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Pier Paolo Pasolini

#paninarialgoverno Roma, Giachetti e la citazione (sbagliata) di Pasolini

E niente. Anche la citazione è sbagliata.
E niente. Anche la citazione è sbagliata.

Ne scrive Ciro Pellegrino (qui):

“Nell’era dei social la frase è diventata : «Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro. […] T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece».
Il messaggio del candidato sindaco Pd alle Elezioni comunali di Roma è ancora più conciso e drastico: «E tu splendi, invece, Roma». Invece cosa? Invece di non splendere come vorrebbe qualcuno? Chi sono i «campioni dell’infelicità» sottintesi? Sembra una campagna anti-gufi renziani (o anti-marziani, riferendosi all’Ignazio Marino che aleggia e s’aggrappa all’immaginario di Ennio Flaiano).

Pier Paolo Pasolini, lo dice la sua vita e lo dice la sua produzione letteraria e cinematografica, amava Roma. Ma quella frase sullo splendere non era destinata alla Capitale. Lo sono, invece, questi versi del “Pianto della Scavatrice”.

«Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini».

Altro che splendere. Stupenda e misera città era la Roma di Pasolini. Anche se è tutta campagna elettorale, anche se è storytelling (chissà che avrebbe detto PPP di questo termine, vero?) val la pena di ricordare. E non distorcere.”

Una lettera a PPP

 La scrive qui Francesco Pecoraro e vale la pena spendere un minuto per leggerla:

Caro Maestro, quando non c’è tensione verso il meglio, tutto va verso il peggio, ogni cosa arretra di qualche casella, ogni istanza di progresso fa un passo indietro, quando non addirittura scompare.

Devo anche informarla che nell’attuale presente, oltre al ristagno e all’arretramento del progresso, si è verificato anche l’arresto dello sviluppo (evoco qui una sua famosa distinzione): il capitalismo italiano arranca in una dimensione arretrata, mentre un mondo ormai quasi completamente cino-americano ci travolge in uno sviluppo tecnologico apparentemente immateriale, di cui lei, morto troppo presto, non può avere la benché minima nozione.

La chiamiamo rivoluzione digitale: le interesserebbe molto.

Il Novecento ha costruito l’hardware del mondo in cui viviamo. Il XXI Secolo ne sta globalmente allestendo il software, che in un futuro prossimo servirà a gestirne anche la più trascurabile molecola. Il processo è appena cominciato, gli esiti sono imprevedibili. Mi scuso per aver usato termini e concetti che lei non può capire e che anch’io capisco poco.

Ma le generazioni nate a ridosso e subito dopo l’anno Duemila, cioè coloro che fanno risalire l’Inizio dei Tempi all’attacco alle Twin Towers del settembre 2001, va a dire i nati dentro il processo di digitalizzazione del mondo – quante cose sono successe dopo la sua morte! –, ecco, di quelli non sappiamo nulla, nessuno sa nulla.

Buona parte di loro (cioè quelli non del tutto emarginati) sembra vivere placidamente in seno al Grande Ceto Medio Occidentale, dando tutto per acquisito, anzi per scontato, non avendogli i padri trasmesso alcuna tensione politica, alcun disagio che non sia economico. Ma anche quest’ultimo ordine di problemi sembrano accettarlo come un dato di fatto, tipo: «il mondo è fatto così, chi sono io per metterlo in discussione?».

PPP

1959627

Alcuni anni dopo, da adolescente, ti ho ritrovato in una libreria del centro. Stavo marinando la scuola per evitare una interrogazione. Spulciando nel sempre magro scaffale della poesia di ogni libreria italiana mi si presentò una edizione economica delle Ceneri di Gramsci. Conservo ancora quel volume con affetto. Fu il primo di una lunga serie. Negli anni c’è sempre stato qualche poeta che ha cercato di convincermi che fossi migliore come regista. E registi che ti apprezzavano di più come narratore. E narratori che preferivano la tua opera di polemista. E così via, in un circolo vizioso di rabbiosi specialisti intenti a marcare il proprio territorio, sistematicamente invaso da te, eretico viandante che transumavi fra le discipline, indifferente alle regole. Spesso inventandotele strada facendo. Era questa vitalità irrequieta, in fondo, che ho sempre amato di te. Quella che fin da ragazzo mi ha catturato, senza remore. Il tuo coraggio bambino, incosciente, il tuo sporgerti sull’abisso. Oggi che tutti ti lodano e di te hanno fatto un santino inviolabile, oggi che sei un’icona persino per quella destra becera che tanto ti ha attaccato in vita, oggi anche i miei “colleghi” coetanei del piccolo mondo culturale nazionale – geneticamente, per casta, di sinistra – hanno dimenticato, o forse fingono per convenienza, quanto i loro padri nobili ti odiassero.

(Gianni Biondillo su Pasolini, qui.)

