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#preferenzepulite

Tre obiettivi (chiari, semplici, realizzabili) per la cultura

Li scrive in modo chiaro il manifesto del network europeo Culture Action Europe, insieme a più di 150 altre organizzazioni in tutta Europa, per l’Italia. L’ho convintamente sottoscritto perché è perfettamente coerente con il programma di LeU e perché l’argomento (si sa) mi sta a cuore come dovrebbe stare a cuore a tutti. Eccolo qui:

L’obiettivo è dare piena attuazione alla Costituzione italiana e all’Articolo 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo:
“Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”.
Anche a questo fine, è indispensabile approvare, all’avvio dei lavori parlamentari, la legge che rende operativa anche nel nostro Paese la Convenzione di Faro, firmata nell’ormai lontano 2013, tassello fondamentale per il rafforzamento del legame tra partecipazione civica e patrimonio culturale.
Le risorse dovranno essere prioritariamente indirizzate a tre macro-obiettivi da realizzarsi anche tramite la creazione di fondi specifici dedicati:
1. FAVORIRE L’ACCESSIBILITÀ ALLE RISORSE CULTURALI MATERIALI, IMMATERIALI E DIGITALI:
a) Accessibilità culturale
– attività di promozione della lettura, della cultura scientifica e di fruizione delle arti performative e visive;
– maggiore spazio alle tematiche e alle pratiche di carattere scientifico, artistico e creativo nei programmi scolastici;
– attività di conoscenza e fruizione del patrimonio culturale locale materiale e immateriale;
– programmi dedicati alla promozione del dialogo interculturale e a favorire la partecipazione culturale di tutti i cittadini;
– interventi per una piena cittadinanza digitale, contro il digital divide.
b) Accessibilità economico-sociale
– interventi atti a rimuovere le barriere economiche per le persone a basso reddito e in condizioni sociali disagiate;
– provvedimenti di fiscalità agevolata per acquisti di materiali, strumenti, prodotti e per la partecipazione ad attività formative culturali;
– inclusione dell’indicatore di partecipazione culturale, prodotto ogni anno dall’Istat con dettaglio regionale, tra le misure del benessere che, dal 2016, entrano nella Legge di bilancio.
c) Accessibilità fisica, sensoriale e cognitiva
– eliminazione delle barriere di accesso agli spazi e alle risorse culturali;
– promozione dell’accessibilità in autonomia delle persone con disabilità;
– interventi e supporti di mobilità per territori / aree / quartieri a bassa densità di popolazione e / o per persone con difficoltà allo spostamento autonomo.
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2. PROMUOVERE INTERVENTI E FAVORIRE LE CONDIZIONI PER LA CRESCITA DI COMPETENZE, POTENZIALITÀ PROFESSIONALI E OPPORTUNITÀ IMPRENDITORIALI QUALI:
a. istituire un fondo dedicato al sostegno di progetti di impresa culturale, anche in forma di rete, e all’ acquisizione di competenze professionali in specie se innovative da parte degli operatori, delle imprese culturali, degli Enti di Terzo Settore culturali;
b. sostenere le organizzazioni ed enti culturali, anche attraverso interventi di fiscalità di vantaggio, programmi di mobilità e di residenze internazionali, condizioni agevolate a lungo termine per l’utilizzo di spazi pubblici a fini culturali e programmi di sviluppo professionale volti a favorire la crescita della capacità di gestione;
c. inclusione dell’indicatore del tasso di occupazione culturale, prodotto ogni anno dall’Istat con dettaglio regionale, tra le misure del benessere che, dal 2016, entrano nella Legge di bilancio.
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3. GARANTIRE NEI COMUNI FINO AI 10.000 ABITANTI (L’85% DEI COMUNI ITALIANI IN CUI RISIEDONO OLTRE 18 MILIONI DI PERSONE) ALMENO UN “PRESIDIO CULTURALE” APERTO 5 GIORNI LA SETTIMANA PER UN MINIMO DI 25 ORE SETTIMANALI E, CON SPECIFICO RIFERIMENTO ALLA STRATEGIA NAZIONALE AREE INTERNE, LA CONFIGURAZIONE DELLA RETE DEI “PRESIDI CULTURALI” IN TUTTI I COMUNI COINVOLTI.
Questo presidio potrebbe essere finanziato mediante un fondo speciale, gestito anche attraverso forme associative di Comuni in collaborazione con l’ANCI e potrebbe fornire i seguenti servizi:
a. le condizioni base di accesso alle risorse culturali: funzioni di prestito e accesso alla lettura, book crossing, collegamento a banda larga, almeno due terminali riservati all’uso pubblico;
b. punto di informazione turistica per i non residenti;
c. uno spazio adeguato ad ospitare le funzioni di cui sopra, riunioni, co-working, attività di spettacolo, aggregazione e, laddove possibile, eventuali altri servizi pubblici.
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Per realizzare gli interventi indicati, è necessario potenziare gli enti e gli uffici pubblici, a livello centrale e periferico, e favorire forme di partenariato pubblico-privato così come previsto dal Codice dei contratti pubblici, con particolare attenzione alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale diffuso.
CHIEDIAMO AI CANDIDATI DI TUTTE LE FORZE POLITICHE DI ADERIRE AL NOSTRO MANIFESTO E, SE ELETTI, DI SOSTENERE GLI INTERVENTI SOPRAINDICATI IN TUTTE LE SEDI DELL’ATTIVITÀ PARLAMENTARE.
Da parte nostra ci impegniamo a monitorare il conseguimento degli obiettivi e a darne ampia risonanza con tutti gli strumenti a nostra disposizione.

