La pandemia no non ci ha reso tutti uguali e secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’economista francese Thomas Piketty «ha esacerbato le diseguaglianze». «Le stesse grandi compagnie di Internet, fino a ieri impegnate in pratiche di elusione fiscale, sono state le principali beneficiarie del coronavirus», ha detto Stiglitz durante la conferenza stampa virtuale convocata dalla Commissione indipendente per la riforma della fiscalità internazionale d’impresa (Icrict) e dall’Ong Oxfam.
Facebook, Amazon, Apple, Alphabet, Google nel cuore dell’Europa, in Irlanda, «pagano tasse su una frazione del loro fatturato», dicono i due economisti che propongono anche un soluzione: un regime fiscale minimo. «Sarà molto difficile», ha detto Piketty, ma il fatto che tutta l’Europa stia riflettendo sul debito e stia muovendo somme impensabili potrebbe fare ritrovare il coraggio di parlarne una volta per tutte.
Eppure se ci pensate sono molte le disuguaglianze di cui si è discusso durante l’epidemia, quando davvero si credeva che potesse essere messo in discussione almeno un pezzo di sistema e invece è tornato già tutto nei binari normali. Anche gli eroi si sono già normalizzati, rientrati nei ranghi. Infermieri, insegnanti e perfino i rider, quelli che ringraziavamo ogni giorno su tutte le prime pagine dei giornali, sono finiti ancora nelle retrovie. La scuola è rimasta l’ultima preoccupazione del governo che non ha riaperto le aule e che non sa ancora quando e come si riapriranno mentre ci si assembra sui campi da calcio e nelle manifestazioni politiche. Gli artisti che hanno addolcito la quarantena sono lasciati a inventarsi qualcosa. Lo spettacolo dal vivo è ripartito claudicante.
Tutto bene, tutto normale. Che affare, la pandemia, per i ricchi che sono rimasti ricchi e non sono nemmeno stati messi in discussione. Che affare, la pandemia, per gli eroi che hanno avuto i loro 5 minuti di notorietà e ora devono tornare ai loro posti.
Buon mercoledì.
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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.
E niente. Alla fine tra le polemiche inutili ci possiamo aggiungere anche quella sul premio Nobel a Bob Dylan. Sono solo canzonette, dicono. E lo dicono nello stesso in giorno in cui muore Dario Fo che era solo un comico, e che schifo dare il premio della letteratura a un giullare. Corsi e ricorsi storici della banalità che attraversa la storia, i tempi e i popoli.
Quelli che si incaponiscono sulla forma che deve avere la letteratura, quelli che vorrebbero essere possessori della formula matematica dell’ispirazione, quelli che aprono scuole di scrittura (molto “smart”, molto “cool”, molto “fast”) e schifano Bob Dylan oppure quelli che vorrebbero che scrittori fossero gli scriventi e magari poeti quelli che fanno una rima.
Di Bob Dylan, comunque, c’è una lettura che vale la pena collezionare, tenere nella nostra libreria ed è questo piccolo librino in cui Dylan gioca con le parole, il senso e il loro suono. Perché forse la letteratura più di essere qualcosa di scritto è qualcosa che imprime e l’orma di Dylan, beh, l’orma di Dylan rimarrà a lungo. Con e senza Nobel. Per fortuna.
Ecco la presentazione dell’editore:
Scritto tra il 1965 e il 1966 e pubblicato nel 1971, “Tarantula” è un’opera composita che raccoglie versi, apologhi, giochi di parole, parabole, mostrando gusto del nonsense e saggezza zen. Un’opera pensata, strutturata e agita con la deliberata intenzione di sfidare la lingua scritta e di condurla ai limiti estremi dell’ambiguità fonetica e del senso. I suoi temi sono l’America del dopo Kennedy, l’estasi e l’ossessione del sesso, la violenza del mondo e dei rapporti umani, la guerra del Vietnam e, al di sopra di tutto, la salvezza promessa dalla musica. In questa nuova edizione la prima traduzione italiana è stata interamente rivista, e innumerevoli livelli di significato sono stati portati per la prima volta alla luce. La “Guida alla lettura” che conclude il volume permette di esplorare un testo affascinante e ancora tutto da scoprire.
Il libro lo trovate qui nella nostra libreria Bottega dei Mestieri Letterari dove trovate alcuni dei miei libri e ogni giorno un libro in più sullo scaffale dei libro che secondo noi bisognerebbe avere. Fateci un salto, ditemi cosa ne pensate.
Ho provato ad affogare i miei dolori, ma hanno imparato a nuotare.
(Frida Kahlo)
Troppo liquido per sottostare alle perversioni architettoniche dei potenti che appendono le maschere del loro digrignar di denti a muri o fili spinati e troppo largo o lungo per essere piantonato da chi vorrebbe comprarsi tutte le strade per dettare i cammini degli altri: il mare premia gli esploratori con il cuore dolce nonostante i capelli infeltriti dal sale. Le onde di Lampedusa o di Lesbo indicano la via lattea dei soccorsi.
Il mare è antigovernativo perché in questi anni continua a bisbigliarci che non si possono incanalare i bisogni, ci insegna che la disperazione fugge ai recinti e che gli affamati muoiono di acqua nei polmoni piuttosto che lasciare vincere l’inedia. Se la politica rincorre decisioni stupide e inutili il mare se ne frega, continua a fare il mare. E il mare è così tanto che diventa ridicolo il tiranno quando, ubriaco da hybris, promette di asciugarlo per fargliela pagare.
Il mare e le sue coste hanno una legge non eludibile: si soccorre sempre, si soccorre tutti. Chissà quando è successo che una legge così semplicemente giusta sia stata buttata a mare e non ce ne siamo accorti. Il mare e i suoi abitanti l’hanno custodita per secoli e ce l’hanno portata fin qui.
E poi il mare è inesorabile: inghiotte i corpi che non siamo riusciti a salvare ma li sputa sulle coste. Sarebbe troppo semplice tenerseli in pancia: eccoli lì i nostri morti. Per avere cura della pace non bisogna avere pace delle nostre disaffezioni.
Ecco, io credo che stia facendo un gran lavoro, il mare. Lui, i suoi marinai e i suoi abitanti delle sue coste.
«Le definizioni qualificano i “definitori”, non i “definiti”» ha detto di recente all’Economist la scrittrice premio Nobel Toni Morrison. La definizione «sguattera del Guatemala» ha richiamato nella mente di molti – ovviamente per contrasto – un altro premio Nobel (per la Pace, nel ’92), Rigoberta Menchu Tum. Migrante, bracciante, domestica, attivista dei diritti umani, Rigoberta ha ricevuto il riconoscimento per il suo operato volto a promuovere «la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene».
La parola “sguattero” (con la “s” iniziale rafforzativa di “guattero”) deriva probabilmente dal longobardo wathari, guardiano, e che questo termine ha la stessa radice della parola acqua in inglese, water. Nel senso etimologico del termine, è una sguattera Rigoberta e lo è chiunque agisca prendendosi cura della collettività e delle risorse, tutti i custodi dell’acqua e della terra. Che cos’è e come si qualifica chi utilizza in termine spegiativo questo termine lo spiega bene la stessa attivista guatemalteca nel suo “Mi chiamo Rigoberta Menchu”, quando racconta chi è «l’eletto» nella sua comunità.
«Forse la maggior parte delle cose che facciamo è basata su quel che facevano i nostri antenati. Per questo abbiamo l’eletto, che è la persona che riunisce in sé tutti i requisiti, ancor validi, che i nostri antenati sapevano riunire. È la persona più importante della comunità, i figli di tutti sono suoi figli, insomma è quello che deve mettere in pratica tutto quanto. E più di tutto, è il rappresentante dell’impegno nei confronti dell’intera comunità. In questo senso, quindi, tutto quel che si fa lo si fa tenendo presenti gli altri»
Da un po’ di tempo Bosmans ripensava a certi episodi della sua giovinezza, episodi incoerenti, tronchi, visi senza nome, incontri fugaci. Tutto ciò apparteneva a un lontano passato, ma poiché quelle brevi sequenze non erano legate al resto della sua vita, esse rimanevano in sospeso, in un eterno presente. Non avrebbe mai smesso di farsi domande in proposito, e non avrebbe mai avuto risposte. Per lui quei brandelli sarebbero stati sempre enigmatici. Aveva cominciato a compilare un elenco cercando comunque di individuare dei punti di riferimento: una data, un luogo preciso, un cognome con un’ortografia incerta. Aveva comperato un taccuino moleskine nero che teneva nella tasca interna della giacca, cosa che gli permetteva di scrivere appunti in qualunque momento della giornata, ogni volta che uno dei ricordi intermittenti gli attraversava la mente. Aveva la sensazione di dedicarsi a un rompicapo. Tuttavia, man mano che risaliva il corso del tempo, a volte provava un rimorso: perché aveva scelto quella strada e non un’altra? Perché aveva lasciato che quel viso o quella figura con in testa una strana toque di pelliccia e che teneva un cagnolino al guinzaglio si perdesse nell’ignoto? Al pensiero di ciò che sarebbe potuto essere e non era stato, veniva colto da una vertigine.
Quei frammenti di ricordi corrispondevano agli anni in cui la tua vita è disseminata di bivi, in cui ti si aprono cosí tante strade da avere l’imbarazzo della scelta. Le parole di cui riempiva il taccuino gli evocavano l’articolo inerente la «materia oscura» che aveva mandato a una rivista di astronomia. Dietro agli avvenimenti precisi e ai visi familiari avvertiva tutto ciò che era diventato materia oscura: brevi incontri, appuntamenti mancati, lettere perdute, nomi e numeri di telefono scritti su una vecchia agenda che non ricordi piú, e uomini e donne che hai incrociato senza nemmeno saperlo. Come in astronomia, la materia oscura era piú vasta rispetto alla parte visibile della tua vita. Era infinita. E lui registrava sul taccuino qualche debole scintillio in fondo all’oscurità. Scintillii tanto deboli che chiudeva gli occhi e si concentrava alla ricerca di un dettaglio evocatore che gli permettesse di ricostruire l’insieme, ma l’insieme non c’era, solo frammenti, polvere di stelle. Avrebbe voluto tuffarsi nella materia oscura, riannodare uno a uno i fili spezzati, sí, ritornare indietro per trattenere le ombre e saperne qualcosa di piú. Impossibile. Allora non restava che ritrovare i cognomi. O anche i nomi. Servivano da calamita. Facevano rinascere impressioni vaghe difficili da chiarire. Chissà se appartenevano al sogno o alla realtà?
Mérovée. Un cognome o un soprannome? Non bisognava concentrarsi troppo su quel punto, per paura che lo scintillio si spegnesse una volta per tutte. Era già tanto averlo segnato sul taccuino. Mérovée. Fare finta di pensare a qualcos’altro era l’unico modo perché il ricordo si precisasse da solo, spontaneamente, senza forzarlo. Mérovée.
Camminava lungo l’avenue de l’Opéra, verso le sette di sera. Chissà se era quella l’ora, quello il quartiere vicino ai Grands Boulevards e alla Bourse? Adesso gli appariva il viso di Mérovée. Un ragazzo con i capelli biondi e ricci che indossava un gilet. Lo vedeva persino vestito in livrea – uno di quei portieri all’entrata dei ristoranti o alla reception dei grandi alberghi, con un’aria da bambino invecchiato precocemente. Anche lui, Mérovée, aveva il viso rugoso nonostante la giovane età. Pare che ci si dimentichi le voci. Eppure sentiva ancora il timbro della sua voce – un timbro metallico, un tono prezioso per pronunciare insolenze come quelle di un Gavroche o di un dandy. E poi, di colpo, una risata da vecchio. Era dalla parti della Bourse, verso le sette di sera, all’uscita dal lavoro. Gli impiegati defluivano in gruppi compatti ed erano cosí numerosi da spingerti sul marciapiede e trascinarti nel flusso. Quel Mérovée e altre due o tre persone dello stesso gruppo uscivano dall’edificio. Un ragazzone con la pelle bianca, inseparabile da Mérovée, beveva le sue parole con aria impaurita e insieme ammirata. Un biondo con il viso ossuto portava degli occhiali scuri e un grosso anello al dito, e in genere se ne stava in silenzio. Il piú vecchio doveva avere circa trentacinque anni. Nei ricordi di Bosmans, il suo viso era ancora piú nitido di quello di Mérovée, un viso appesantito con un naso corto che, sotto i capelli bruni schiacciati all’indietro, gli dava un’aria da bouledogue. Non sorrideva mai e si dimostrava molto autoritario. A Bosmans era sembrato di capire che fosse il loro capoufficio. Parlava in tono severo, come se fosse deputato alla loro educazione, e gli altri lo ascoltavano da bravi alunni. Solo ogni tanto Mérovée si permetteva un commento insolente. Gli altri membri del gruppo, Bosmans non se li ricordava. Ombre. Il disagio, che quel nome, Mérovée, gli causava, lo aveva provato di nuovo quando gli erano tornate alla mente due parole: «L’Allegra Compagnia».
Una sera in cui Bosmans aspettava come al solito Margaret Le Coz davanti all’edificio, Mérovée, il capoufficio e il biondo con gli occhiali scuri erano usciti per primi e si erano diretti verso di lui. Il capoufficio gli aveva chiesto a bruciapelo:
– Vorrebbe far parte dell’Allegra Compagnia?
E Mérovée aveva fatto la sua risata da vecchio. Bosmans non sapeva cosa rispondere. L’Allegra Compagnia? L’altro, con il viso sempre severo, lo sguardo duro, gli aveva detto: – Siamo noi l’Allegra Compagnia, – e Bosmans aveva considerato la cosa piuttosto comica per via del tono lugubre che lui aveva assunto. Ma guardandoli bene, tutti e tre, quella sera se li era immaginati lungo i boulevard, con grossi bastoni in mano a colpire ogni tanto un passante di sorpresa. E, ogni volta, si sarebbe udita la risata stridula di Mérovée. Aveva detto loro:
– Per quanto riguarda l’Allegra Compagnia… lasciatemi un po’ di tempo per pensare.
Gli altri parevano delusi. In fondo li aveva conosciuti da poco. Era rimasto da solo con loro non piú di cinque o sei volte. Lavoravano nello stesso ufficio di Margaret Le Coz ed era stata lei a presentarglieli. Il bruno con la faccia da bouledogue era il suo superiore e Margaret doveva dimostrarsi gentile con lui. Un sabato pomeriggio li aveva incontrati sul boulevard des Capucines, Mérovée, il capoufficio e il biondo con gli occhiali scuri. Uscivano da una palestra. Mérovée aveva insistito perché andasse con loro a farsi «un bicchiere e un macaron». Si era ritrovato sull’altro lato del boulevard seduto a un tavolino della sala da tè La Marquise de Sévigné. Mérovée sembrava entusiasta di averli portati in quel locale. Si rivolgeva a una delle cameriere come un habitué e ordinava con voce perentoria «tè e macaron». Gli altri due lo consideravano con una certa indulgenza, cosa che da parte del capoufficio, solitamente cosí severo, aveva stupito Bosmans.
– Allora per la nostra Allegra Compagnia… ha preso una decisione?
Mérovée aveva rivolto la domanda a Bosmans con un tono asciutto e questi cercava una scusa per alzarsi da tavola. Dicendo loro, per esempio, che doveva andare a telefonare. Li avrebbe piantati in asso. Ma pensava a Margaret Le Coz, che era loro collega. Rischiava di incontrarli di nuovo, ogni sera, quando veniva a prenderla.
– Allora, le andrebbe di essere membro della nostra Allegra Compagnia?
Mérovée insisteva, sempre piú aggressivo, come se volesse provocare Bosmans. Sembrava che gli altri due si preparassero a seguire un incontro di boxe, il bruno con la faccia da bouledogue con un lieve sorriso, il biondo impassibile dietro gli occhiali scuri.
– Sa, – aveva dichiarato Bosmans con voce calma, – fin dai tempi del collegio e del servizio militare non mi piacciono molto le bande.
Mérovée, sconcertato dalla risposta, aveva fatto la sua risata da vecchio. Avevano parlato d’altro. Il capoufficio, con voce grave, aveva spiegato a Bosmans che frequentavano la palestra due volte a settimana. Praticavano diverse discipline, fra cui la boxe francese e il judo. E c’era perfino una sala d’armi con un professore di scherma. E di sabato ci si iscriveva per una «corsa campestre» o una «pista» al Bois de Vincennes.
– Dovrebbe venire con noi a fare un po’ di sport…
Bosmans aveva la sensazione che gli stesse dando un ordine.
– Sono sicuro che non fa abbastanza sport…
Lo fissava dritto negli occhi e Bosmans faticava a reggere il suo sguardo.
– Allora verrà con noi a fare un po’ di sport?
La sua facciona da bouledogue era illuminata da un sorriso.
– Va bene un giorno della prossima settimana? La iscrivo in rue Caumartin?
Questa volta Bosmans non sapeva piú cosa rispondere. Sí, quell’insistenza gli ricordava i tempi del collegio e del servizio militare.
– Prima mi aveva detto che non le piacevano le bande, vero? – gli chiese Mérovée con una voce acuta. – Senz’altro preferisce la compagnia di Mademoiselle Le Coz?
Gli altri due parevano a disagio per quel commento. Mérovée continuava a sorridere, tuttavia sembrava temere la reazione di Bosmans.
– Ma sí, è cosí. Ha senz’altro ragione, – aveva risposto piano Bosmans.
Li aveva lasciati sul marciapiede. Si allontanavano nella folla, il capoufficio e il biondo con gli occhiali scuri camminavano fianco a fianco. Mérovée leggermente indietro si girava e gli rivolgeva un cenno di addio. E se la memoria lo ingannasse? Forse era un’altra sera, alle sette davanti agli uffici, quando aspettava l’uscita di Margaret Le Coz.
Qualche anno dopo, verso le due di notte, attraversava in taxi l’incrocio fra rue du Colisée e avenue Franklin Roosevelt. Il tassista si fermò al semaforo. Proprio di fronte, sul bordo del marciapiede, c’era una persona immobile, rigidissima, vestita con una mantella nera, i piedi nudi in un paio di sandali alla schiava. Bosmans riconobbe Mérovée. Il viso era smagrito, i capelli tagliati corti. Stava lí, di sentinella, e al passaggio delle rare automobili abbozzava ogni volta un sorriso. O meglio un rictus. Sembrava che battesse il marciapiede per i clienti d’oltretomba. Era una notte di gennaio particolarmente fredda. Bosmans voleva raggiungerlo, parlargli, ma pensò che l’altro non lo avrebbe riconosciuto. Lo vedeva ancora attraverso il finestrino posteriore, finché l’automobile svoltò alla rotatoria. Non poteva staccare gli occhi da quella figura immobile in mantella nera, e di colpo si ricordò il ragazzone con la pelle bianca che accompagnava spesso Mérovée e sembrava ammirarlo tanto. Che fine aveva fatto?
Di fantasmi simili ne aveva decine e decine. Impossibile attribuire un nome alla maggioranza di essi. Allora si accontentava di scrivere una vaga indicazione sul taccuino. La ragazza bruna con la cicatrice che si trovava ogni giorno alla stessa ora sulla linea di metrò Porte-d’Orléans/Porte-de- Clignancourt… Il piú delle volte era una via, una stazione del metrò, un caffè ad aiutarli a riemergere dal passato. Ricordava la barbona in gabardine, la camminata di una ex modella che aveva incrociato a piú riprese in diversi quartieri: rue du Cherche- Midi, rue de l’Alboni, rue Corvisart…
Si era stupito che tra i milioni di abitanti presenti in una grande città come Parigi, ci si potesse imbattere nella stessa persona, a distanza di tanto tempo, e ogni volta in un luogo molto lontano dal precedente. Aveva chiesto un parere a un amico che faceva calcoli probabilistici, per giocare alle corse, consultando i numeri del giornale «Paris Turf» degli ultimi venti anni. No, non c’era nessuna spiegazione. Allora Bosmans aveva pensato che il destino a volte insiste. Incontri due, tre volte la stessa persona. E, se non le rivolgi la parola, allora peggio per te.
Spesso giro il mondo, per fare discorsi, e la gente mi fa domande sulle sfide, sui miei momenti, sui miei rimpianti. 1998: Mamma single, di 4 bambini, tre mesi dopo la nascita del mio quarto figlio andai a lavorare, come assistente ricercatrice, nella Liberia del nord. Come parte del contratto, il villaggio ci forniva un alloggio. Mi diedero un alloggio con una madre single e sua figlia.
La ragazza era l’unica ragazza di tutto il villaggio che era arrivata alla prima superiore. Era lo zimbello della comunità. Altre donne dicevano a sua madre: “Tu e tua figlia morirete povere”. Dopo due settimane di lavoro in quel villaggio, fu tempo di rientrare. La madre venne da me, in ginocchio, e mi disse: “Leymah, prendi mia figlia. Voglio che diventiun’infermiera”. Poverissima, vivevo a casa con i miei genitori, non potevo permettermelo.Con le lacrime agli occhi, dissi “No”.
Due mesi dopo, visitai un altro villaggio per lo stesso incarico e mi chiesero di vivere con il capo del villaggio. Il capo delle donne del villaggio aveva una bambina, come me, la pelle chiara, sporca da capo a piedi. Se ne andava in giro tutto il giorno in mutande. Quando chiesi: “Chi è quella?” mi disse: “Quella è Wei. Il suo nome significa maiale. Sua madre è morta dandola alla luce, e nessuno sa chi sia il padre”. Per due settimane, diventò la mia compagna, dormiva con me. Le comprai vestiti usati e le comprai la sua prima bambola. La sera prima di partire, venne in camera da me e disse: “Leymah non lasciarmi qui. Voglio venire con te. Voglio andare a scuola.” Poverissima, senza soldi, in casa con i miei genitori, ancora una volta dissi: “No”. Due mesi dopo, entrambi i villaggi furono coinvolti in un’altra guerra. Ad oggi, non ho idea di dove siano quelle due ragazze.
Avanti veloce, 2004: al culmine del nostro attivismo, il ministro per la parità della Liberia mi chiamò e disse: “Leymah, ho una bimba di nove anni per te. Voglio che la porti a casaperché non abbiamo case sicure”. La storia di questa ragazzina: Era stata violentata dal nonno paterno, tutti i giorni, per sei mesi. Venne da me tutta gonfia, molto pallida. Tutte le sere tornavo dal lavoro e mi sdraiavo sul pavimento freddo. Lei si sdraiava accanto a me e diceva: “Zia, voglio stare bene. Voglio andare a scuola.”
2010: Una giovane donna, di fronte al Presidente Sirleaf, testimonia di come lei e i suoi fratelli vivessero insieme, il loro padre e la loro madre morti durante la guerra. Lei ha 19 anni; il suo sogno è andare all’università per poterli aiutare. È molto atletica. E succede chesi candida per una borsa di studio. Una borsa di studio completa. La ottiene. Il suo sogno di andare a scuola, il suo desidero di ricevere un’istruzione, alla fine si avvera. Va a scuola il primo giorno. Il direttore degli sport, responsabile per averla inserita nel programma le chiede di uscire dall’aula. E nei 3 anni successivi, il suo destino sarà avere relazioni sessuali con lui ogni giorno, come favore per averla fatta entrare a scuola.
Globalmente, abbiamo delle regole, strumenti internazionali, dirigenti che lavorano. Grandi persone hanno preso impegni — proteggeremo i nostri figli dal bisogno e dalla paura. Le Nazioni Unite hanno la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia. Paesi come gli Stati Uniti hanno la legge No Child Left Behind [Nessun bambino lasciato indietro]. Altri paesi fanno cose diverse. Uno degli obiettivi di sviluppo del millennio chiamato Three si focalizza sulle bambine. Tutti questi grandi lavori di grandi persone con lo scopo di portare i giovani dove vogliamo che vadano globalmente, credo abbiano fallito.
In Liberia, per esempio, il tasso di gravidanza tra le adolescenti è di 3 ogni 10 ragazze. La prostituzione tra le adolescenti è al suo massimo. In una comunità, ci dicono, ti alzi la mattina e vedi preservativi usati come se fossero carte di caramelle. Le ragazze di appena 12 anni si prostituiscono per meno di un dollaro a notte. È scoraggiante, è triste. E poi qualcuno mi ha chiesto, poco prima che parlassi a TED, qualche giorno fa: “Dov’è la speranza?”
Diversi anni fa, alcuni amici decisero che era arrivato il momento di colmare il vuoto tra la nostra generazione e la generazione delle giovani donne. Non è sufficiente dire di avere due premi Nobel nella Repubblica di Liberia, se le vostre ragazzine sono del tutto abbandonate,senza speranza, o sembrano senza speranza. Abbiamo creato uno spazio chiamato Young Girls Transformative Project [Progetto di Trasformazione per le Ragazze]. Andiamo nelle comunità rurali e tutto quello che facciamo, come è stato fatto in questa sala, è creare lo spazio. Quando queste ragazze si siedono, si dà spazio alla loro intelligenza, alla loro passione, al loro impegno, alla loro determinazione, si dà spazio a delle grandi leader.Finora abbiamo lavorato con più di 300 di loro. E alcune di queste ragazze che sono entrate nella stanza molto timide hanno fatto passi da gigante, da giovani madri, per tornare nel mondo e promuovere i diritti di altre giovani donne.
Una giovane donna che ho incontrato, madre adolescente di 4 bambini, che non aveva mai pensato di finire le superiori, si è diplomata con successo; non aveva mai pensato di andare all’università, si è iscritta all’università. Un giorno mi ha detto: “Il mio desiderio è finire l’università ed essere in grado di crescere i miei figli”. Al momento non riesce a trovare il denaro per andare a scuola. Vende acqua, vende bibite e vende ricariche del telefono. Potreste pensare che, quei soldi, li investe nella propria istruzione. Si chiama Juanita. Prende quei soldi e cerca madri single, nella sua comunità da rimandare a scuola.Dice: “Leymah, il mio desiderio è avere un’istruzione. E se non posso avere un’istruzionequando vedo le mie sorelle con un’istruzione, il mio desiderio si è avverato. Desidero una vita migliore. Desidero cibo per i miei bambini. Desidero che si metta fine agli abusi sessuali e allo sfruttamento nelle scuole.” Questo è il sogno della Ragazza Africana.
Diversi anni fa, c’era una ragazza africana il cui figlio desiderava un pezzo di ciambellaperché aveva molta fame. Furiosa, frustrata, molto preoccupata per le condizioni della sua società e dei suoi figli, questa ragazza ha dato il via a un movimento, un movimento di donne comuni che si sono riunite per la pace. Io esaudirò il desiderio. Questo è il desiderio di un’altra Ragazza Africana. Ho fallito nell’esaudire il desiderio di quelle due ragazze. Ho fallito. Questi erano i pensieri che passavano per la mente di questa giovane donna — ho fallito, ho fallito, ho fallito. Quindi farò questo. Le donne si sono esposte, per protestare contro un feroce dittatore, parlando con coraggio. Non solo il desiderio di un pezzo di ciambella è diventato realtà, il desiderio di pace è diventato realtà. Questa giovane donnadesiderava anche andare a scuola. È andata a scuola. Questa giovane donna desiderava altre cose, che si sono avverate.
Oggi, questa giovane donna sono io, sono un premio Nobel. Ora sto intraprendendo un percorso per esaudire il desiderio, delle bambine africane con le mie limitate capacità — il desiderio di ricevere un’istruzione. Abbiamo creato una fondazione. Diamo borse di studio complete di 4 anni a ragazze di villaggi che mostrano un potenziale.
Non ho molto da chiedervi. Sono stata anche in zone degli Stati Uniti, e so che anche le ragazze di questo paese hanno dei sogni, il sogno di una vita migliore, da qualche parte nel Bronx, sogni di una vita migliore da qualche parte nel centro di Los Angeles, sogni di una vita migliore da qualche parte nel Texas, sogni di una vita migliore da qualche parte a New York, sogni di una vita migliore da qualche parte nel New Jersey.
Volete accompagnarmi nell’aiutare quella ragazza, che sia una ragazza africana o una ragazza americana o una ragazza giapponese, a esaudire il suo desiderio, a esaudire il suo sogno, a realizzare il suo sogno? Perché tutti questi grandi innovatori, questi inventori con cui abbiamo parlato e che abbiamo visto in questi ultimi giorni sono anche loro seduti in un angolo in diverse parti del mondo, e tutto quello che ci chiedono di fare è creare quello spazio per liberare l’intelligenza, liberare la passione, liberare tutte quelle belle cose che loro trattengono dentro di sé. Facciamo la strada insieme. Facciamola insieme.