Siamo ancora pieni di cose a cui resistere

“Il fascismo, il regime fascista, non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto, in realtà, fare niente. Non è riuscito a incidere, nemmeno a scalfire lontanamente, la realtà dell’Italia – realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire. Ora invece succede il contrario: il regime è un regime democratico eccetera eccetera, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce a ottenere perfettamente; distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distruggendo in realtà l’Italia, e io posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi. E questa cosa è accaduta tanto rapidamente che forse non ce ne siamo resi conto: è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni; è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. E adesso, guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”

(Pier Paolo Pasolini, 1974)

Resistenza

Livio Garzanti

FB_Editor_GarzantiSi è spento a 93 anni l’editore Livio Garzanti. Lo ricordiamo pubblicando il capitolo dedicato alla collana “Romanzi moderni”, da lui diretta per la sua casa editrice, tratto da Storie di uomini e libri di Giancarlo Ferretti e Giulia Iannuzzi edito da minimum fax. (Fonte immagine)

di Gian Carlo Ferretti

Romanzi Moderni

Casa Garzanti è attiva dal 1939, quando il fondatore Aldo rileva Casa Treves (che per le leggi razziali emanate dal regime fascista non può proseguire l’attività). Ma la casa editrice assume nuovo e significativo rilievo a partire dal 1952, da quando prende la direzione Livio, il figlio trentunenne di Aldo Garzanti, che si rivelerà editore di notevole capacità e intelligenza, oltre che narratore di una certa finezza. Una svolta che riguarda anche i Romanzi Moderni a partire dal 1953 (ne è direttore di fatto lo stesso Livio Garzanti), nonostante la collana sia presente dal 1949.

In particolare tra il 1954 e il 1959, grazie anche alla sensibilità editoriale e letteraria del consulente Attilio Bertolucci, contribuiscono alla definizione di una marcata e originale identità editorial-letteraria una serie di autori italiani: Pier Paolo Pasolini con Ragazzi di vita, Paolo Volponi con Memoriale (acquisito anche grazie alla fondamentale mediazione pasoliniana), Goffredo Parise con Il prete bello e Carlo Emilio Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. L’editore punta su una confezione «scioccante», con una sovraccoperta affidata a Fulvio Bianconi, che viene da un’esperienza di propaganda e di pubblicità, ma che saprà elaborare anche formule grafiche aniconiche e severe per la saggistica.

Pasolini e Volponi hanno alle spalle una bibliografia soprattutto poetica e come narratori sono esordienti, gli esordi di Parise presso Neri Pozza non lo hanno ancora fatto conoscere, e il Pasticciaccio in edizione Garzanti anche per molti critici segna la tardiva rivelazione di un autore attivo da decenni e di un romanzo apparso a puntate parzialmente in rivista. Tutti scrittori nuovi e insieme maturi, che appaiono sorprendenti senza essere effimeri, che sono capaci di provocare un forte impatto e di prefigurare una sicura durata. Tratti questi che si ritrovano almeno in parte in Beppe Fenoglio. Cui si aggiungono una consistente e isolata presenza di Mario Soldati, e il provocatorio Giuseppe Berto di Guerra in camicia nera.

Pasolini, Volponi, Parise e Gadda in particolare si impongono con opere di rottura e di discussione, non prive di qualche venatura scandalosa nei casi di Pasolini e di Parise, anche con buoni risultati di vendita. Per Pasolini, Volponi e Gadda ci sono anche analogie intrinseche più o meno sottili: i motivi della diversità e del conflitto, il nesso tra problematicità e sperimentalismo, la carica di eccentricità e innovazione rispetto a tradizioni letterarie consolidate, eccetera. Ne partecipa almeno in parte Ferdinando Camon dal 1970 con il romanzo Il quinto stato, per il quale Pasolini scrive il risvolto. Quattro autori, va aggiunto, che continueranno a caratterizzare il catalogo garzantiano per lungo tempo e con una ricca produzione narrativa, saggistica e poetica.

Quella identità viene ulteriormente rafforzata nel 1963 e nel 1964 da due veri e propri eventi editoriali e letterari, diversi e quasi opposti tra loro: la pubblicazione (in contemporanea con Einaudi) di Una giornata di Ivan Denisovicˇ, primo libro-rivelazione di Aleksandr Solženicyn sui campi di concentramento staliniani, e la prima traduzione italiana (firmata da Giorgio Caproni) di Morte a credito dello scrittore maledetto Louis-Ferdinand Céline, una sua opera fondamentale nel segno dell’oltranza e della negazione. Edizione peraltro censurata.

Ma questa per la verità è soltanto un’area, seppur importante e definita, all’interno della estrema eterogeneità dei Romanzi Moderni, con accostamento di autori italiani e stranieri molto disparati: i veristi Federico De Roberto, Luigi Capuana, Matilde Serao; il Novecento americano, talora con vere scoperte, di William Faulkner, Norman Mailer, Truman Capote (Colazione da Tiffany, da cui un celebre film); Auto da fé di Elias Canetti, novità assoluta per l’Italia nel 1967; classici moderni come Henry James e Virginia Woolf; e una serie di grandi successi spesso portati sullo schermo, come Il cardinale di Henry Morton Robinson, e le due serie Angelica di Anne e Serge Golon e 08/15 di Hans Hellmut Kirst.