(fonte)

Perché cadono i cavalcavia? Ecco: operazione “Chaos”, i nomi, i fatti e le facce.

VIBO VALENTIA Dalle prime ore di questa mattina militari del Comando provinciale della Guardia di finanza di Vibo Valentia stanno eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della Procura della Repubblica di Vibo, nei confronti di nove persone indagate, a vario titolo, per i reati di frode in pubbliche forniture, truffa aggravata ai danni di ente pubblico, attentato alla sicurezza dei trasporti, abuso d’ufficio e falso ideologico in atto pubblico.
Il provvedimento, secondo quanto riferisce la Guardia di finanza, riguarda imprenditori e funzionari pubblici e scaturisce da indagini su irregolarità nella gestione di lavori di ammodernamento di un tratto dell’autostrada Salerno Reggio Calabria. Sono in corso anche operazioni di sequestro preventivo di beni per un valore di quasi 13 milioni di euro a carico di imprese e dei loro rappresentanti legali coinvolti nelle indagini. Le imprese oggetto dell’inchiesta sono destinatarie, inoltre, di una misura interdittiva disposta dal gip, che vieta ai loro titolari per un anno di stipulare contratti con qualsiasi pubblica amministrazione.
Ci sono anche cinque funzionari dell’Anas tra le 9 persone arrestate dai finanzieri del Comando provinciale di Vibo Valentia nell’ambito dell’ operazione “Chaos” su presunti illeciti nei lavori di ammodernamento del tratto tra Mileto e Rosarno dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Gli arresti sono stati fatti in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip di Vibo Valentia su richiesta della Procura della Repubblica diretta da Bruno Giordano. Per i cinque funzionari dell’Anas sono stati disposti gli arresti domiciliari, mentre gli altri quattro arrestati, tutti imprenditori affidatari dei lavori di ammodernamento oggetto dell’inchiesta, sono stati portati in carcere.

I NOMI DEGLI ARRESTATI In carcere sono finiti: Gregorio Cavalleri, 66 anni, imprenditore, residente a Dalmine (Bergamo), titolare dell’omonima ditta; Domenico Gallo, 61 anni, imprenditore, di Bovalino (Rc); Vincenzo Musarra (64), rappresentante legale ditta Cavalleri, di Verdello (Bg); Carla Rota (55), responsabile amministrativa della ditta Cavalleri, di Almè (Bg). Arresti domiciliari per Vincenzo De Vita (45), direttore operativo «qualità materiali», residente a Tropea; Giovanni Fiordaliso (47), direttore dei lavori sul tratto di autostrada interessato dall’inchiesta, di Reggio Calabria; Salvatore Bruni (41), direttore operativo-contabile, di Catanzaro; Consolato Cutrupi, 46 anni, funzionario Anas, Rup dei lavori, di Reggio Calabria; Antonino Croce, 37 anni, geometra, ispettore di cantiere, di Palermo. Misure interdittive per le aziende “Cavalleri Ottavio Spa”, Cavalleri Infrastrutture Srl e Vgf Unipersonale Srl.
Secondo l’accusa, nel tratto autostradale fra gli svincoli di Serre e Mileto sarebbe stata messa in piedi una truffa attraverso una serie di falsi ideologici riguardante sia il materiale usato per i lavori sia i mancati controlli.

OPERE A RISCHIO CROLLO L’operazione rappresenta lo sviluppo dell’indagine che, nel maggio dello scorso anno, ha portato al sequestro preventivo del tratto autostradale interessato e di aree e strade provinciali limitrofe interessate da un serio rischio idraulico e idrogeologico, mai considerato in nessuna fase di progettazione, con conseguente configurabilità del reato di crollo e disastro doloso, nonché al sequestro di somme di denaro per oltre 400mila euro, corrispondenti all’illecito profitto dei reati di truffa e falso commessi dalle imprese esecutrici dei lavori attraverso la formazione di documentazione che attestava falsamente l’avvenuto smaltimento di rifiuti speciali di lavorazione in realtà mai avvenuto. Dalle indagini sull’esecuzione dei lavori di ammodernamento affidati in appalto dall’Anas per un importo di circa 61 milioni di euro, coordinate dal sostituto procuratore Benedetta Callea, è emerso, secondo quanto riferisce la Guardia di finanza, un quadro di diffuse irregolarità riguardanti vari episodi di truffa e frodi nelle pubbliche forniture; false certificazioni di lavori mai eseguiti o eseguiti solo in parte oppure in grave difformità rispetto alle previsioni contrattuali; alterazioni della contabilità lavori ed omissioni, da parte degli organi della Stazione appaltante, di verifiche e controlli.
Le indagini hanno fatto emergere anche l’esecuzione di opere potenzialmente pericolose per la sicurezza pubblica. Agli indagati, che sono complessivamente 15, vengono contestate, a vario titolo, le ipotesi di reato di truffa aggravata ai danni di ente pubblico, frode nelle pubbliche forniture, falso ideologico in atto pubblico, attentato alla sicurezza dei trasporti ed abuso d’ufficio.

(fonte)

Nel merito. Referendum: approvate che lo stato sia tutto, le regioni niente e che uno solo decida la guerra?

(Di Raniero Valle)

Per parlare di una nuova Costituzione, che investe il presente e il futuro, è bene partire dai fatti del giorno.

Il primo di questi fatti è che il 18 ottobre l’UNESCO ha approvato una risoluzione che invita Israele a rispettare i diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma che ha il torto di chiamare la Spianata delle Moschee col suo nome arabo, ignorando la sua definizione ebraica come Monte del Tempio. Ciò ha provocato polemiche che dovevano avere degli sviluppi nei giorni successivi. Il più vistoso è stato che Renzi ha sconfessato il suo ministro degli esteri e ha definito “allucinante” il voto che l’Italia ha dato astenendosi su quella mozione. Di per sé una questione di denominazione non dovrebbe essere un casus belli, ma il fatto politico è il rovesciamento della politica italiana di neutralità attiva tra Israele e palestinesi, che risale a Moro e ad Andreotti. Ora Renzi nel conflitto fa una scelta a favore di Israele, cioè fa una scelta di campo, e la fa come se fosse scontata, come se l’Occidente a cui apparteniamo non fosse che un grande Israele.  E questo è un cambiamento della figura stessa dell’Italia, però non discusso e non deciso da nessuno; decide il primo ministro, e il suo stesso ministero degli esteri è preso in contropiede.

L’altra notizia da cui partire per il nostro discorso è che il 14 ottobre è stato eletto il nuovo Padre generale della Compagnia di Gesù, il venezuelano Arturo Sosa, che il giorno successivo, nella messa di ringraziamento, ha detto che dobbiamo avere l’audacia di intraprendere “l’improbabile e l’impossibile”. E la cosa che oggi sembra impossibile, per quanto sia necessaria, è di fare “una Umanità riconciliata nella giustizia, che vive in pace in una casa comune ben curata, dove c’è posto per tutti”.

Purtroppo siamo in una situazione opposta. Quello che dobbiamo fare, ha detto ancora il generale dei Gesuiti, è “pensare per capire in profondità il momento della storia umana che viviamo” e operare “per superare la povertà, la ineguaglianza e l’oppressione”.

Dunque, pensare la storia, dice la Compagnia di Gesù.

Ebbene, non c’è bisogno di essere cattolici per dire che nel momento in cui noi facciamo una nuova Costituzione che dovrebbe essere la nostra Regola per decenni, dovremmo misurarla con questi grandi temi che investono in profondità la nostra vita, e non con piccole cose come il numero dei senatori o il falso problema del ping pong tra Camera e Senato.

Un mondo in guerra

Vediamo allora la situazione in cui siamo e il modo in cui la nuova Costituzione vi risponde.

Siamo in una situazione di “guerra mondiale a pezzi”, come dice il papa, e ora siamo a rischio di una grande guerra su più continenti. A Mosul, l’antica Ninive, è cominciata la decisiva battaglia contro l’ISIS, che si difende in modo atroce, uccidendo e bruciando. Secondo l’UNICEF ci sono di mezzo cinquecentomila minori. Stati Uniti e Russia si fronteggiano militarmente in Siria. Aleppo è divisa in due, come Berlino. Solo che a differenza di quanto accadeva a Berlino, Aleppo ovest bombarda Aleppo est, e Aleppo est bombarda Aleppo ovest. Da una parte c’è Assad, con la Russia che lo difende, dall’altra ci sono i terroristi “moderati”, con gli Stati Uniti che li sostengono. Il vescovo cattolico maronita di  Aleppo, mons. Joseph Tobji, è venuto il 4 ottobre alla Commissione Esteri del Senato italiano, per far arrivare un grido all’Occidente. Ha detto che non c’è solo la sciagura di Aleppo est, tenuta dai governativi, di cui parlano tutti i giornali; anche Aleppo ovest è devastata, la popolazione è stremata, senza acqua né cibo né luce; ospedali e chiese cristiane sono distrutti, gran parte della popolazione della città, che ammontava a 4 milioni di persone, è profuga. Le guerre provocano le grandi fughe, le cui ondate arrivano in Europa che, illudendosi di chiudere le porte, si suicida.

Il vescovo di Aleppo dice: “siamo giocattoli in mano dei Grandi”, che si fanno la guerra per procura. La guerra è cominciata nel 2013 – ha detto – “sotto la minaccia di morte degli Stati Uniti”. Come si ricorderà nel settembre 2013 la guerra alla Siria, che era già pronta a partire, fu sventata da papa Francesco con la grande veglia di preghiera in piazza san Pietro. L’Occidente voleva il controllo della Siria e liquidare Assad, come aveva fatto in Iraq con Saddam Hussein, in Libia con Gheddafi, in Afghanistan con Bin Laden. Ma questa volta la guerra non la poté fare.  Allora essa fu intrapresa dai ribelli anti-Assad, chiamati liberatori e sostenuti e armati dagli Stati Uniti. Era prevedibile che dall’altra parte intervenisse la Russia, se voleva continuare ad avere quel ruolo mondiale che, nella miope percezione americana, essa aveva ormai perduto. Ed infatti la Russia di Putin è intervenuta con la sua forza politica, e con i suoi aerei e soldati. Se ora Russia e Stati Uniti negoziano un armistizio a Losanna, vuol dire che la guerra è tra loro.

Come se non bastasse, dopo la fine dei blocchi la NATO si è allargata ad includere i Paesi che avevano fatto parte del Patto di Varsavia, e addirittura i Paesi baltici che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica, avanzando le sue basi fino ai confini della Russia: come ha detto Sergio Romano, che è stato ambasciatore a Mosca e alla NATO, questo è stato un errore, e non poteva essere vissuto dalla Russia che come un atto ostile. Poi, dopo l’intervento russo in Crimea e la crisi in Ucraina, l’Occidente ha imposto le sanzioni al Cremlino. Ora ha deciso di fare nel 2017 delle esercitazioni militari in Lettonia ai confini della Russia, e anche l’Italia manderà un corpo di spedizione di 150 uomini, come fece Cavour in Crimea. L’altro giorno da Washington è stato preannunciato un attacco cibernetico alla Russia. E Putin ha detto: attenti, state scherzando col fuoco.

Dunque oggi una guerra tra le grandi Potenze è tornata ad essere una possibilità reale.

Ora è evidente che questa guerra non ci riguarda, perché come sta scritto nella prima parte della Costituzione che ancora formalmente è in vigore, l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali; e tutte le guerre oggi in atto o minacciate appartengono a questo tipo di guerra che l’Italia rifiuta.

Allora la domanda è se la nuova Costituzione garantisce che non partecipiamo a guerre che ci sono estranee, o se invece rimuove gli ostacoli e apre la strada a un nostro coinvolgimento nelle guerre presenti e future.

Ebbene, è proprio la seconda cosa che accade; di fatto il popolo non avrà più alcuna garanzia costituzionale di non essere trascinato in una guerra non sua.

Poi ci sarà un don Milani che lo denuncerà, ma sarà troppo tardi.

Vediamo dunque la nuova Costituzione renziana. Riguardo alla guerra c’è un’innovazione esplicita e dichiarata, e ci sono delle innovazioni implicite e non dette che però travolgono tutte le garanzie.

L’innovazione esplicita è che il Senato, il quale non è affatto abolito, secondo l’articolo 78 della nuova Costituzione è escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e al conferimento al governo dei relativi poteri, deliberazione che invece è riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché secondo la riforma il Senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali, dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti dalla guerra; ed è molto strano anche perché secondo la riforma il Senato dovrebbe funzionare come raccordo con l’Unione Europea, dovrebbe partecipare alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea; inoltre dovrebbe valutare le politiche pubbliche all’interno e l’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori. Dunque dovrebbe mettere becco su tutto ma non sulla guerra, e dovrebbe avere un peso determinante nel rapporto con gli Stati europei, ma non avrebbe alcun potere nella decisione più importante riguardante il rapporto con tutti gli Stati, europei e non europei, che è precisamente la decisione sulla guerra.

Il Senato, una testa di turco

Questo dimostra quale era la vera intenzione dei riformatori riguardo al Senato. Il Senato è la vera testa di turco della riforma ed è la cartina di tornasole che rivela il discrimine tra ciò che è falso e ciò che è vero nella riforma che ci viene proposta.

E’ falso l’argomento che il Senato venga riformato perché Camera e Senato oggi fanno la stessa cosa, sicché uno dei due sarebbe inutile. Anche il Tribunale e la Corte d’Appello fanno la stessa cosa, fanno gli stessi processi, ma non è affatto inutile che la libertà dei cittadini sia tutelata da due gradi di giudizio. Anche la polizia e i carabinieri fanno la stessa cosa, ma non è affatto inutile che se un colpo di Stato lo fanno i carabinieri, la polizia glielo possa impedire, o viceversa. Le Costituzioni democratiche sono lì proprio perché, quando si tratta del potere, le cose possano essere viste da due parti diverse.

E’ falso che il Senato venga riformato per valorizzare le Regioni e le autonomie locali. Anzi proprio nel momento in cui si fa finta di fare un Senato delle autonomie, la scelta autonomistica viene rovesciata, potremmo dire ripudiata.

Infatti si passa dal regionalismo della Costituzione del ’48 al centralismo statale, in base alla ideologia che tutto è dello Stato, e nulla al di fuori dello Stato. Non si tratta solo di una diversa ripartizione di competenze tra le regioni e lo Stato; in questo quadro, come dicono giustamente i fautori del Sì, una correzione rispetto a una eccessiva varietà di normative (ad esempio riguardo al turismo e al commercio estero) era necessaria. Si tratta invece del fatto che mentre nella Costituzione vigente, all’art. 117, si prevede che alle regioni spetti la potestà legislativa sulla generalità delle materie, tranne quelle espressamente attribuite allo Stato, e quelle di competenza comune, nella riforma  – abolita la legislazione concorrente – c’è un’invadente esclusiva competenza legislativa dello Stato, di cui alcuni residui sono lasciati alle Regioni. Ma si tratta soprattutto di leggi di ordine organizzativo e promozionale (come ad esempio la “promozione”, ma non la tutela e la valorizzazione, dell’ambiente e dei beni culturali). Nulla si toglie invece ai privilegi delle Regioni a statuto speciale (che potranno essere modificati solo d’accordo con le Regioni stesse), mentre altri frammenti di autonomia potranno essere gentilmente concessi per legge dallo Stato a qualche Regione meritevole o più ricca, dotata di bilanci virtuosi, in seguito a specifiche trattative ed intese tra quella Regione e lo Stato. Per esempio si dovrà vedere se la Regione Puglia, che ha fatto una legge per attribuire un “reddito di dignità” ai non abbienti, per poterlo fare anche in futuro, a norma dell’art. 116, 3 comma dovrà chiedere allo Stato che glielo conceda per legge, sempre che dimostri di essere “in condizioni di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. In ogni caso, sia nella legislazione che nel sostituirsi agli organi degli enti locali, a norma dell’art. 120, il governo può avvalersi della “clausola di supremazia” in nome dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. In sostanza mentre si rottama il Senato, per gabellarlo come Senato delle autonomie, le autonomie non ci sono più, ed è perciò che si dice che il Senato si riunirà per poche ore al mese; e dunque si passa dalla forma di Stato articolato in Regioni,  che in un recente dibattito televisivo Luciano Violante ha definito come un “policentrismo anarchico” al ristabilimento della supremazia dello Stato e della sua piena sovranità rispetto agli enti territoriali. Ma la forma di Stato è anche la forma della democrazia. E l’alternativa di società fatta di “formazioni sociali” e di autonomie che sta scritta nella prima parte della Costituzione, fu scelta dal costituente del 1947 come antidoto a quella che è stata chiamata “la sindrome del tiranno”.

