li vede tutti uniti a respingere. Il piano è sempre lo stesso: solidali tra Stati a contenere gli arrivi e ancora più perfomanti nei respingimenti. I “ricollocamenti”, quelli che dovevano essere “automatici” dopo gli accordi di Malta e che sono rimasti lettera morta, continuano a rimanere un’utopia.

E un programma di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo? Niente. L’apertura di canali umanitari (e legali)? Niente. Interrompere la criminale cooperazione con la Libia? Niente. Collocamenti automatici? Niente. Sanzioni? Niente.

Siamo alle solite: una decisione a respiro cortissimo e una solidarietà che no, non ce la fa proprio a guardare a quelli che vengono dal mare.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata

È stata Cira, anzi no, è stato Ciro che però era Cira e che era una trans, poi si correggono è stato un trans, poi qualcuno che scrive che fosse un amore gay, addirittura un telegiornale nazionale in prima serata, quello spicchio di tempo che dovrebbe essere pedagogico oltre che informativo e l’attenzione di troppi giornali e telegiornali e troppi commentatori va a finire tutta lì, sulla transizione di Ciro Migliore e la morte di Maria Paola Gaglione, morta a causa di un inseguimento che ha ribaltato la motocicletta su cui Maria Paola viaggia finisce quasi in secondo piano, è troppo ghiotto il piatto del trans per fermarsi alla cronaca e alla narrazione dei fatti e così, ancora una volta, oltre al lutto si aggiunge il dolore e la sofferenza di una stampa che sembra non avere le parole per raccontare la realtà che ci circonda, che ancora incespica nel raccontare il presente e che ancora punta il dito sulla vittima piuttosto che sul presunto colpevole.

I fatti, intanto: Maria Paola Gaglione, 22enne di Caivano, ama Ciro Migliore, un uomo trans, nato biologicamente donna ma in transizione verso il sesso maschile. I due sono in motorino e il fratello Michele comincia a inseguirli. Il fratello non sopportava la relazione tra i due: «Non volevo ucciderla, ma solamente darle una lezione», dice il fratello agli inquirenti che lo accusano di morte in conseguenza di altro reato e di violenza privata. Ieri il gip ha convalidato l’arresto. «L’aveva infettata», dice lui parlando della sorella e del suo amore. Mentre li inseguiva urlava minacce di morte. Quando avviene l’incidente (le cause sono tutte ancora da accertare e al vaglio degli inquirenti) Maria Paola Gaglione rimane uccisa sul colpo mentre Ciro è sanguinante a terra e comincia a essere pestato dal fratello. A completare il quadro ci sono poi le voci della famiglia, i genitori di Maria Paola giustificano il fratello dicendo in diverse interviste che il giovane sicuramente non voleva speronare ma che il gesto era di “aiuto” per quella sorella e la sua relazione non accettata.

Si tratta, per l’ennesima volta, di una donna che viene vissuta come proprietà privata (in questo caso dal suo fratello maggiore) e che non viene considerata libera di vivere la sua relazione perché l’amore che nutriva per il suo compagno non rientrava nei canoni tradizionali di una famiglia che, lo dice bene don Patriciello che conosce i protagonisti, «non avevano gli strumenti culturali» per affrontare una situazione del genere. Siamo di fronte, una volta ancora, a un femminicidio (quanto preterintenzionale e quanto volontario lo deciderà ovviamente il processo) in cui perde la vita una donna che è stata giudicata da un contesto che non ha l’educazione sentimentale per affrontare la complessità dell’amore che spesso segue linee ben diverse dai canoni tradizionali.

Per questo in molti in queste ore continuano a chiedere che arrivi al più presto quella legge contro l’omotransfobia che giace da mesi in commissione (e che ha diviso il Parlamento): le associazioni Lgbt locali tra l’altro sottolineano come Ciro fosse vittima dell’odio e delle minacce da parte della famiglia di Maria Paola. Il tragico evento accaduto qualche giorno fa è solo la coda di un odio che parte da lontano e che si è perpetrato per mesi. Poi c’è la questione, sempre poco raccontata e spesso raccontata in modo piuttosto distorto di queste famiglie che si ritengono proprietarie della vita e delle scelte dei propri figli: Sana Chhema, una 25enne pakistana viveva a Brescia dove aveva studiato e dove lavorava ed è stata uccisa dal padre e dal fratello che non accettavano il fatto che si fosse innamorata di un ragazzo italiano, era l’aprile del 2018 e nel 2016 Nina Saleem, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre, dallo zio e da due cugini perché aveva un fidanzato italiano e perché vestiva troppo all’occidentale. In quel caso fu facile addossare le colpe degli omicidi all’arretratezza delle famiglie straniere e sentirsi assolti come se fossero fatti di cronaca lontani da noi eppure la trama, il nocciolo della storia anche in questo caso è lo stesso, con cognomi italianissimi.

E a proposito di arretratezza forse sarebbe il caso anche di ricordare che Caivano, luogo in cui si è consumata la tragedia, è uno dei luoghi con i più alti indici di dispersione scolastica e con il più basso indice di presenza di nidi a tempo pieno d’Italia. Perché forse oltre alla legge servirebbe anche un’educazione sentimentale e una formazione culturale di cui si continua a discutere e che continua a non essere un serio progetto politico. Serve la legge, certo, ma serve la cultura. E ancora una volta siamo qui a ripetercelo.

E allora ci si chiede se non sia il caso di allargare lo sguardo, al di là del brutto giornalismo che si ferma su Cira che è diventato Ciro, e domandarsi quanto tempo ancora debba passare perché il diritto di amare, amare senza creare nessun danno agli altri, diventi finalmente una libertà da praticare senza paura e senza ritorsioni. Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria.

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