Grazie.
(Applausi)
Chris Anderson: Grazie infinite. Oggi in Liberia, qual è il problema che più la preoccupa?
LG: Mi è stato chiesto di guidare l’Iniziativa di Riconciliazione Liberiana. In quanto parte del mio lavoro, faccio queste visite in diversi villaggi, nelle città — 13, 15 ore su strade sconnesse — e in nessuna delle comunità in cui sono stata mancavano le ragazze intelligenti. Purtroppo, la visione di un grande futuro, il sogno di un grande futuro, è solo un sogno, perché abbiamo tutti questi problemi. La gravidanza in età adolescenziale, è diffusissima.
Quello che mi preoccupa è che io stessa ero una di loro e in qualche modo ora sono qui, e vorrei non essere l’unica ad essere qui. Cerco di fare in modo che altre ragazze siano con me. Tra 20 anni voglio guardarmi indietro e vedere un’altra ragazza liberiana, una ragazza del Ghana, una ragazza nigeriana, una ragazza etiope sul palco di TED. E forse, dico forse, dirà: “Grazie a quel premio Nobel oggi sono qui.” Sono preoccupata quando vedo che in loro non c’è speranza. Tuttavia non sono pessimista, perché so che non ci vuole molto per dare loro la carica.
CA: E in quest’ultimo anno, ci dica una cosa incoraggiante che ha visto accadere.
LG: Le posso parlare di molte cose incoraggianti che ho visto accadere. Ma nell’ultimo anno, siamo andate nel villaggio da cui proviene il presidente Sirleaf per lavorare per quelle ragazzine. E non c’erano neanche 25 ragazze alle scuole superiori. Tutte le ragazze andavano alle miniere d’oro, ed erano in prevalenza prostitute, che facevano altre cose.Abbiamo preso 50 di queste ragazze e abbiamo lavorato con loro. Eravamo all’inizio delle elezioni. Questo è un luogo dove le donne — anche le più anziane a malapena si siedono accanto agli uomini. Queste ragazze si sono riunite, hanno formato un gruppo e hanno lanciato una campagna per registrare gli elettori. È un villaggio molto rurale. Il tema che hanno usato è stato: “Anche le ragazze carine votano.” Sono riuscite a mobilitare le giovani donne.
Ma non hanno fatto solo questo, sono andate dai candidati a chiedere: “Cosa farete alle ragazze di questa comunità se vincerete?” E uno di loro che aveva già un incarico — perché la Liberia ha una delle più forti leggi contro lo stupro, e lui era uno di quelli che in parlamento si batteva per far revocare quella legge perché diceva che era barbara. Lo strupro non è una barbarie, la legge lo è, diceva. Quando le ragazze hanno iniziato a coinvolgerlo, lui era molto ostile nei loro confronti. Queste ragazzine si sono rivolte a lui e gli hanno detto: “Voteremo per toglierle l’incarico.” Oggi non ha più l’incarico.
(Applausi)
CA: Leymah, grazie. Grazie di essere venuta a TED.
Stamane è giunto un messaggio di solidarietà verso Giulio Cavalli da parte del Premio Nobel Dario Fo e della Moglie Franca Rame.
“In un dialogo in catalano antico fra un contadino e un giullare che si lamentava per le angherie e le minacce subite di continuo ad opera di sconosciuti, il villano chiedeva al fabulatore: “Ma di cosa ti minacciano?” . Il giullare rispondeva: “Addirittura di spaccarmi la testa ” e il villano commentava: “Accidenti! Devi avere un gran cervello in quel cranio! E’ quello che fa paura ai mascalzoni e ai tiranni. Vuol dire anche che sai far ridere delle loro angherie: la risata è l’atto più insopportabile per i potenti e i prepotenti. Hai tutta la mia ammirazione. Grazie.” così terminò il villano offrendo al giullare un calice di vino e la sua colazione. A nostra volta, Franca ed io, ti diciamo caro Giulio: Grazie.”