Resta allora che i veri obiettivi della riforma del Senato erano due: il primo, quello di togliere al governo il fastidio di dover ottenere la fiducia di due Camere; il secondo, quello di sterilizzare il Senato e le comunità territoriali che esso dovrebbe rappresentare, rispetto alle decisioni supreme relative alla pace e alla guerra.

Quali garanzie contro guerre inconsulte?

Venuta meno la doppia garanzia di una conforme decisione di Camera e Senato sulla deliberazione dello stato di guerra, si potrebbe pensare però che l’ostacolo a guerre inconsulte sarebbe rappresentato da quanto previsto, e non formalmente abrogato, nella prima parte e segnatamente nell’art. 11 della Costituzione.

Ma purtroppo così non è, perché di fatto quel limite all’ingresso dell’Italia in guerre non sue è stato cancellato e poi superato dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. Fino a quel momento, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione, l’unica guerra ammissibile, l’unica guerra in cui legittimamente l’Italia potesse e dovesse combattere, era quella corrispondente al “sacro dovere” – come lo definisce l’art. 52 – della difesa della Patria. E per difesa della Patria si intendeva la difesa del popolo e del territorio, tant’è vero che l’esercito era schierato sulla soglia di Gorizia  per far fronte ai famosi cosacchi che dovevano venire dall’Est.  Ma nel 1991 l’Italia sdoganò la guerra partecipando alla prima guerra del Golfo contro l’Iraq. E il 26 novembre 1991,  come ho raccontato in un recente discorso a Messina, il governo venne da noi in Parlamento e presentò alla Commissione Difesa alla Camera (di cui facevo parte) un Nuovo Modello di Difesa in cui la guerra tornava a essere legittimata e la difesa non era più identificata con la difesa dei sacri confini della Patria, ma con la tutela degli interessi anche economici e produttivi dell’Italia dovunque essi fossero in gioco; a tale  scopo veniva potenziato un esercito professionale ristrutturato come Forza di intervento rapido e di proiezione di potenza e più tardi lo stesso servizio obbligatorio di leva veniva lasciato cadere. In più si provvedeva alla sostituzione del nemico, che non essendo più quello sovietico veniva individuato nell’Islam secondo il modello del conflitto divenuto ormai permanente tra Israele e mondo arabo.

Il Modello di Difesa non venne mai discusso né approvato dal Parlamento, ma venne di fatto tradotto nella legislazione sulle Forze Armate, nei bilanci della difesa e nelle scelte dei governi. Venuto meno il limite stabilito dalla Costituzione, la decisione sulle guerre da fare veniva di fatto affidata ai governi, e i loro primi ministri ne fecero largamente uso. Addirittura l’Italia partecipò ad una nuova guerra in Europa contro la Jugoslavia e il presidente D’Alema teorizzò il valore politico di quella scelta interpretandola come una espressione necessaria della politica estera dell’Italia e del suo contare nel mondo.

Poiché un’analoga concezione della difesa e dell’uso delle forze armate è stata nello stesso tempo adottata dalla NATO e da tutto l’Occidente, tutto ciò che ne è seguito, ivi compreso il terrorismo, la catastrofe delle Due Torri, il parto cruento dello Stato islamico, lo scontro con l’Islam, i soldati italiani in Libia e a Mosul, e ora la sfida alla Russia, sono conseguenze di quella scelta.

Si direbbe che l’Occidente il cui sistema economico e politico è entrato in una profonda crisi essendosi mostrato incompatibile con l’ordine del mondo, cerchi nell’incremento delle armi, nell’estensione del dominio e nella disseminazione delle guerre una risposta alla sua angoscia riguardo al futuro; ed è come se noi dovessimo partecipare a tutte le guerre di un capitalismo sfrenato, invece che operare, come dice il generale dei Gesuiti, “per superare la povertà, l’ineguaglianza e l’oppressione”.

In questa situazione, in cui si accentua la discrezionalità dei governi, diventa molto pericoloso che non si possano esprimere le voci dei popoli e che le decisioni possano essere prese da capi politici dai poteri incondizionati e liberi da controlli e garanzie.

