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piersanti mattarella

Otto colpi

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In questa foto c’è il destino di un uomo. C’è la storia di una famiglia che è l’attraversamento della Sicilia, c’è il confine fra la vita e la morte. Era ancora vivo, respirava ancora il Presidente della Regione Piersanti Mattarella quando suo fratello Sergio lo stava tirando fuori dalla berlina scura dove era rimasto schiacciato qualche istante prima da otto pallottole. Era ancora vivo quando lui cercava di prenderlo per le spalle e gli sorreggeva il capo mentre la moglie Irma gli spingeva le gambe, spingeva e spingeva senza sentire più il dolore per quelle dita spezzate da uno dei proiettili.

Questa è una foto che racconta molto dei Mattarella, padri, figli, fratelli, c’è dentro la Palermo degli Anni Ottanta, c’è dentro la paura, il prima e il dopo, c’è soprattutto l’attimo in cui cambia per sempre l’esistenza di un tranquillo professore universitario che ha fra le braccia il fratello morente e raccoglie l’eredità di una stirpe politica che con orme assai diverse ha profondamente segnato la vicenda siciliana fin dal dopoguerra. Proprio in qualche secondo è cambiato tutto per il professore Sergio Mattarella, fra le 12,30 e le 13 del giorno dell’Epifania del 1980. Strade quasi deserte dalla Statua fino al teatro Politeama, sole, chiese, campane e spari. Spari nella città dove si faceva politica con la pistola.

Ero lì, quella mattina del 6 gennaio. C’era qualcosa di informe fra quell’auto e l’asfalto, sembrava un manichino ma io – per non volere vedere un altro corpo massacrato di Palermo (capita ai giovani cronisti di «nera») – non distoglievo lo sguardo dalle dita di quella donna, la moglie Irma Chiazzese, l’indice e il pollice della mano sinistra frantumati, i tendini lacerati. Il fratello Sergio aveva la faccia più bianca dei suoi capelli, la figlia Maria si disperava sul sedile posteriore della Fiat 132 coprendosi il volto, il figlio Bernardo era immobile vicino al cancello.
Ero arrivato in via Libertà – la strada delle splendide ville liberty di Palermo che non c’erano più, fatte saltare in aria di notte con la dinamite per costruire palazzi di mafia – qualche minuto dopo Letizia Battaglia, la fotografa di questo scatto. «Chi è, Letizia? Dimmi chi è? Sai il nome?», le ho chiesto sicuro di una risposta. «Non lo so ancora, sono passata di qui e pensavo a un incidente stradale, poi ho visto qualcuno dentro la macchina e mi sono messa a correre e a tremare ». Letizia puntava l’obiettivo della sua camera dentro l’auto, Franco Zecchin – il suo compagno e fotografo anche lui – riprendeva gli uomini e le donne che si stavano radunando in silenzio davanti al marciapiedi di via Libertà numero 147, la casa dove abitava Piersanti Mattarella, allievo di Aldo Moro che stava portando la sua «rivoluzione» in un’isola che non voleva cambiare.

Stavano andando tutti a messa, come in ogni giorno di festa. Tutta la famiglia Mattarella. Soli, la scorta l’avevano lasciata libera. Poi quel «giovane in jeans e giubbotto che saltellava» e che era appena sceso da un’utilitaria bianca, aveva sparato quattro colpi, se n’era andato, era tornato indietro per spararne altri quattro. E poi quella scena, il fratello Sergio che provava a sollevarlo e tratteneva il suo corpo come per trattenere – in quel momento senza saperlo, senza neanche immaginare cosa sarebbe stata la sua vita dal giorno dopo e negli anni a venire – il suo lascito e il suo pensiero. L’eredità. Quella di Piersanti, gravosa e pericolosa. Quella del padre Bernardo ingombrante, molto scomoda. Avveniva tutto inspiegabilmente in mezzo al sangue e in mezzo al terrore, la cognata ferita, i nipoti sconvolti, tutto fra le 12,30 e le 13 di un giorno di Epifania in via Libertà a Palermo. Piersanti il fratello Presidente che voleva nuove regole e pulizia e il padre Bernardo con quelle ombre che scaraventavano in un passato cupo. Il fratello che sognava una Sicilia più libera e le voci sul padre che portavano indietro, a Castellammare del Golfo, patria dei «castellammaresi » che dal 1925 erano diventati re anche a New York, una moglie che si chiamava Maria Buccellato (famiglia di aristocrazia mafiosa), i sospetti sui suoi legami con i potentissimi Rimi di Alcamo, le accuse (mai provate) di Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo negli Anni Cinquanta, i dossier del sociologo triestino Danilo Dolci (condannato per diffamazione e amnistiato) sulle sue complicità nel Trapanese, le molte pagine dedicate dalla prima commissione parlamentare antimafia fino alle confessioni più recenti dell’ultimo pentito di Cosa Nostra Francesco Di Carlo.

Ma quel 6 gennaio del 1980 – in verità almeno da un paio di anni prima, quando Piersanti era stato eletto Presidente e subito aveva cominciato a manifestare il suo desiderio di ribaltare una Regione impastata di mafia – e quell’immagine del fratello in fin di vita sono diventate lo spartiacque fra Castellammare del Golfo e Palermo, il passaggio da una generazione all’altra, il cambio di passo. Non era forse proprio quella la ragione – il cambio di passo, la svolta – che aveva fatto ritrovare quella mattina il professore universitario piegato a sostenere il corpo martoriato del fratello? Non era stata forse la decisione e la forza di Piersanti a mettere paura a gente come Vito Ciancimino e a tutti quegli assassini che circolavano per la Sicilia e chissà dove altro ancora? Non lo sapeva ancora il tranquillo professore universitario che quelle otto pallottole rappresentavano non solo, come si diceva allora in Sicilia, un omicidio di tipo «preventivo», quelli che vengono ordinati per eliminare un pericolo imminente. Era anche «dimostrativo », di quegli altri omicidi che servono come monito, che portano sempre una minaccia che raggiunge tutti, omicidi che producono paura. La paura che c’è in questa foto. Prima di andarmene da via Libertà, quel giorno mi sono guardato intorno. A duecento metri avevano ucciso qualche mese prima il capo della squadra mobile Boris Giuliano, a trecento metri il consigliere istruttore Cesare Terranova, a cinquecento metri il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. E, a meno di un chilometro, il nostro bravissimo collega Mario Francese.

(Attilio Bolzoni, link)

I “Mattarella” (secondo Pippo Fava)

da “I cento padroni di Palermo” di Giuseppe Fava (“I Siciliani”, giugno 1983):

Giuseppe Fava
Giuseppe Fava

Ecco: qui diventa perfetta la storia di Piersanti Mattarella, da raccontare tuttavia con umana sincerità affinché ognuno possa capire le cose come veramente accaddero e quindi trarre una ragione, un cifrario per le cose che continuano ad accadere.
Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta.
Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo.
Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene, ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò quanto meno a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità – provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola, le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo.
Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioé gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse), gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato.
Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere.