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Popolo

In Ungheria il populismo non ha più il popolo

Ne parlano poco perché si sa, Viktor Orban dovrebbe essere il modello di autorevolezza a cui qualcuno dalle nostre parti aspira, l’uomo che respinge i migranti senza se e senza ma, colui che secondo alcuni assicura l’ordine nonostante “l’ordine” sia solo il sinonimo marcio della perdita della libertà.

Bene: in Ungheria da giorni protestano lavoratori e sindacati per una legge che alza a 400 ore il tetto di straordinari e che spalmano il pagamento delle ore in più in tre comodi anni per il datore di lavoro. Una legge “del più forte” che è un favore a chi, da imprenditore, può tenere sotto scacco i lavoratori con un ritorno agli anni 60 in tema di diritti. Stupisce? No, per niente.

Tra le riforme contestate tra l’altro c’è anche quella che riguarda la giustizia (ma va?) e che affida al governo il controllo su materie come le gare d’appalto pubbliche e i contenziosi elettorali. Sì, avete letto bene, i contenziosi elettorali.

Sotto l’occhio della protesta sono finiti anche i media pubblici, accusati di essere supini alla volontà di Orban e del suo governo. Anche in questo caso stupisce che ci si stupisca: la libertà di stampa da quelle parti è considerata come libertà di scegliere come assoggettarsi al potere. Nient’altro.

Nei giorni scorsi due deputati del partito d’opposizione LMP, Ákos Hadházy e Bernadett Szél, hanno provato ad entrare nella sede della televisione pubblica per leggere un appello e sono stati buttati fuori dall’edificio con la minaccia di una condanna “a 10 anni”.

Il governo che si vanta di avere chiuso le frontiere ha perso dal 2010 (anno di insediamento di Orban) qualcosa come seicento mila ungheresi espatriati all’estero, in particolare i più istruiti. Le aziende ungheresi intanto (tra cui anche quelle italiane che hanno delocalizzato in nome di un sovranismo che non vale evidentemente dal punto di vista fiscale) hanno seri problemi di manodopera: così il populista Orban ha deciso bene di spremere i lavoratori rimasti. Alla grande, direi.

La vicenda però racconta perfettamente un concetto essenziale: Orban è riuscito a erodere i diritti e le libertà finché i suoi ungheresi potevano avere la tranquillità di un reddito e di un lavoro, tranquilli nella propria quotidianità e addirittura soddisfatta del respingimento dei diritti degli altri, ma alla fine la lenta erosione della libertà arriva inevitabilmente per tutti, sempre. E quando ci si accorge che sta accadendo è quasi sempre già troppo tardi.

Historia magistra vitae, dicevano i latini. Già.

Buon mercoledì.

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/12/19/in-ungheria-il-populismo-non-ha-piu-il-popolo/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’ennesimo governo “non eletto dal popolo”

Non so se qualcuno è sfuggito ma il prossimo governo (se ci sarà, se si riuscirà a formare) sarà l’ennesimo governo “non eletto dal popolo”, “non votato da nessuno”, “deciso nelle segrete stanze”, voluto “dai poteri forti” e figlio di una “forzatura voluta dal Presidente”.

Le frasi virgolettate sono state scritte (così, pari pari) da dirigenti dei partiti che oggi si sono presentati da Mattarella e che fino a poche settimane fa fingevano di non sapere di essere in una Repubblica parlamentare in cui la maggioranza se non esce netta dalle elezioni deve essere trovata in Parlamento.

È importante ricordarselo perché sia che il prossimo governo sia M5S-Lega oppure M5S-PD oppure qualsiasi altra combinazione possibile si ritroverà ad essere espressione diversa da quella uscita dalle urne.

E quindi sarà un “inciucio”, l’ennesimo governo “non eletto dal popolo”, “non votato da nessuno”, “deciso nelle segrete stanze”, voluto “dai poteri forti” e figlio di una “forzatura voluta dal Presidente”, come dissero loro.

Oppure potrebbe succedere che questa volta non se ne lamenti nessuno e allora sarebbe ancora peggio poiché non sarebbe il governo il problema ma piuttosto l’infantile polemica a comando di chi si lamenta delle modalità solo per giustificare la propria assenza.

E per tutti quelli che diranno che servirebbe piuttosto una legge elettorale diversa con un più alto premio di maggioranza vale la pena ricordare che la coalizione che ha preso più voti (e solo dopo il partito che finge di avere vinto ma che è arrivato secondo) non è stata votata da 2/3 degli italiani. E quindi sarebbe un  “inciucio”, l’ennesimo governo “non eletto dal popolo”, “non votato da nessuno”, “deciso nelle segrete stanze”, voluto “dai poteri forti” e figlio di una “forzatura voluta dal Presidente”.

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/04/06/lennesimo-governo-non-eletto-dal-popolo/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La dose giornaliera di rabbia e quegli sputi su una madre

“Ma come si fa”

“Non merita di avere figli”

“Basta buonismo…un bimbo di 16 mesi che aveva tutto il diritto di vivere la propria vita non c’è più…Questa povera creatura chissà quanto avrà pianto prima di spegnersi piano piano…chissà quanto ha sofferto…non esiste dimenticarsi il proprio figlio in macchina…in questi casi dico solo una cosa: ERGASTOLO!!!”

“Chi si dovrebbe vergognare e l’assassina in prima persona. Non meritava di essere madre”

“Era talmente persa tra le sue cose che la bimba era l’ultimo suo pensiero”

“Nessuno vi prega di mettere figli al mondo se poi non riuscite ad occuparvene”

“La (scritto così, senza “h” nda) voluto lei secondo me se aveva un appuntamento dal parrucchiere non se lo dimenticava”

E qualcuno commenta: “brava, l’ho pensato anch’io, magari parlava al telefono”

“Sì magari la signora non si distraeva se non era a bere un caffè con il collega”

Sono solo alcuni dei commenti che sono piovuti dal “tribunale dell’uomo qualunque su facebook” su Ilaria Naldini, la madre che ad Arezzo ha perso la figlia piccola soffocata nella sua auto lasciata sotto al sole. Il tribunale del popolo ha vomitato i suoi insulti: gente che prima di andare a dormire, dopo una giornata di lavoro ha pensato bene di utilizzare un lutto e un dolore come anti stress alla propria giornata. Hanno messo a letto i loro di figli, dato il bacio della buonanotte alla moglie e poi hanno pensato di passare per un secondo sul cadavere di una bambina e sulla ferita di una madre per sputare un po’ di veleno prima di spegnere tutto e mettersi a dormire.

Una dose giornaliera di rabbia e sangue nel moderno Colosseo dei social dove nessuno ti chiede il conto del giudizio di pancia (o anche un po’ più giù) sparato a palle incatenate. A posto così: anche oggi la dose quotidiana di rabbia è stata ingerita. E migliaia di persone continuano a credere che sia un buon sciroppo contro le proprie piccole o grandi disperazioni quotidiane.

 

(continua su Left)