Questa è la ragione per cui una Costituzione che tende ad assicurare una governabilità insindacabile per cinque anni e a ridurre il controllo del Parlamento sul  capo politico di turno, mentre si stende come un’ombra l’ipoteca dei grandi poteri militari e finanziari mondiali, sguarnisce i popoli di ogni difesa contro inconsulte decisioni di guerra. Nel caso italiano il nuovo sistema costituzionale risultante dal combinato disposto della Costituzione riformata e della legge elettorale maggioritaria, istituisce una nuova forma di governo che è stata chiamata in dottrina una “forma di governo di legislatura a vertice monocratico elettivo” . Questo modello, costruito sulla formula del “Sindaco d’Italia”, ormai al di fuori della forma della democrazia parlamentare,  finisce per attribuire al primo ministro un solitario potere di decidere tra la pace e la guerra. Il fatto che per la sua sussistenza, mediante la fiducia, il governo dipenda solo dalla Camera e che la maggioranza assoluta dei deputati, pur necessaria per la deliberazione dello stato di guerra, sia rappresentata da parlamentari di un solo partito, per di più scelti dallo stesso primo ministro e non eletti dal popolo, fa sì che nella situazione di massimo pericolo in cui il mondo è oggi precipitato il rischio di essere  portati verso una guerra, mentre giornali, televisioni e commentatori politici parlano d’altro, è molto elevato.

Basta ricordare che la decisione di muovere la guerra alla Turchia e di invadere la Libia, che fu l’inizio del lungo conflitto, che si ripete ancor oggi, fra l’Italia e l’Islam, nel settembre del 1911 fu decisa dal solo Giolitti, che se ne stava a Dronero, mentre il Re era in vacanza a San Rossore e il Parlamento era chiuso per ferie. Il problema è che il mondo di oggi è molto più pericoloso di quello di allora, ci sono le armi atomiche e i nuovi califfi, islamici o no, non sono affatto al tramonto come lo era allora il potere dell’Impero ottomano.

Facciamo questo discorso in un momento particolarmente delicato perché dobbiamo registrare il fallimento sul piano internazionale della presidenza di Obama. Voleva fare un mondo senza guerre, e lascia un mondo più frantumato e in guerra di prima. E ciò proprio per le politiche sbagliate degli Stati Uniti che hanno un’innata tendenza al dominio che passa da un’amministrazione a un’altra: essa fu formalizzata, all’inizio del 2000, nella scelta dell’obiettivo di “un nuovo secolo americano” a cui erano finalizzate le politiche di riarmo e di egemonia adottate nella cosiddetta nuova “Strategia della sicurezza nazionale”. La devastazione dell’America Latina, il braccio di ferro con la Russia, e soprattutto la spinta al dominio del mondo arabo nel Medio Oriente ne sono dei capitoli. E’ possibile che questa spinta verso un mondo e un tempo “americani”– caduti i tentennamenti di Obama – continui nella presidenza di Hillary Clinton (esorcizzato il fantasma di Trump), e che l’America sia portata a fare tutte le guerre del capitalismo in armi. Ed è solo grazie al papa che queste guerre non potranno più essere definite come guerre sante o di civiltà. Sono guerre e basta.

E qui si vede il pericolo di una totale dipendenza dei primi ministri italiani dal presidente americano, come quella manifestata ed enfatizzata da Renzi alla Casa Bianca,  perché vuol dire che l’Italia sarà chiamata a fare tutte le guerre che l’America deciderà di fare o vorrà che siano fatte. Ciò rende Obama uno sponsor non troppo affidabile del SI al referendum costituzionale. Anzi l’endorsement di Obama è un ottimo indicatore: proprio perché l’America dice di Sì, forse l’Italia dovrebbe dire di No.

(*) Pubblichiamo il quarto discorso di Raniero La Valle su “La verità del referendum”, tenuto alle Comunità parrocchiali di Bitonto nell’Auditorium dei Santi Medici Cosma e Damiano,il 19 ottobre, e al Circolo Arci Rinascita di Sesto Fiorentino, il 22 ottobre 2016. (fonte)

Il figlio di Provenzano si inventa cicerone della mafia per i turisti. Che schifo.

ALTRI02FLASHA_3306450F1_3026_20121204213214_HE10_20121205Un singolare tour turistico. Da mesi decine di turisti americani incontrano settimanalmente il figlio del capomafia Bernardo Provenzano, Angelo. I meeting avvengono durante la tappa palermitana di un viaggio organizzato da un tour operator di Boston. Nel corso degli incontri Angelo Provenzano, 39 anni, racconta ai turisti la sua vita e il rapporto col padre, Bernardo, celebre capo dei capi di Cosa Nostra.

Gli interventi sono preceduti da una breve introduzione sulla storia della mafia fatta da uno degli organizzatori. Dopo una prima fase «sperimentale» gli incontri sono diventati tappa fissa del tour: enorme l’interesse suscitato nei turisti dai racconti del primogenito del boss. Al termine dei meeting gli «spettatori» – generalmente professionisti e intellettuali che arrivano da ogni parte degli Stati Uniti – rivolgono a Provenzano una serie di domande sulla figura del padre, ma anche sulle difficoltà che nascono dal portare un cognome tanto «ingombrante». Gli incontri sono partiti a settembre scorso e nel periodo estivo, quello di maggiore flusso turistico, arriveranno a due a settimana.