Ai quali ultimi, tra le etichette adottate nel corso degli anni Sessanta in quarta di copertina per orientare gli acquirenti all’interno della collana («i maggiori», «gli italiani d’oggi», eccetera), tocca quella di «1.000.000 di lettori». Etichetta significativa al di là dell’attendibilità numerica, estensibile ai successivi romanzi di Michael Crichton, e a Love story di Erich Segal (che appartiene tuttavia alla collana parallela I romanzi), best seller del 1971 favorito dal film con 350.000 copie in pochi mesi, e rilanciato come omaggio agli appassionati dei Baci Perugina: una storia tra tenerezza amorosa e crudezza di linguaggio, che perpetua la linea trasgressivo-mercantile di Garzanti a livello di mero consumo.

A linee di ricerca comunque diverse apparterranno gli altri narratori italiani più o meno significativi che si succederanno nei Romanzi Moderni tra gli anni Sessanta e Settanta, da Francesco Leonetti a Giuseppe Cassieri, da Enzo Siciliano a Franco Cordelli ad altri.

Il passaggio nel 1974-75 di Pasolini e Volponi a Einaudi, per una serie di insoddisfazioni e insofferenze verso Livio Garzanti, e per la forza di attrazione del «divo Giulio», è il segnale (soprattutto nella narrativa) di una caduta di quell’originario dinamismo e di una crisi irreversibile di quella originale identità. Lo confermano (fin dalla grafica) la stessa fine dei Romanzi Moderni nel 1973 e le numerose collane che li sostituiscono nel corso dei decenni fino a oggi, come i Narratori Moderni, la Nuova Narrativa Garzanti, e una collana contraddistinta dalla sola lettera G o addirittura senza nessun nome. E questo al di là dei singoli valori letterari e di mercato, di qualità e di successo di molti autori italiani e soprattutto stranieri.

Una novità è nel 1976 l’esordio fulminante di Vincenzo Cerami, scoperto ancora una volta da Pasolini. Il suo romanzo Un borghese piccolo piccolo, presentato da Italo Calvino e portato sullo schermo nel 1977 da Mario Monicelli, è una storia dolorosa e grottesca di violenza metropolitana, che anticipa in Italia molte sperimentazioni future, tra naturalismo, noir e fumetti, e inaugura per Cerami una felice carriera nel campo della narrativa e del cinema, fino alle sceneggiature e ai testi per Roberto Benigni. Una curiosità è l’opera seconda di Andrea Camilleri Un filo di fumo (1980), successiva a un esordio in sordina ostacolato da vari rifiuti e ancora lontana dalle fortune dei suoi gialli.

Le collane di narrativa sono comunque un settore molto circoscritto all’interno della vasta, differenziata e contraddittoria produzione generalista di Garzanti, compresa tra cultura, trasgressività e fatturato, con risultati cospicui peraltro ai vari livelli (da ricordare le fortunatissime Garzantine). Un vero evento è l’Enciclopedia Europea in dodici volumi, progettata nel 1969 e pubblicata dal 1976. Ma gli altissimi costi dell’operazione, insieme ad altri ambiziosi progetti non realizzati, avranno un peso notevole nella crisi editoriale e finanziaria della Casa. Cui seguiranno nei successivi decenni una progressiva emarginazione e fuoriuscita di Livio Garzanti, e una riduzione di ruolo e di immagine della casa editrice, fino alla vendita della Casa stessa e ai relativi passaggi di proprietà. Nel 2006 la Garzanti entrerà nel gruppo gems.

 

Scheda

Collana: Romanzi Moderni

Casa editrice: Garzanti, Milano

Periodo: 1953-73

Fonti e bibliografia:

Catalogo generale Garzanti, Garzanti, Milano 1976.

Storia dell’editoria d’Europa, a cura di Angelo Mainardi, vol. ii, Shakespeare & Company-Futura, Firenze 1995.

Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Einaudi, Torino 2004.

Gian Carlo Ferretti, Siano spiacenti. Controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti, Bruno Mondadori, Milano 2012.

(fonte)

diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi

“Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.”

– Pier Paolo Pasolini- (1975)

Noi siamo un paese senza memoria.

Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale.

(Pier Paolo Pasolini)

L’anarchia del potere secondo PPP

Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da sua necessità di carattere economico, che sfugge alle logiche razionali. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno odia il potere che subisce, quindi odio con particolare veemenza il potere di questi giorni. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti. Sono caduti dei valori, e sono stati sostituiti con altri valori. Sono caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti da altri modelli di comportamento. Questa sostituzione non è stata voluta dalla gente, dal basso, ma sono stati imposti dal nuovo potere consumistico, cioè la nostra industria italiana pluri-nazionale e anche quella nazionale degli industrialotti, voleva che gli italiani consumassero in un certo modo, un certo tipo di merce, e per consumarlo dovevano realizzare un nuovo modello umano. (Pasolini prossimo nostro)

Già un’ora di ferragosto

L’Italia – e non solo l’Italia del Palazzo e del potere – è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: «contaminazioni» tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti in folla a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di «raptus»: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti.
(Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane)