19a puntata: Io ho paura
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Io ho paura, ma non ho paura di avere paura.
Ho paura di questa sensazione liquida che ti entra nelle ossa più intime, di avere amici che ci pensano prima di girare le chiavi nella macchina. Ho paura di essermici abituato alla paura, di guardare solo per vedere, di ascoltare per sentire, di dovermi tenere da conto questo disturbo cronico viscidamente instabile. Ho paura di essere stato scippato di cosa qualche cosa non so. Ho paura di avere intorno una preoccupazione in divisa e organizzata, ho paura dello sbuffo della porta, ho paura dei respiri se non li vedo in faccia. E ho rabbia, rabbia instabile che mi prende in giro mentre balla la polka braccio sotto il braccio della mia paura. Rabbia per aver perso la paura quella vergine, quella che arriva come un giallo al semaforo freno-frizione prima che sia ancora verde. Ci si abitua a tutto però, chiedete a Pino, chiedete a Rosario, chiedetelo a Sergio, a Roberto, a Carmelo. Ci si abitua a tutto a Mafiopoli. E la paura e la rabbia e quella lingua fredda e continua sulla schiena diventano un neo. E al secondo specchio non lo noti più. Ma ho paura anche di queste facce sempre così sicure, ho paura degli untori certi di verità certa, di quelli che ci raccontano come dovremo fare, cosa dovremo essere, con che camicia coprire il neo. E ho rabbia, per niente sana, per chi ce la racconta la nostra paura, per chi la rivende al mercato delle elezioni, per chi no non è niente, sì in fondo è tutto, è normale , passerà, è una vergogna, grazie prego oppure tornerò o meglio ancora bum bum, alla radio mafiopoli.
C’è una porta che non riesco a scardinare. Ci ho provato con i coltelli e i cacciaviti della penna, poi l’ho presa a calci, con la testa e poi con tutti quei pezzi e barattoli che mi stanno legati da un po’ alla caviglia. Mi sono anche seduto di fianco, al buio, un tubo dietro alla schiena e piangevo e scongiuravo di aprirsi.
E dietro c’è l’arroganza di credere che se non ci riesci tu, dico almeno a scriverla farne uno schizzo un paio di volantini imbevuti di pioggia e colla sui lampioni, ecco allora è la tua paura è un re nudo. Che viene fotografata, scritta e raccontata da uno spigolo, un particolare o al massimo di mezzo riflesso. È un re nudo la mia paura. E la rabbia ci ride per giorni e giorni, questa rabbia che mi calpesta lo stomaco mentre balla la polka.
Il principe e gli elfi che gli tengono il mantello mi hanno sempre detto che non bisogna raccontarla la filastrocca di questa paura nuda con la corona in testa, che con un colpo di stato mi si è insediata nel cervello. Chissà come ridono oggi. Da spanciarsi fino a sporcare il mantello.
Ma oggi chiamo arimo e me la tengo, almeno la paura di avere paura. Di non poterla dire se non hai almeno un capitolo, uno straccio di identikit.
Com’è pornografica la balera nevrotica giù a Mafiopoli, com’è comica questa schizofrenia che si traveste tutte le mattine da sacerdotessa tragica e muta. Com’è alta questa parete da riderci sopra piano e sempre con la bava e la solitudine di una lumaca. Com’è meno musicale, televisiva, da palco o da fine serata di come ce l’hanno impacchettata.
Ecco io oggi vorrei, a Mafiopoli, che nell’assemblea quella sotterranea degli scemi del villaggio, io vorrei che si decidesse di restituirgliela questa paura. Fargliela trovare pelosa nel caffè della mattina, o che gli cammini a otto zampe sulla faccia. A loro che l’hanno sempre vista da dietro, la paura, con l’odore di sparo, colla e benzina. Restituirla un secondo. Come l’acqua nelle scarpe. Perché cari tutti i Totò di Mafiopoli, perché voi non lo sapete ancora che dalla paura non ci si esce né dissociati né pentiti.
Restituirla un secondo per vedere che forma ha da fuori, da lontano, e per pisciarla fuori mentre si ride, si ride alla mafiopolitana.