(fonte)

#preferenzepulite si riparte per un’ecologia del voto

Addiopizzostickerconsenso-300x225La nostra campagna #preferenzepulite lanciata da me e Pippo Civati per le scorse amministrative aveva fatto discutere, analizzare e ottenere risultati inaspettati (ad esempio qui e qui).

Scrivevamo:

Nelle ultime elezioni amministrative la criminalità organizzata ha avuto gioco facile nell’eleggere un consigliere all’interno delle istituzioni a cui fare riferimento e su cui esercitare le proprie pressioni. I dati elettorali degli ultimi anni indicano chiaramente come bastino qualche decina di voti per entrare nei consigli comunali di città importanti per dimensione, posizione e attività sul territorio. Ne parla spesso anche Nando Dalla Chiesa nel suo decalogo antimafia e le ultime operazioni contro le mafie (anche in Lombardia) hanno stilato l’elenco dei nomi e dei cognomi.

Se ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra utilizzano lo strumento del voto di preferenza meglio e più consapevoli della stragrande parte degli elettori il problema non è solo politico: è un problema di cittadinanza praticata troppo poco. Se le mafie dimostrano di conoscere gli strumenti democratici e di utilizzarli a proprio vantaggio significa che anche su questo punto noi dobbiamo provare ad essere più vivi. Il “porcellum mafioso” è garantito dagli argini troppo bassi.

Per questo chiediamo in questi ultimi giorni di campagna elettorale che i candidati sindaci, la stampa, i partiti, la rete e la società civile alzino la voce sull’uso responsabile della preferenza da esprimere nel seggio. Indicare un cognome di cui fidarsi e a cui affidarsi non è solo il modo per non delegare solo alla coalizione l’attenzione per i punti di programma e avere una persona di riferimento; dare il voto di preferenza significa alzare l’argine contro le mafie per rendere più difficile la loro gestione del consenso.

Votate. E date una preferenza.

Su twitter #preferenzepulite

Giulio Cavalli e Pippo Civati

In Lombardia dove l’assessore Zambetti alle ultime elezioni del 2010 ha comprato voti dalla ‘ndrangheta forse è il caso di ripartire subito. Insieme. Davvero.

#preferenzepulite ne uccide più la matita

Francesco rilancia la campagna #preferenzepulite sul suo blog.

Quindi non c’è bisogno di essere eroi, non c’è bisogno di andare in piazza né di chissà quale gesto eclatante, per mettere i bastoni tra le ruote alla mafia: basta chiudersi nella cabina elettorale, e oltre a segnare la X sul simbolo che vi piace, indicare anche una preferenza, scrivendo il nome di uno dei candidati. Se ce n’è uno che è di vostra fiducia, ancora meglio. Altrimenti le liste con i nomi sono appese fuori ciascun seggio, basta scegliere.
Il voto mafioso esiste al Nord, come al centro e come al Sud.
Più preferenze “pulite” vuol dire che le preferenze pilotate dalla mafia varranno meno e non sarà così facile per loro piazzare i loro faccendieri nei comuni.
La cosa importante è che lo sappiano in tanti, perché il meccanismo è sì semplice, ma anche poco conosciuto.
La mafia si muove tanto bene, dove gli altri non guardano.

#preferenzepulite per Articolo21

pubblicato su Articolo21

C’è un porcellum più odioso di qualsiasi alchimia elettorale dei partiti o tecnici di governo che arrancano per preservarsi. E’ una dinamica elettorale odiosa perché cresce sulla disattenzione degli onesti e lascia praterie da percorrere da indisturbati a pezzi di criminalità organizzata. L’utilizzo del voto di preferenza è il modo democratico per dichiarare che quella persona, quel nome e cognome, è il portatore dei nostri interessi leciti. E’ passato questo concetto? Tra i siti di informazione, i giornali, i blog ci siamo preso la responsabilità di dichiarare con forza che la lobby degli interessi leciti è obbligatoria per una cittadino utile alla democrazia? Perché negli ultimi anni ci siamo stupiti per i successi elettorali di uomini vicini alla criminalità organizzata e non ne abbiamo studiato le cause? Le mafie negli ultimi anni hanno utilizzato la convergenza sulle preferenze per avere la certezza di un proprio uomo all’interno delle istituzioni. Hanno vinto non solo sul piano dell’illegalità ma anche (e soprattutto) sulla consapevolezza e la conoscenza dei meccanismi politici. Noi non siamo stati abbastanza vivi: non abbiamo raccontato, analizzato, spiegato, alzato la voce. Per questo io e Pippo Civati chiediamo a voi (e a noi) di sfruttare le prossime amministrative per recuperare il tempo perso. La campagna #preferenzepulite è un memorandum per tutti: scegliete il vostro sindaco, la vostra coalizione ma presidiate anche il consiglio comunale scegliendo il vostro consigliere. Più si alza la soglia numerica di preferenze per entrare in Consiglio Comunale e più le mafie saranno disturbate nei loro uomini. E poi, in fondo, ogni volta che si sfrutta una possibilità di esprimere un voto, vince la Costituzione e la Democrazia.  Nelle ultime elezioni amministrative la criminalità organizzata ha avuto gioco facile nell’eleggere un consigliere all’interno delle istituzioni a cui fare riferimento e su cui esercitare le proprie pressioni. I dati elettorali degli ultimi anni indicano chiaramente come bastino qualche decina di voti per entrare nei consigli comunali di città importanti per dimensione, posizione e attività sul territorio. Ne parla spesso anche Nando Dalla Chiesanel suo decalogo antimafia e le ultime operazioni contro le mafie (anche in Lombardia) hanno stilato l’elenco dei nomi e dei cognomi.  Se ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra utilizzano lo strumento del voto di preferenza meglio e più consapevoli della stragrande parte degli elettori il problema non è solo politico: è un problema di cittadinanza praticata troppo poco. Se le mafie dimostrano di conoscere gli strumenti democratici e di utilizzarli a proprio vantaggio significa che anche su questo punto noi dobbiamo provare ad essere più vivi. Il “porcellum mafioso” è garantito dagli argini troppo bassi.  Per questo chiediamo in questi ultimi giorni di campagna elettorale che i candidati sindaci, la stampa, i partiti, la rete e la società civile alzino la voce sull’uso responsabile della preferenza da esprimere nel seggio. Indicare un cognome di cui fidarsi e a cui affidarsi non è solo il modo per non delegare solo alla coalizione l’attenzione per i punti di programma e avere una persona di riferimento; dare il voto di preferenza significa alzare l’argine contro le mafie per rendere più difficile la loro gestione del consenso.