Se scompare il popolo

Al­l’i­ni­zio del de­gra­do ci so­no la cri­si del­la po­li­ti­ca e la ca­ta­stro­fe dei par­ti­ti di mas­sa fra gli an­ni ’80 e i ’90. Le ha aper­to la stra­da, e pro­prio nel­lo spe­ci­fi­co sen­so che stia­mo usan­do, la pre­cor­ri­tri­ce, de­va­stan­te av­ven­tu­ra cra­xia­na. Poi è in­ter­ve­nu­ta, par­ten­do esat­ta­men­te da lì den­tro (an­che in sen­so stret­ta­men­te so­cio­lo­gi­co) e for­nen­do al tem­po stes­so al­la po­pu­la­ce una mi­ria­de di mo­del­li as­so­lu­ta­men­te sim­pa­te­ti­ci e imi­ta­bi­li, la lun­ga fa­se ber­lu­sco­nia­na. In­fi­ne, più re­cen­te­men­te, è so­prav­ve­nu­ta, in ma­nie­ra for­se ina­spet­ta­ta ma non ir­ri­le­van­te, una for­te com­po­nen­te neo-ve­te­ro­fa­sci­sta: il fa­sci­smo, quel­lo au­ten­ti­co, è sem­pre sta­to por­ta­to­re di una di­spo­ni­bi­li­tà cor­rut­ti­va pro­fon­da.
Il ri­sul­ta­to è sta­to de­va­stan­te: il po­po­lo ita­lia­no si è di­sgre­ga­to in una se­rie di fram­men­ti, spes­so con­trap­po­sti fra lo­ro e ognu­no al­la ri­cer­ca del­la pro­pria per­so­na­le, in­di­vi­dua­le e/o set­to­ria­le ri­cer­ca di af­fer­ma­zio­ne, di de­na­ro e di po­te­re (esi­ste an­che una va­rian­te lo­ca­li­sti­ca di ta­le dis­so­lu­zio­ne, gra­vi­da tut­ta­via an­ch’es­sa di fat­to­ri di cor­rut­te­la: il le­ghi­smo ne rap­pre­sen­ta il frut­to e l’in­ter­pre­te più au­ten­ti­co).
Dal­lo spap­po­la­men­to e dal­la scom­po­si­zio­ne del­la “fi­gu­ra po­po­lo”, e di co­lo­ro che per un cer­to pe­rio­do di tem­po ave­va­no più o me­no le­git­ti­ma­men­te pre­te­so di as­su­mer­ne la rap­pre­sen­tan­za, è emer­so un nuo­vo ce­to so­cia­le, il re­si­duo im­mon­do che so­prav­vi­ve quan­do tut­to il re­sto è sta­to di­ge­ri­to e con­su­ma­to. Il ve­ro, gran­de pro­ta­go­ni­sta del­la cor­ru­zio­ne ita­lia­na è que­sto ce­to so­cia­le, una clas­se ti­pi­ca­men­te in­ter­sti­zia­le, frut­to del­lo spap­po­la­men­to o del­l’e­mar­gi­na­zio­ne o del vo­lon­ta­rio mu­ti­smo del­le al­tre, pri­va as­so­lu­ta­men­te di cul­tu­ra e di va­lo­ri, igna­ra di pro­get­to, de­pri­va­ta al­l’o­ri­gi­ne e se­co­lar­men­te di ogni po­te­re, og­gi fa­me­li­ca­men­te al­la ri­cer­ca di un in­den­niz­zo che la ri­sar­ci­sca del­la lun­ga asti­nen­za (ol­tre che i con­si­gli re­gio­na­li riem­pie fre­ne­ti­ca­men­te gli ou­tlet, inon­da le au­to­stra­de di Suv, aspi­ra ad una vi­si­bi­li­tà da ot­te­ne­re con qual­sia­si mez­zo, non te­me per que­sto né il grot­te­sco né l’o­sce­no, par­la una lin­gua che non è più l’i­ta­lia­no ma una sua ba­star­da, ri­di­co­la ca­ri­ca­tu­ra). In­som­ma, co­me in un in­cu­bo not­tur­no il so­gno ber­lu­sco­nia­no ha pre­so cor­po.
Ta­le clas­se, non so­lo pro­mos­sa ma an­che fu­ri­bon­da­men­te cor­teg­gia­ta da al­cu­ni, ma an­che au­to­pro­mos­sa in­nu­me­ro­si al­tri ca­si, ha co­min­cia­to a in­va­de­re la po­li­ti­ca na­zio­na­le, si af­fac­cia qua e là nei grup­pi di­ri­gen­ti di ta­lu­ni par­ti­ti, sie­de or­mai in ab­bon­dan­za nel­le au­le par­la­men­ta­ri. Ma ha pre­so già di­ret­ta­men­te il po­te­re in nu­me­ro­se real­tà re­gio­na­li, sot­to e so­pra la li­nea del­le pal­me, a te­sti­mo­nian­za del fat­to che il fe­no­me­no è ef­fet­ti­va­men­te na­zio­na­le, non lo­ca­le.

Alberto Asor Rosa su Repubblica di oggi.

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