Votate. E date una preferenza.

Su twitter #preferenzepulite

Il Fatto Quotidiano sulla campagna #preferenzepulite

Lombardia, appello alle “preferenze pulite” contro il voto mafioso

A pochi giorni dalle elezioni amministrative, i consiglieri regionali Civati (Pd) e Cavalli (Sel) esortano i cittadini a sostenere i propri candidati. Per contrastare il consenso organizzato della criminalità. Gratteri: “La ‘ndrangheta fa politica al nord da decenni”

In Lombardia pochi cittadini esprimono preferenze nel voto amministrativo, mentre i gruppi mafiosi concentrano efficacemente il loro consenso sui candidati “amici”. Così due consiglieri regionali,Giuseppe Civati del Pd e Giulio Cavalli di Sel, in vista delle elezioni di maggio lanciano la campagna “Preferenze pulite” (anche su twitter) e invitano i cittadini a indicare sulla scheda “un cognome di cui fidarsi e a cui affidarsi”. Facendo propria una battaglia lanciata da Nando dalla Chiesa, che nel “decalogo antimafia” illustrato nel suo libro La convergenza mette al punto 8 “Spendi il tuo voto”. Perché, scrive il sociologo, “la mafia cede i suoi pacchetti di voti ai candidati in cambio naturalmente di favori, senza distinzione di partito, anzi in tutti i partiti. Così noi dobbiamo utilizzare il nostro voto in funzione antimafia”.

Il ragionamento parte dai numeri: nei piccoli centri possono bastare poche decine di voti per piazzare il proprio uomo in consiglio comunale, che poi tornerà utile quando si discuteranno appalti, licenze edilizie e altri potenziali business. Basti a pensare che in una grande metropoli come Milano l’ultimo degli eletti siede in consiglio con 461 voti. Il “porcellum mafioso”, insomma, “è garantito dagli argini troppo bassi”. Da qui l’appello perché “i candidati sindaci, la stampa, i partiti, la rete e la società civile alzino la voce sull’uso responsabile della preferenza da esprimere nel seggio”.

Anche a Milano “nelle ultime elezioni amministrative la criminalità organizzata ha avuto gioco facile nell’eleggere un consigliere all’interno delle istituzioni a cui fare riferimento e su cui esercitare le proprie pressioni”, affermano Civati e Cavalli in un comunicato. Nomi e cognomi “stanno nelle ultime operazioni contro le mafie”. E sono tanti. Per lo più non indagati, ma colti dagli investigatori in stretti rapporti con i boss. Per esempio Armando Vagliati, consigliere comunale del Pdl in assiduo contatto con Giulio Lampada, finito in carcere per associazione mafiosa. O quelli citati nelle fitte telefonate nelle quali Carlo Chiriaco, direttore dell’Asl di Pavia oggi sotto processo a Milano per concorso esterno, discuteva su quali cavalli puntare i voti a disposizione di presunti boss “lombardi” come Pino Neri e Cosimo Barranca. E tanti altri casi di consiglieri e assessori di comuni dell’hinterland di Milano che la ‘ndrangheta considera, a torto o a ragione, “a disposizione”.

L’operazione Crimine-Infinito del 13 luglio 2010 “ha messo in luce le connessioni delle cosche con 13 esponenti politici lombardi”, ricordava l’anno scorso Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a reggio Calabria.”Sindaci, assessori, consiglieri comunali, provinciali e regionali, deputati e semplici candidati. I media ne hanno parlato per qualche giorno poi niente più”. L’iniziativa di Civati e Cavalli, dice a ilfattoquotidiano.it, va bene ma è “un palliativo”, perché “i candidati puliti possono anche essere specchietti per le allodole infilati tra faccendieri a sostegno di candidati sindaci collusi con la ‘ndrangheta”. Secondo Gratteri, meglio sarebbe “agire a monte, sulla scelta dei candidati, con una legge elettorale diversa e con le primarie”. Il magistrato conferma che il voto mafioso esiste in Lombardia, come in Piemonte e in Liguria, “da decenni”. Le locali di ‘ndrangheta si danno da fare ” a destra come a sinistra”. E’ vero, sono “minoranze, ma qualificate e organizzate in blocco, mentre la società civile va alle urne in ordine sparso”.